Presentato in prima istanza come – fantastico! – ambiente per realizzare fiabe e racconti per bambini, Gemini Storybook è invece un attendibilissimo testimone di alcune delle mie più solide tesi.
In primo luogo, infatti, ne andrebbe verificata l’ecocompatibilità, soprattutto in considerazione del fatto che produce una grande quantità di immagini “accattivanti”, cioè davvero capaci di catturare l’attenzione e la voglia di provare degli utenti dei servizi generativi di Google – che sono una marea di cittadini del mondo occidentale, la cui età media è per di più in costante crescita, così come le quote di nonnità interessate a diventare contastorie digitali, magari in interazione con la progenie.
In secondo luogo, Storybook conferma la mia opinione secondo cui è frettoloso – e intellettualmente disonesto – spacciare le (proprie, individuali o istituzionali) conoscenze e capacità raggiunte come architettura fondativa, syllabus, framework o quant’altro induca a staticità: siamo ancora (e per fortuna!) nel campo dell’orientamento e dell’esplorazione.
Giocando per decostruire e decostruendo per giocare, si scoprono infatti potenzialità e opportunità varie. Cercandole o trovandole per caso.
Ho per esempio cercato come modificare una “storia” generata in automatico. Il sistema prevede che l’utente dia indicazioni e il dispositivo corregga. Ma ogni narrazione è in realtà una conversazione nella logica tipica delle chatbot, che può quindi essere condivisa mediante link pubblico come qualsiasi altra, rendendo di conseguenza editabile il materiale di cui si compone, testo e immagini, come rappresentato di seguito.
| Immagine prodotta da Gemini Storybook | Immagine integrata con gatto sul letto |
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Una terza conferma è stata la valenza di apprendimento del gioco, inteso come “sfida” al dispositivo: “Vediamo se riesce a… producendo qualcosa dotato di senso, che valga la pena di far vedere ad altri perché offre spunti narrativi e magari anche narratologici”.
E Gemini Storybook ha vinto parecchie sfide, pur scontando qualche imperfezione nel lessico e nella pronuncia.
Altra scoperta è stato il fatto che, proseguendo nella stessa conversazione, si possono ottenere sviluppi della narrazione, coerenti nell’impostazione grafica, nel contesto, nelle caratteristiche dei personaggi e consequenziali nelle vicende.
Le “storie”, inoltre, possono anche essere destinate ad adulti, con valenze di mediazione culturale, di intenzione cognitiva e di approccio relazionale molto varie.
Il tutto in diverse lingue, come stiamo per vedere attraverso alcuni esempi.
Cominciamo con la rivisitazione della trama di un famosissimo film, operazione che io ho innescato per auto-intrattenimento, ma che può certamente avere anche impieghi didattici.
Continuiamo con una sorta di docu-fiction sulla storia di Google Search, in inglese e sottotitolata:
Quasi non credevo ai miei occhi quando è comparso questo libretto:
Ecco ora il turno di un apologo ironico – il primo di una serie, il cui protagonista ha il compito di far riflettere i fruitori sulla necessità di precisione linguistica, che apprezza “dispositivo” e sconfessa “strumento”.
Tocca a un Giulio Cesare rigorosamente in terza persona, anche se in un latino un po’ maccheronico:
Non poteva mancare un tentativo nel campo del dialetto e delle maschere:
Del video che segue mi interessa sottolineare non tanto il fatto che sia in francese, quanto la capacità del dispositivo di ibridare Corto Maltese e Jean Valjan:
Francesco d’Assisi è invece l’occasione per verificare la capacità di imitare il volgare dell’epoca:
Chiudiamo con una storia che segnala di nuovo capacità di ibridazione, ma in tono ironico:
Insomma, un dispositivo poliedrico che ci invita a essere a nostra volta poliedrici.
PS: le storie sono state registrate come video per semplificare la confezione di questo materiale.

