Quieto vivere

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Lo scenario è la biblioteca di un istituto scolastico, adibita anche a Aula Magna, ovvero a luogo di elezione per le assise collegiali di grande importanza. In sala mezza dozzina di persone, insegnanti e addetti a compiti amministrativi e tecnici. In alto, acceso, un videoproiettore connesso a un personal computer portatile. Sullo schermo, la videata tipica di Skype, il servizio VOIP (Voice Over Internet Protocol) più famoso e utilizzato al mondo, per il cui avvio è stato convocato niente meno che il responsabile della rete digitale della scuola. E così, alle 14.30, con un semplice click del mouse istituzionale, parte solennemente l’evento per cui i convenuti sono lì, ovvero una videoconferenza sul tema della “Sicurezza”.

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La tradizione orale dice infatti che frequentare un corso su questo tema (le cui vastità e vaghezza sono impressionanti) sia obbligatorio per legge (quale legge nessuno lo sa con precisione) per tutto il personale della scuola. Si è costretti a 6 incontri di due ore ciascuno e i presenti si interrogano su quali siano le conseguenze di un’eventuale mancata partecipazione, ma – di nuovo – nessuno è in grado di rispondere al quesito.

A parlarci di “Sicurezza” è un personaggio a proposito del quale il sistema di comunicazione fornisce soltanto nome e cognome e l’informazione aggiuntiva che si troverebbe a New York, con però la strana contraddizione rappresentata dall’ora indicata, quella italiana. Il suo ragionamento ha inizio senza una parola di presentazione o di contestualizzazione. È il foglio di firma delle presenze a informarmi che in effetti sto frequentando – si fa per dire! – il modulo 1.3 e che nell’ora successiva passerò al modulo 1.4. E così capisco che prima o poi affronterò i moduli 1.1 e 1.2. Il tutto senza alcun programma e senza alcuna titolazione, sarebbe pretendere troppo.

Mentre trovo risposta alle mie prime domande, sullo schermo compare l’immagine fissa del viso e delle spalle del relatore, in camicia e cravatta, senza giacca. Null’altro; non una slide, non uno schema, nemmeno un appunto via chat sui concetti essenziali. Progressivamente comprendo che il misterioso esperto – che nel frattempo ci sta spiegando in modo prolisso e con tono piatto che nel caso di cinema, teatri, palazzetti dello sport una fila di nove sedili è più lunga da percorrere di una fila di sette, soprattutto per l’eventuale utente di quello centrale – è fisicamente collocato in una scuola dell’infanzia della provincia lombarda e ci concede il privilegio di assistere alla sua performance rispondendo alle nostre chiamate su un servizio gratuito. Per questa prestazione – che la schermata mi rivela essere venduta contemporaneamente anche ad altri soggetti, individuali e collettivi – sarà rilasciata alla scuola regolare fattura. Del resto, il corso è appunto “obbligatorio per legge” e – come cominciamo a sussurrare tra noi – questa deve essere la soluzione più a buon mercato per il soggetto pagatore, su cui di nuovo ci interroghiamo: la nostra scuola? L’ente locale proprietario dell’edificio? Nessuno lo sa.

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In ogni caso, per il video-conferenziere noi non esistiamo se non dal punto di vista contabile: l’interazione e la comunicazione sono infatti soltanto con il pubblico effettivamente presente nel luogo della sua esibizione, le cui domande sono per altro spesso incomprensibili per noi soggetti “remoti”. Ad un certo punto, a sollevarci in qualche modo lo spirito – c’è chi naviga sul proprio tablet, chi lavora sul proprio personal computer, chi si ripromette di portarsi in futuro qualcosa da leggere, chi ha difficoltà a tenere gli occhi aperti – interviene la legge di Murphy: la chiamata via audio cade.

E così assistiamo amaramente divertiti allo scatenarsi di una pletora di allarmati messaggi via chat: dall’oggettivo “non la sentiamo più”, al cortese “può richiamarci, per favore?”, al surreale “qualcuno sa fare qualche cosa?”. Finalmente la videoconferenza riprende. La nostra attenzione è così stimolata che non siamo in grado di capire se ci siamo persi qualcosa; lo sguardo della maggioranza è fisso sull’orologio del computer, in attesa spasmodica dell’arrivo delle 16.30, quando il supplizio avrà termine, almeno per questa puntata.

Cambia il modulo, ma tutto il resto rimane identico; passano così una ventina di minuti e di nuovo la videoconferenza si interrompe. Il responsabile di rete è andato a casa e chi lo sostituisce compie un errore che rischia di essere fatale e costarci ulteriore frequenza coatta: esce da Skype. Al tentativo di rientro scopre di non conoscere la password per l’accesso, che – fortunatamente – recupera con una rapida telefonata.

E così l’evento volge tristemente al termine, con una sola variante: il mezzo busto del conferenziere è stato sostituito sullo schermo da un circoletto in movimento, dall’effetto vagamente ipnotico. Nell’uscire mi sento come il ragionier Fantozzi quando viene costretto a vedere per l’ennesima volta “La corazzata Potemkin”. Con la differenza che nessuno di noi ha avuto il coraggio di urlare: “è una * pazzesca”.

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Marco Guastavigna

Insegnante nella scuola secondaria di secondo grado e formatore. Tiene traccia della sua attività intellettuale in www.noiosito.it.

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