Una replica sul digital divide

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L’articolo pubblicato su La ricerca ieri (a proposito delle ripercussioni dell’Agenda Digitale sulla scuola italiana) ha suscitato alcune riflessioni e stimolato un breve ma significativo scambio, che di seguito pubblichiamo.

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Caro Sandro,
come sai, io sono sia insegnante sia autori di testi scolastici: condivido dunque sia l’atteggiamento un po’ “fantozziano” dei miei colleghi verso l’agenda digitale, sia le ansie e le incertezze di chi – come te – deve ideare e realizzare i libri. Mi sembra però che la tua analisi, che giustamente parla di scollamento tra il legislatore e chi deve applicare le norme, cioè gli insegnanti, calchi troppo la mano sulle “colpe” di questi ultimi e sui loro deficit di modernità; e che invece rifletta troppo poco sul fatto che chi legifera, spesso, non tenga conto della “verità effettuale” (direbbe Machiavelli) e non verifichi a priori la reale praticabilità delle disposizioni da emanare. E se poi le resistenze (più o meno inconsapevoli) dei colleghi verso l’abuso dei tablet, i libri ridotti all’osso integrabili via web in mille modi diversi, i wiki-saperi predigeriti (le mitiche pillole gelminiane? Oddio…) avessero una loro robusta fondatezza culturale e metodologica? E se il travestimento da Fantozzi fosse un modo un po’ pirandelliano per segnalare un disagio, non tanto per un maggior carico di lavoro, ma per un minor riconoscimento del nostro ruolo magistrale? Attendo le tue considerazioni in merito.

Con stima,

Mauro Reali (docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, cultore della materia presso l’Università Statale di Milano).

Caro Mauro,
provo a risponderti nel merito.
Non volevo caricaturizzare gli insegnanti. Tutt’altro. Volevo manifestare, sdrammatizzandolo in un gioco, un mio disagio, personale e professionale.
Parti dal presupposto che nessuna delle frasi che ho attribuito ai miei ipotetici 10 interlocutori è inventata (prova a fare tu l’esperimento e chiedi a un/a collega se sa cosa sia l’agenda digitale). Aggiungi, se vuoi, il fatto che a oggi – al di fuori di occasioni istituzionalizzate (leggi, nel chiuso del mio ufficio) – ho incontrato forse un pugno (nel senso di 5) insegnanti che mi hanno risposto «tecnologia? sì grazie». Tra questi, la docente di un liceo di Barga, comunità montana con classi di nove (9) allievi e la necessità di connettersi alle altre scuole del comprensorio.
Di questa situazione volevo parlare e non delle riserve culturali verso il digitale.
Su questo tema ho idee molto più sfumate (o meno nette, se credi) di quelle che probabilmente mi attribuisci.
Ma torno al mio disagio.
Io oggi non sono, e non posso essere, spettatore neutrale. Per scelta, perché ho deciso di fare questo lavoro e perché, in fondo, mi appassiona ogni ventata di novità.
Per necessità, perché i decisori, a torto o a ragione, stanno accelerando i tempi dell’innovazione.
Come sai bene, proprio per rispondere alle richieste del legislatore stiamo lavorando a progetti avanzatissimi, che impegnano enormi risorse di tempo, di denaro e d’ingegno. Ne siamo giustamente orgogliosi, direi. La frustrazione inizia nel momento in cui ne parlo ai miei 10 insegnanti. Che mi guardano stupiti (o forse ammirati? o magari seccati?) e, scuotendo il capo, dicono: «bello, ma come faccio a usarlo? non abbiamo i mezzi!».
Con il mio scritto volevo solo ironizzare mestamente su due dati di fatto e un (mio) “sentimento”:
1. che siamo un Paese che soffre di un’arretratezza infrastrutturale difficilmente colmabile nel breve periodo. Meglio di me lo hanno dichiarato in tanti. Ti segnalo qui una bella intervista, al proposito, a De Mauro;
2. che quasi mai quelli che sento parlare delle «magnifiche sorti e progressive» della scuola italiana sono insegnanti attivi;
3. che mi sento sempre più come un appassionato fabbricante di auto sportive in trepida attesa che gli costruiscano le strade.

Con stima,

Sandro Invidia (direttore editoriale Loescher)

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