Traducendo Gurnah #3

Tempo di lettura stimato: 10 minuti
Vorrei riprendere in questo articolo alcuni argomenti già toccati rapidamente nei due precedenti, accompagnandoli con esempi tratti dal romanzo che sto traducendo, “Afterlives” di Abdulrazak Gurnah.

E vorrei prendere le mosse dalla considerazione, apparentemente banale, che il traduttore è, non per merito, ma per mestiere, il lettore più accurato e severo che un testo possa sperare, o temere; e rispetto all’autore, con cui in teoria condivide questa condizione privilegiata, ha il vantaggio di arrivare dopo e di leggere in qualche misura “dall’esterno”, senza il coinvolgimento psicologico di chi è “immerso” nella scrittura in fieri.

Migliorare l’originale?

La prima conseguenza di questo privilegio è la tentazione di migliorare il testo originale. Come è noto, anche il grande Omero ogni tanto dormicchia, e in età più vicine a noi ci sono numerosi esempi di scrittori indiscutibilmente grandi, che sono tutt’altro che maestri di stile o modelli di correttezza linguistica: Cervantes, Balzac, Dickens… Quando ci sono evidenti scorrettezze, bisogna inserire scorrettezze simili (sempre che sia possibile) anche nel testo tradotto? E fino a che punto, nel caso, è possibile emendare l’originale? Ammettiamo che sia lecito intervenire sulla consecutio o sui nessi di subordinazione – è possibile anche eliminare certe ripetizioni fastidiose, considerandole involontarie? E se si trovano contraddizioni o incongruenze?

Premesso che, nel caso dei testi contemporanei, è possibile discutere con l’autore e arrivare a una scelta condivisa, confesserò che in qualche caso mi sono permesso di correggere d’autorità degli errori molto evidenti. Per esempio, in Hachiko. Il cane che aspettava, storia vera ambientata nel Giappone di un secolo fa, l’autore Lluis Prats confonde “ikebana” (l’arte di disporre i fiori recisi) e “bonsai” (l’arte di allevare piante nane). Chiaramente è una svista, la correzione consiste nella sostituzione di una singola parola, senza altre conseguenze – l’ho fatta senza nemmeno sollevare il problema. Un altro esempio: in Afterlives, Gurnah usa due o tre volte la parola tedesca Zivilisierungmission, laddove il termine corretto è Zivilisierungsmission, con la “s” del genitivo sassone fra i due membri della parola. Anche in questo caso, ho soddisfatto le giuste aspettative dei pochi o tanti lettori che, conoscendo il tedesco, potevano essere disturbati dall’imperfezione.

Ripetizioni

In generale, comunque, la tentazione di migliorare l’originale va respinta, anche laddove il risultato possa apparire discutibile. Credo che possa essere utile esaminare nel dettaglio alcuni passi che non rientrano nelle regole del “bello stile” comunemente inteso, ma che a una riflessione appena più attenta si rivelano significativi proprio per le loro presunte imperfezioni.

Nel capitolo 5, Gurnah scrive un paragrafo fitto di ripetizioni che un professore coscienzioso segnerebbe con la matita rossa (ho provato a evidenziarle per facilitare chi non legge l’inglese, ma mi sono accorto che dovevo sottolineare quasi tutte le parole del testo!):

The officer had the two-room apartment at one end of the upstairs block on the right-hand side of the boma. It had a small bedroom and another room with two comfortable chairs and a small desk where the officer sometimes sat down to write. There were seven rooms upstairs altogether, a replica of the downstairs layout, and there was a hierarchy to the arrangement. The two rooms at one end for the use of the commanding officer stood next to a large room in the middle of the block that was the mess, then came a room for each of the other four officers, beginning with the medical officer and ending with the Feldwebel, who had the small room at the far end because he was the lowest in rank. The other three officers in the boma had their rooms in the smaller building facing the gate, whose downstairs served as the infirmary and the padlocked store. The store contained provisions for the officers’ mess: tins of European delicacies and bottles of beer and wine and schnapps and brandy. The arrangements in both blocks were very orderly. The washrooms for both were downstairs in separate buildings. The sleeping quarters for the men who served the officers were in a two-roomed outhouse behind the blocks with an attached washroom that they shared. Hamza and Julius, who served the other four officers in their block, shared one room, and the two who served the smaller block shared the other.

Come si vede, Gurnah insiste su una quantità di termini (officer, one, two, room, end, block, boma, share, stairs, serve, small, building ecc.), ripetuti con una frequenza del tutto insolita, nonché spesso variati. È evidente, mi sembra, l’intenzione di trasmettere al lettore, fisicamente, o musicalmente, l’impressione di caos che prova il protagonista Hamza arrivando al boma, cioè al campo militare dove le reclute di colore vengono addestrate a combattere per i colonialisti tedeschi. Il testo parla di una struttura gerarchicamente ben ordinata e si affanna a descriverla nei dettagli, ma ciò che emerge è un senso di confusione ai limiti dell’incomprensibilità, quale appunto doveva provare il personaggio. La traduzione dovrà dunque rispettare il più fedelmente possibile le scelte dell’autore, che rispondono a un progetto espressivo e comunicativo, a costo di mettere il lettore in difficoltà:

L’ufficiale aveva il suo appartamento di due stanze a un’estremità del piano di sopra dell’edificio sul lato destro del campo. C’era una piccola stanza da letto e un’altra stanza con due comode sedie e una piccola scrivania dove l’ufficiale a volte si sedeva a scrivere. C’erano sette stanze in tutto al piano di sopra, che rispecchiavano la disposizione del piano terra, e c’era una gerarchia nella loro disposizione. Le due stanze a un’estremità destinate all’ufficiale di più alto grado si trovavano accanto a una grossa stanza al centro dell’edificio, che era la mensa, poi veniva una stanza a testa per gli altri quattro ufficiali, cominciando con l’ufficiale medico e finendo con il Feldwebel, che aveva la piccola stanza all’altra estremità perché era quello di grado più basso. Gli altri tre ufficiali del campo avevano le loro stanze nell’edificio più piccolo di fronte al cancello, il cui piano terra serviva da infermeria e da magazzino chiuso. Il magazzino conteneva le scorte per la mensa ufficiali: leccornie occidentali in scatola e bottiglie di birra, di vino, di schnapps e di brandy. La disposizione dei due edifici era molto ordinata. Le stanze da bagno in entrambi i casi erano al piano terra in edifici separati. I dormitori per gli uomini al servizio degli ufficiali erano in una baracca di due stanze dietro agli edifici, con accanto una stanza da bagno comune. Hamza e Julius, che erano al servizio degli altri quattro ufficiali del loro edificio, condividevano una stanza, e i due che servivano l’edificio più piccolo condividevano l’altra.

Che le ripetizioni non siano “errori” è confermato dalla finezza con cui, quando è necessario, Gurnah utilizza variatio e climax. Ecco un altro paragrafo tratto dallo stesso capitolo, dove si descrive attraverso ben nove termini differenti il progressivo montare dell’astio fra il Feldwebel (il sergente istruttore) e il protagonista Hamza (la recluta) – in questo caso ho evidenziato i termini significativi sia nell’originale che nella traduzione:

The Feldwebel was now out of his mind with rage at every irritation they encountered, his frenzy fed by bangi and the sorghum beer they confiscated from villagers. He never seemed to fall ill as all the other officers did at one time or another. His temper was so out of control that he frequently hit askari and porters with whatever was at hand: a cane, a whip or a piece of firewood. He was even more vicious than he used to be in his hatred and contempt for the local people whose land they plundered. To him they were savages and he spoke about them with greater ferocity than he showed towards the British enemy. He had a deep loathing of Hamza and abused him whenever he caught him out in any trivial, or sometimes imaginary, wrongdoing.

Il Feldwebel dava ormai di matto a ogni contrattempo, la sua frenesia si nutriva di bangi e della birra di sorgo che confiscavano nei villaggi. Sembrava che non si ammalasse mai come ogni tanto facevano gli altri ufficiali. Il suo malumore era così incontrollato che spesso batteva gli ascari e i portatori con quello che aveva sottomano: un bastone, una frusta o un pezzo di legno. Era ancora più cattivo di un tempo nel suo odio e nel suo disprezzo per la popolazione locale di cui devastavano il territorio. Per lui erano selvaggi e ne parlava con ferocia maggiore di quella che riservava al nemico britannico. Nutriva una profonda avversione per Hamza e lo insultava ogni volta che lo coglieva a fare qualcosa di sbagliato, per quanto si trattasse di un errore insignificante o addirittura immaginario.

Paul Klee, Roccia artificiale, 1927

Cambi di soggetto

Un altro caso in cui credo che il traduttore debba guardarsi dalla tentazione di “lisciare” l’originale e ricondurre il testo a una maggiore scorrevolezza è tratto dal capitolo 14: il protagonista è tornato dalla guerra, è guarito da una grave ferita, si è sposato e ha avuto un figlio; giunto alle soglie dell’adolescenza, quest’ultimo è visitato da incubi e visioni inesplicabili:

He had his own guilty idea that it was his trauma which was the source of what was tormenting his son, an aftermath of something he had done during the war.

Siamo di fronte a una scelta grammaticale molto estrema: i cinque verbi della frase (sottolineati) creano una struttura con quattro gradi di subordinazione e hanno cinque soggetti differenti (in corsivo), tutti pronominali. Il primo e l’ultimo rimandano al protagonista Hamza, altri due (it e which) rimandano al “trauma” – la ferita, che non ha toccato solo il corpo di Hamza e che lui teme di aver “trasmesso” in qualche modo al figlio.

La confusione è accentuata se prendiamo in esame il piano concettuale del discorso: guilty (colpevole) è un aggettivo riferito a idea, ma logica vorrebbe che fosse collegato a He (egli, il primo dei soggetti); la simmetria fra source (fonte, origine, causa) e aftermath (conseguenza) è ingannevole, giacché source è apposizione di trauma, mentre aftermath lo è di what – ciò che tormenta, cioè appunto la conseguenza.

Un tempo il traduttore sarebbe forse intervenuto a riportare questo passo entro i canoni del “bello stile”. A me pare che sia meglio interpretare la disarmonia del periodo non come un mancato controllo linguistico, ma come un modo per rispecchiare a livello formale il rovello interiore del personaggio, il procedere confuso e faticoso del suo pensiero. Ecco dunque la mia proposta di resa in italiano:

Aveva una sua idea colpevole, che fosse il suo trauma l’origine di ciò che tormentava suo figlio, una conseguenza di qualcosa che aveva fatto durante la guerra.

Cosa vuol dire tradurre bene?

La scelta di tradurre in un modo o in un altro, in questo come in molti altri casi, mi sembra che vada oltre l’ambito puramente tecnico, linguistico, e che chiami in causa l’interpretazione. La traduzione insomma è inevitabilmente un’attività ermeneutica, una prima “lettura critica” del testo.

Non basta. Tradurre significa sempre interrogarsi su cosa vuol dire “scrivere bene”. La buona traduzione non è necessariamente quella che “scorre” in italiano, perché solo un classicismo molto ingenuo può considerare la scorrevolezza (o la simmetria, o la dolcezza, o la ritmicità) un valore assoluto. Armonia e disarmonia, musicalità e dissonanza, sono strumenti a disposizione dello scrittore, e una traduzione efficace deve coglierne il valore espressivo e tentare, nella misura del possibile, di riprodurli nella lingua di arrivo.

Si apre a questo punto un nuovo grande problema teorico: posto che di qualunque testo è possibile dare innumerevoli traduzioni valide (come di ogni composizione musicale è possibile proporre innumerevoli interpretazioni diverse), esiste un criterio per valutare la bontà di una traduzione? È l’argomento che mi riprometto di trattare nel prossimo articolo.

Leggi la prima parte

Leggi la seconda parte

(continua)

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Alberto Cristofori

ha organizzato nel 2015 “Milano per Dante”, una lettura integrale della Commedia affidata a 100 esponenti della società civile milanese. È autore di manuali scolastici e traduttore. Ha pubblicato con Bompiani un romanzo e una raccolta di racconti, e dirige una casa editrice per bambini e ragazzi (Albe
Edizioni).

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