Il Canzoniere a scuola #2

Tempo di lettura stimato: 9 minuti
La seconda di quattro proposte di lettura scaturite dalla lettura integrale e ordinata della raccolta, quattro chiavi per portarla in classe e proporla agli studenti.

La celebre “formula” («fiorentino trascendentale») in cui Contini sintetizza la scelta linguistica alla base del Canzoniere comporta il rischio, nella concreta pratica didattica, di oscurare quanto di sperimentale c’è nella scrittura petrarchesca, e quanta ricerca prelude al monolinguismo del Canzoniere. A me sembra che, rivolgendoci a chi incomincia appena ad addentrarsi nel capolavoro di Petrarca, si debba muovere piuttosto dall’indicazione che l’autore stesso colloca in limine alla sua opera, laddove parla di “rime sparse” e di “vario stile”.

La lettura continuata del Canzoniere, in effetti, rivela la presenza di una straordinaria varietà di toni e di registri. Il “rigoroso monolinguismo” è in una situazione, diciamo così, di fragile equilibrio, sempre pronto a rompersi per rivelare la tensione sottostante. E infatti nel Canzoniere troviamo inserti in provenzale (nella canzone n. 70, al v. 10: “Drez et rayson es qu’ieu ciant e ’m demori”), espressioni che sembrano tratte di peso dal dolce stil novo (“Da lei ti vèn l’amoroso pensero, / che mentre ‘l segui al sommo ben t’invia”, n. 13; “Non era l’andar suo cosa mortale, / ma d’angelica forma”, n. 90), invettive in registro volgare (“L’avara Babilonia à colmo il sacco / d’ira di Dio…”, n. 134), citazioni dai grandi autori latini (Catullo, Virgilio, Orazio e altri), veri e propri esempi di litania sacra (“o saldo scudo de l’afflicte genti… Vergine pura, d’ogni parte intera, / del tuo parto gentil figliola et madre… o fenestra del ciel lucente altera”, n. 366).

Petrarca alterna trobar leu e trobar clus, forme popolareggianti come la ballata e il madrigale e forme iper-intellettualistiche come la sestina, testi in cui la chiarezza del dettato rende le spiegazioni in nota quasi superflue e altri arrovellati, densi di riferimenti mitologici e di metafore e di inversioni sintattiche, casi di perfetta coincidenza tra metrica e sintassi e altri in cui gli enjambements si affollano a rendere il discorso drammatico e spezzato.

Ecco per esempio l’incipit del sonetto n. 97:

Ahi, bella libertà, come tu m’ài,

partendoti da me, mostrato quale

era ’l mio stato, quando il primo strale

fece la piagha ond’io non guerrò mai!

La violenta divaricazione tra “ài” e “mostrato”, i due enjambements “quale / era” e “il primo strale / fece” creano una situazione linguistica (e naturalmente psicologica) del tutto opposta rispetto a quella di un’altra quartina, molto più famosa, quella del n. 35:

Solo et pensoso i piú deserti campi

vo mesurando a passi tardi et lenti,

et gli occhi porto per fuggire intenti

ove vestigio human l’arena stampi.

Qui la materia è perfettamente, “serenamente” distribuita in due distici, e la disposizione delle coppie di aggettivi all’inizio del v. 1 e alla fine del v. 2 contribuisce a creare un ritmo che è l’esatto opposto di quello esagitato e esclamativo della citazione precedente.

Petrarca sa usare le rime più semplici, al limite della banalità grammaticale (imperfetto -ava, infinito -are), come nelle terzine del sonetto n. 94:

Quinci in duo volti un color morto appare,

perché ’l vigor, che vivi gli mostrava,

da nessun lato è piú là dove stava.

Et di questo in quel dì mi ricordava,

ch’i’ vidi duo amanti trasformare,

et far qual io mi soglio in vista fare.

Ma sa usare anche un lessico degno del Dante petroso, come nella terza delle canzoni “degli occhi”, n. 73, dove solo nella prima strofa (quindici versi) troviamo “sforza”, “sempre” (in rima con “contempre” e “stempre”), “scorta”, “soverchia”, “tremo”, “trovo”, “struggo”. E, sorpresa! sa anche scherzare, perché la poesia è anche gioco, divertimento verbale, leggerezza: ed ecco la vera e propria sciarada con cui ci viene rivelato il nome di Laura (Laureta, alla provenzale) nel sonetto n. 5:

Quando io movo i sospiri a chiamar voi,

e ‘l nome che nel cor mi scrisse Amore,

LAUdando s’incomincia udir di fore

il suon de’ primi dolci accenti suoi.

Vostro stato REal, che ‘ncontro poi,

raddoppia a l’alta impresa il mio valore;

ma: TAci, grida il fin, ché farle honore

è d’altri homeri soma che da’ tuoi”.

Niente male, per un noioso classicista! Se qualcuno è ancora disturbato dal termine “sperimentale”, che ho usato all’inizio di questo mio intervento, rileggiamo queste parole rivolte da Petrarca al fratello Gherardo (Fam X 3):

Quante volte abbiamo contorto le sillabe, quante volte abbiamo spostato le parole, infine cosa non abbiamo fatto perché quell’amore, che se non riuscivamo a estinguere, almeno la verecondia imponeva di nascondere, fosse cantato plausibiliter

A me pare che qui vi sia una dichiarazione di poetica, come si usa dire, di estrema importanza: sia perché Petrarca parla del suo lavoro sulla lingua in termini proprio di ricerca, di tentativi ed errori, addirittura di lotta; sia perché indica a quale risultato mirava tutto questo lavoro, con quell’avverbio che ho volutamente lasciato nell’originale latino, perché ha il doppio senso di “convenientemente”, rispettando le regole della verecondia, e “in modo degno di plauso”, cioè artisticamente perfetto. E su questo dovremo ritornare. Ma prima è necessario riprendere il discorso aperto nel proemio dell’opera e verificarne la varietà da un altro punto di vista.

L’amore per Laura non solo non è l’unico tema del Canzoniere, ma a una lettura più attenta si rivela talmente ricco di sfaccettature e di significati secondi e terzi da contraddire l’impressione di ripetitività (e di noia, purtroppo) a cui sono legati i ricordi di scuola della maggior parte di noi.

Prendiamo in esame innanzitutto la varietà tematica del Canzoniere: Petrarca parla di amore, certo, ma anche di politica, di arte, di religione, di poesia, di filosofia. Se leggiamo le prime dieci poesie, ci rendiamo conto che il “romanzo d’amore” non esaurisce nemmeno lontanamente i temi dell’opera. La poesia n. 7, per esempio, è un testo di riflessione morale, un elogio di chi rifiuta di abbandonarsi alla pigrizia e si dedica a magnanime imprese (intellettuali). La n. 8 e la n. 9 sono “biglietti” che accompagnano due doni, rispettivamente un paniere di colombe e uno di tartufi. La n. 10 è una sorta di “dedica” a Stefano Colonna il Vecchio, il capo della potente famiglia al cui servizio Petrarca rimase per oltre vent’anni. E proseguendo troviamo testi di invettiva contro la corruzione della curia avignonese e di esortazione ai governanti italiani; lettere agli amici; preghiere; descrizioni di sogni; descrizioni di opere d’arte e così via.

Un’altra quasi-certezza che converrà mettere da parte riguarda il carattere “lirico” di queste poesie. Alcune sono poesie civili, altre sono poesie filosofiche, altre ancora hanno un carattere galante (direi: salottiero, se nel Trecento fossero esistiti i salotti). Se poi pensiamo che “lirico” sia sinonimo di monologo interiore del poeta, ebbene anche questo va ripensato: il dialogo prevale sul monologo, Petrarca si rivolge ora a “Voi” lettori (n. 1), ora alla donna amata (nn. 3 e 5), ora a un imprecisato “gentile spirto” (n. 7), ora ai destinatari dei suoi doni (nn. 8 e 9), ora a Stefano Colonna (n. 10), e più avanti ad amici poeti e artisti, all’Amore personificato, agli occhi di Laura, agli elementi del paesaggio naturale, ai principi italiani, a Dio e alla Vergine e così via.

Ma veniamo all’amore, giacché nessuna rilettura potrà mai negare che la maggior parte dei testi del Canzoniere di questo parlino: dell’innamoramento subitaneo di Petrarca alla vista di Laura, della freddezza di lei, dei dolori di lui, dei suoi vani tentativi di liberarsi dalla schiavitù del sentimento, del senso di colpa legato al desiderio sensuale che caratterizza il suo amore, e poi del nuovo dolore causato dalla morte di Laura e della sua progressiva trasfigurazione in una figura mentale, immaginaria, a tratti onirica.

Ebbene, osserviamo subito, attraverso un esempio, quanto la psicologia del poeta sia vicina alla nostra, quanto Petrarca ci sia contemporaneo nella sensibilità e nel modo di esprimerla. Il sonetto n. 6 (“Sì travïato è ’l folle mi’ desio…”) parla del desiderio, mettendo in scena una sorta di sogno, anzi di incubo – il poeta, in groppa a un metaforico cavallo che è appunto il suo desiderio “folle”, irrazionale, distruttivo, insegue Laura, la quale fugge leggera e libera dai lacci d’amore, mentre il poeta procede lento, impacciato. E tanto più quando il desiderio-cavallo gli prende la mano e sembra volerlo condurre a morte. Non si può dire, ma è difficile sfuggire all’impressione che Petrarca abbia intuito ciò che Freud avrebbe spiegato in anni a noi molto più prossimi: il carattere autodistruttivo di un eros incontrollato, i meccanismi della repressione che impediscono al poeta di inseguire efficacemente la donna amata, quelli della censura che gli permettono di rivelare tutto questo solo attraverso dei simboli… Niente male, per un poeta di sette secoli fa.

Ma il sonetto non si conclude col timore della morte. Nell’ultima strofa il poeta che insegue Laura si trasforma, come accade nei sogni, in Apollo, il dio della bellezza e delle arti, che insegue la ninfa Dafne, di cui è innamorato, finché costei non viene trasformata a sua volta in lauro. È il lauro il vero obiettivo di Petrarca – che gioca qui per la prima volta nel libro sull’assonanza tra il nome della donna amata e la pianta simbolo della gloria poetica. L’oggetto del desiderio è Laura, cioè l’amore, e nello stesso tempo è il lauro, cioè la poesia. Ma di questo vorrei parlare nel mio terzo intervento.

Questo vorrei ribadire qui, a mo’ di conclusione provvisoria: che Petrarca non è affatto l’uomo pacioso che sembrano mostrare i suoi ritratti e che attirava gli strali di De Sanctis, tutto schierato per il segaligno e sulfureo Dante; Petrarca scava continuamente nel proprio animo e più lo approfondiamo, più si rivela nostro contemporaneo. Perché un sedicenne-diciassettenne dovrebbe restare insensibile di fronte al tema dell’accidia – Leopardi l’avrebbe chiamata “noia”, Baudelaire usa “spleen” perché la malinconia, cioè l’umor nero, si riteneva prodotto dalla milza (questo è il significato letterale di spleen in inglese)? Perché non dovrebbe riconoscersi nell’insoddisfazione che ha dominato la vita del poeta, e che l’ha portato a viaggiare in continuazione, anche durante la pestilenza, da Avignone a Roma, da Liegi a Napoli, da Praga a Milano, da Parigi a Venezia, da Colonia a Padova, a Parma, a Mantova, a Bologna, in preda a un’irrequietudine sostanzialmente immotivata, ma non perciò meno reale? Non sono, questi, aspetti della personalità petrarchesca che sono ancora i nostri?

(continua)

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Alberto Cristofori

ha organizzato nel 2015 “Milano per Dante”, una lettura integrale della Commedia affidata a 100 esponenti della società civile milanese. È autore di manuali scolastici e traduttore. Ha pubblicato con Bompiani un romanzo e una raccolta di racconti, e dirige una casa editrice per bambini e ragazzi (Albe
Edizioni).

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