Traducendo Gurnah #2

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Cosa significa riprendere in mano una traduzione dopo vent’anni? Come è cambiato il mestiere con internet? Esplicitare, semplificare, normalizzare sono tendenze inevitabili? Il secondo articolo di una serie dedicata alla traduzione letteraria.
Paul Klee, Immagine di maggio, 1922, MET museum

 

Vent’anni dopo

Riprendere in mano una propria traduzione a distanza di molti anni è un’esperienza rara (mi è capitata solo due volte: con Spider di McGrath e con Sulla riva del mare di Gurnah), ma molto utile.

La prima cosa che si nota, ahimè, è la presenza di veri e propri errori: fraintendimenti, dimenticanze, ripetizioni involontarie, cacofonie… Gli errori sono sempre troppi – non voglio sembrare eccessivamente severo con me stesso, ma si prova una certa umiliazione nell’accorgersi di aver sbagliato. Come l’adolescente davanti allo specchio, a cui un lieve difetto del naso sembra una mostruosità intollerabile, le poche sviste finiscono per giganteggiare e oscurare anche le pagine più riuscite…

Intendiamoci, nessuna traduzione è perfetta. È una magra consolazione, ma perfino san Girolamo, il patrono della categoria, che il mestiere lo conosceva bene, è incappato in celebri svarioni – tra cui quello per cui sono state attribuite alla fronte di Mosè un paio di corna (keren, in ebraico) anziché due fasci di luce (karan); e l’altro che ha messo in bocca a Gesù la metafora surrealista del cammello (kàmelos, in greco) nella cruna, laddove con ogni probabilità il Salvatore intendeva una innocua gomena (kàmilos…).

A ulteriore consolazione, dirò che la responsabilità è condivisa con il redattore che avrebbe dovuto conoscere l’inglese quanto bastava per accorgersi delle mie sviste: una buona traduzione è sempre frutto di un lavoro collettivo. Infine, il traduttore editoriale, come altri professionisti dell’editoria, è sostanzialmente un cottimista, pagato (pochino) a cartella – e a volte la stanchezza si unisce a fenomeni di vera e propria “cecità” che tutti abbiamo sperimentato fin dalle prime prove liceali, quando ci si incaponiva a percorrere la strada che a chiunque altro, e a noi stessi in un altro momento, sarebbe subito apparsa come sbagliata.

(Lo so, la parola cottimista suona male. E so anche che in un passato non lontanissimo, ma talmente diverso dalla mia esperienza da apparirmi quasi mitico, c’erano traduttori che potevano impiegare due, tre, cinque anni per produrre il loro testo. Forse ci sono anche oggi casi del genere, ma tutti i colleghi che conosco lavorano con tempi molto ridotti e, se non sono ricchi di famiglia o benedetti da un lavoro che rende bene e impegna poco, devono trovare un equilibrio che permetta loro di guadagnare quanto serve per vivere. Il che vuol dire produrre un certo numero di cartelle al giorno, intendendosi per cartella 2000 caratteri spazi inclusi. Vorremmo forse un sistema diverso, ma viviamo in questo.)

Ancora sul mestiere del traduttore

Non si tratta però solo di errori. La nuova versione del romanzo di Gurnah uscita a mio nome nel dicembre 2021 è stata rivista in maniera più complessiva. E credo che le ragioni di questo fatto siano molteplici e interessanti.

In primo luogo, mi sono reso conto di quanto sia cambiato, nella concreta pratica artigianale quotidiana, il mestiere del traduttore. Vent’anni fa per tradurre dall’inglese tenevo sulla scrivania, oltre all’originale cartaceo, tre grossi dizionari – uno bilingue, uno monolingue e uno di slang – e varie “garzantine”, le famose enciclopedie portatili. Oggi il mio lavoro si svolge interamente a video – l’originale è un file pdf, i dizionari che uso sono tutti online, e così le enciclopedie. I tempi di consultazione si sono incredibilmente ridotti, perché non devo sfogliare, ma solo digitare la parola o la frase che sto cercando, il che significa che posso consultare molte più fonti; può darsi che ciascuna di esse sia meno ricca e precisa, ma nel complesso ho a disposizione una strumentazione migliore.

Questo vale soprattutto per le questioni di carattere enciclopedico – i personaggi di Gurnah si muovono tra l’Africa orientale, l’Oceano Indiano e l’Europa settentrionale (Germania e Inghilterra) e vent’anni fa era complicatissimo procurarsi una mappa di Mombasa o di un oscuro villaggio all’estrema periferia di Londra, mentre oggi posso seguire il percorso del personaggio letteralmente passo passo, una via dopo l’altra, una casa dopo l’altra. Allo stesso modo, i riferimenti alla storia della Tanzania, o alla preparazione del gombo e di altri alimenti esotici, o alla struttura di una portaerei nucleare (penso a un romanzo di George Romero che ho tradotto un paio di anni fa e che per quasi duecento pagine si svolge in questo insolito contesto), richiedevano lunghe e non sempre fruttuose ricerche in biblioteca, mentre oggi in pochi minuti posso trovare date, documenti, disegni tecnici, video, tutorial…

Aggiungo che vent’anni fa le comunicazioni con gli autori erano molto più complicate; oggi tramite i social, le agenzie letterarie, le case editrici, è relativamente facile inviare una e-mail e in poche ore ottenere chiarimenti e risolvere dubbi che un tempo rischiavano di rimanere tali.

Il traduzionese

Non è mia intenzione cantare acriticamente le lodi di Internet, ma ho l’impressione che, almeno nel mio caso, i nuovi strumenti mi abbiano aiutato ad attenuare (non oso dire: a correggere) alcune delle tendenze tipiche del traduzionese (come preferisco chiamare quello che altri definiscono “traduttese”):

  • la tendenza a esplicitare, cioè ad aiutare il lettore, a chiarire, a precisare (per esempio, a sostituire i pronomi con i nomi, o l’onnipresente said – disse – con termini più precisi: rispose, soggiunse, ribatté…);
  • la tendenza a semplificare, a spezzare le frasi troppo complesse, a eliminare ridondanze e ripetizioni, a prescindere dalle scelte dell’originale;
  • e infine la tendenza a normalizzare, cioè a usare un lessico e una sintassi più vicini a quelli standard, evitando arcaismi, termini troppo ricercati, irregolarità nell’uso della punteggiatura o della consecutio.

Sono ben consapevole che la tendenza all’omologazione linguistica è una delle caratteristiche della nostra epoca. Essa è però evidente soprattutto nei testi di carattere pratico (dagli annunci aeroportuali ai manuali d’uso degli smartphone), e nel mio caso vi si opponeva un testo di partenza ricco di elementi difficilmente omologabili, dagli inserti in swahili alle citazioni da Shakespeare – insomma, un testo letterariamente “alto” e ricco di stimoli e di creatività.

(Apro una seconda parentesi per ricordare che il lamento più o meno accorato sulla decadenza dell’italiano, impoverito rispetto alle glorie d’antan e imbastardito dall’abuso di termini stranieri, ha accompagnato la storia della nostra lingua almeno dal Cinquecento: dalle censure della Crusca a Tasso e Marino al purismo del padre Cesari e del Puoti, dalle ridicole proposte dell’era fascista per eliminare insopportabili forestierismi quali “bar” e “film” alle donchisciottesche battaglie di tanti linguisti contro l’italiano giornalistico e televisivo. I fenomeni di interferenza sono sempre avvenuti, la letteratura italiana nasce prendendo a prestito dal latino, dall’antico francese, dal provenzale, dal siciliano, e ha continuato a pescare a mani basse dallo spagnolo, poi dal francese, oggi dall’inglese… Il rischio di chi denuncia l’omologazione del traduzionese è di ripetere un copione già visto e rivisto, dimenticando che la vitalità di una lingua non sta nella sua capacità di conservarsi pura, qualunque cosa voglia dire questa parola, ma al contrario di assorbire stimoli provenienti dall’esterno e di adeguarsi al mondo che cambia.)

Poter risolvere più facilmente le questioni enciclopediche (perché le vere difficoltà del traduttore non sono quasi mai grammaticali e salvo eccezioni neanche lessicali, ma legate al contesto, agli stili di vita, insomma all’alterità culturale più che all’alterità linguistica), libera paradossalmente le energie necessarie per prestare maggiore attenzione ai fattori linguistici e stilistici. Proprio perché non perdo ore a scoprire se Tanga è il nome di una città, di un fiume o di un piatto tipico, posso prestare maggiore attenzione al gioco delle ripetizioni, o a certi artificiosi cambi di soggetto, o all’alternanza fra periodi lunghi e ricchi di subordinate e altri brevissimi e privi di verbo. E così via.

Elogio di alcune traduzioni

Che esistano traduzioni mediocri, o addirittura sciatte, è indiscutibile. Così come esistono (e sono sempre esistiti) testi originali in italiano di scarsa o infima qualità.

Ma vorrei citare due esempi di traduzioni che a mio avviso hanno una indiscutibile carica espressiva e di tutto potrebbero essere accusate, tranne che di ricorrere a un traduzionese stereotipato e globalizzato:

  • il primo esempio è la traduzione del Giovane Holden di J. D. Salinger, opera di Adriana Motti (1961), che oggi è stata sostituita, nel catalogo Einaudi, ma all’epoca ebbe il merito di introdurre in Italia una voce nuova, originale, scanzonata e straziante insieme;
  • il secondo esempio è la traduzione dei romanzi di Thomas Bernhard di Renata Colorni (ricordo in particolare Il soccombente, 1985, e Il nipote di Wittgenstein, 1989, per Adelphi), che ha saputo riprodurre la musicalità martellante e ipnotica dell’originale tedesco.

In entrambi i casi (ma ciascuno potrà trovare esempi analoghi tra le sue letture) le traduzioni hanno avuto conseguenze significative: senza volerle paragonare all’Odusia di Livio Andronico o alla Vulgata di san Girolamo, è difficile immaginare scritture come quelle del primo Palandri o di Tondelli o di Brizzi senza Il giovane Holden di Motti; o libri come quelli di Trevisan, e forse anche Sostiene Pereira di Tabucchi, senza il Bernhard di Colorni.

La traduzione come interpretazione

Due conclusioni provvisorie.

La prima: rispetto a vent’anni fa, il traduttore per primo, ma anche i lettori a cui ci si rivolge, conoscono meglio il mondo di cui parla l’autore: la letteratura post-coloniale è una realtà consolidata anche in Italia, la storia e la cultura dell’Africa subsahariana sono entrate a far parte, sia pure con lacune e parzialità evidenti, di un patrimonio maggiormente condiviso. Non a caso, vent’anni fa i libri di Gurnah non ebbero alcun successo, mentre oggi vendono bene – grazie al Nobel, certo, ma anche alle decine o centinaia di autori africani che sono stati tradotti nel frattempo, alla presenza di cittadini africani nel nostro paese e così via.

La seconda: se pure vent’anni fa avessi avuto tutto il tempo necessario per evitare errori e per risolvere al meglio le questioni di enciclopedia e di stile poste dai romanzi di Gurnah, oggi sentirei comunque il bisogno di rivedere le mie traduzioni. Tradurre (lo spiega molto bene George Steiner, a cui rubo la metafora) è come interpretare un brano musicale: le note sono quelle (il testo di partenza non cambia), ma lo stesso pianista, a distanza di vent’anni, fornirà inevitabilmente un’interpretazione diversa della sonata incisa vent’anni prima. Così il traduttore: perché la lingua di arrivo cambia, la sensibilità (sperabilmente) si affina, il contesto intero evolve, e il suo testo deve adeguarsi alla nuova realtà.

Leggi la prima parte

(continua)

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Alberto Cristofori

ha organizzato nel 2015 “Milano per Dante”, una lettura integrale della Commedia affidata a 100 esponenti della società civile milanese. È autore di manuali scolastici e traduttore. Ha pubblicato con Bompiani un romanzo e una raccolta di racconti, e dirige una casa editrice per bambini e ragazzi (Albe
Edizioni).

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