Sulla valutazione della scuola

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C’è stato un tempo, ormai molto lontano, di lotte per la democrazia, per l’emancipazione degli individui, per una crescita ecologica. Di questo tempo e di questi principi la scuola è stata palestra. C’è stato un tempo in cui la difficile storia della valutazione – e l’impervio percorso che questo tema ha affrontato nei decenni – ha previsto alcuni aggettivi, da tempo caduti in disgrazia, ma che pure tracciavano una strada, purtroppo contraria a quella che si sta percorrendo: descrittiva e formativa.
Immagine dall’archivio fotografico Indire.

Tanto più si trattava dei primi cicli del sistema d’istruzione, tanto più la valutazione attingeva informazioni, risorse, elementi che allontanavano dalla parzialità e incompletezza del voto numerico, per sua stessa natura deputato a un processo di semplificazione selettiva. Il voto numerico scabro, per sua erronea pretesa oggettivo, costituisce lo strumento più potente per modificare la relazione educativa, destabilizzare gli equilibri sociali in un gruppo, allontanare l’idea dell’apprendimento disinteressato, legare l’apprendimento a una teleologia impropria. Se la motivazione all’apprendimento degli studenti deve avere uno scopo, questo non può essere mosso dalla competizione, dalla gerarchizzazione interna, dall’omologazione che non valorizzi la divergenza. Per questo e altri motivi, la pedagogia ha riflettuto profondamente sulla valutazione degli apprendimenti, sostituendo – negli anni ’70 – la pratica valutativa tradizionale con modelli alternativi. Poi arrivò la meritevolissima Maria Stella Gelmini; che, tra i tanti – indiscutibili – danni prodotti, decise di metter mano alla materia, proprio nella maniera più inopportuna: “Dall’anno scolastico 2008/2009, nella scuola primaria la valutazione periodica e annuale degli apprendimenti degli alunni e la certificazione delle competenze da essi acquisite sono effettuate mediante l’attribuzione di voti numerici espressi in decimi e illustrate con giudizio analitico sul livello globale di maturazione raggiunto dall’alunno (…). Dall’anno scolastico 2008/2009, nella scuola secondaria di primo grado la  valutazione periodica ed annuale degli apprendimenti degli alunni  e  la  certificazione  delle  competenze da essi acquisite è nonché la valutazione dell’esame finale del ciclo sono effettuate mediante l’attribuzione di voti numerici espressi in decimi”. Si tratta dell’art. 2 della legge 169/08, conversione di un decreto legge, il 137/08. Allora, come ora, si usava inserire – a dispetto della Costituzione – materia priva dei requisiti di necessità ed urgenza nei decreti legge; infine, recepito nel dpr 122/09. Detto tra parentesi: i risultati dell’”urgente” provvedimento (attuato da una delle più spietate sostenitrici della valutazione e della rendicontazione) non sono mai stati resi pubblici; non sappiamo, pertanto, se questa modifica abbia condizionato il livello degli apprendimenti degli studenti della scuola primaria e della secondaria di I grado.

Da quel momento sulle pagelle dei bambini delle elementari e dei ragazzi delle medie sono scomparsi gli aggettivi (non suff., suff, buono, distinto e ottimo) bensì i numeri. Si trattò dell’approdo di un percorso, iniziato da Berlinguer, che determinò un processo di arretramento rispetto alla “scheda di valutazione”, inaugurata con la L. 517/77 . Un clamoroso ritorno al passato. Là dove il passato era evidentemente peggiore. Proprio in un momento in cui – altrove, alle scuole superiori, per esempio, lì dove vigeva lo scarno voto numerico – si iniziavano a considerare (o applicare sperimentalmente, studiandone le modalità) registri e schede valutative di tipo nuovo, sul modello della scuola dell’obbligo, da affiancare alla canonica pagella. L’operazione riservata alla valutazione degli apprendimenti nella scuola privata corrispose a quella analoga – a livello generale – approntata da Gelmini e Tremonti sulla scuola tutta: “semplificare”. Che non era qualcosa di molto diverso da quello che Michele Serra, in un intervento su Repubblica dell’epoca, chiamò pensiero sbrigativo; che – a mio avviso – non concluse lì il suo pericoloso percorso, ma ha continuato a dilagare. Prova ne è – tra i tanti esempi – l’”invalsizzazione” degli apprendimenti.

Fu un’operazione di marketing, ai danni della psicologia e degli apprendimenti dei bambini; della relazione educativa; di un lavoro di ricerca, formazione, sperimentazione portato avanti dai docenti. Il messaggio fu chiaro: restaurare. Tornare all’ordine rassicurante di un prima, quando il pensiero pedagogico – genericamente considerato “di sinistra” e, a maggior ragione, da Berlusconi e i suoi, che quando volevano suscitare paura o disgusto si rivolgevano all’avversario con l’epiteto “comunista” – non aveva ancora fatto passi tali da approdare alla consapevolezza che il voto (pur nella sua apparente chiarezza ed oggettività, rassicuranti appunto) nasconde il contenuto reale della valutazione: dietro non si sa cosa c’è e il giudizio morale si mescola a quello sull’ apprendimento ancor più facilmente. “Sofismi” inutili, ai quali la restaurazione non prestò alcun tipo di ascolto. Quello che interessava allora – mediaticamente e non pedagogicamente – era ripristinare il mos maiorum. E, del resto, l’assoluto disinteresse per istanze di natura pedagogica – allora come oggi – sono stati una costante di coloro che hanno avuto la responsabilità di gestire il sistema scolastico: più della centralità del soggetto in apprendimento hanno potuto, possono, e – temo – potranno i dettami della Troika. Risparmiare: concretamente attraverso la contrazione della spesa; ideologicamente, attraverso la sistematica compressione del pensiero critico e divergente e degli spazi della libertà di insegnamento.

Dopo anni di acquiescenza a questa ennesimo tributo all’irreggimentazione in una “razionalizzazione” (delle risorse, con i tagli; delle conoscenze, con gli Invalsi e con nuove pratiche che comprimono intenzionalmente il pensiero critico-analitico; della valutazione, con i voti numerici in tutti gli ordini di scuola, che accantonavano di colpo gli studi precedenti sulla funzione narrativa e formativa del complesso processo di valutazione) finalmente una voce – quella dell’MCE, Movimento di Cooperazione Educativa – si alza per ricordare l’insensatezza del cambiamento del 2008. Si alza attraverso un appello, firmato già da varie associazioni e che prego tutti di leggere per poi, eventualmente, aderire, per l’abolizione del voto numerico nel primo ciclo di istruzione.

Pur rendendoci conto delle difficoltà a intervenire legislativamente in tempi ragionevoli, sottolineiamo come quotidianamente emergano i guati profondi prodotti ad opera del DECRETO-LEGGE 1 settembre 2008, n. 137 del Min. Gelmini che ha introdotto nella scuola primaria la valutazione in voti numerici espressi in decimi. Il decreto convertito in legge (Legge n.169/2008) fu seguito dalla circolare n. 10 del 23/01/2009 che all’art. recita “Il suo uso nella pratica quotidiana di attività didattica è rimesso discrezionalmente ai docenti della classe, in ragione degli elementi che attengono ai processi formativi degli alunni secondo il loro percorso personalizzato.”
Si legge tra le righe la preoccupazione di effetti non necessariamente positivamente scontati, tanto che si rimanda ad un uso discrezionale dell’assegnazione del voto nell’attività didattica quotidiana. Il rischio che si rimuovano, gli elementi che attengono ai processi, non è stato opportunamente ponderato. Tanto che si può affermare che questa legge si sostanzia nella riduzione della valutazione a un’operazione sommativa, E’ possibile che i voti vengano assegnati ad ogni prestazione, prova, interrogazione, valutazione intermedia, ben al di là dello stesso dettato della norma. Per non parlare dell’altro rischio: le bocciature degli alunni fin dalla classe prima di scuola primaria. Parallelamente, lo smantellamento della collegialità docente, la frammentazione e moltiplicazione di interventi di didattica breve nelle classi, hanno via via ridotto gli spazi di confronto, scambio di punti di vista, riprogettazione degli interventi. I docenti si muovono in contesti molto sfavorevoli, sia dal punto di vista dei vincoli che possiedono, sia dal punto di vista delle indicazioni presenti nelle leggi, come nel caso della Legge sulla Valutazione, in forte contraddizione con finalità e obiettivi della pedagogia delle Indicazioni Nazionali per il curricolo. La valutazione sommativa è in evidente contrasto con le Indicazioni nazionali che fanno riferimento esplicitamente a una valutazione formativa. Tempi ristretti, rapidità delle forme di compilazione, mal si conciliano con un’idea di individualizzazione degli apprendimenti, di rispetto dei diversi stili e ritmi di apprendimento, di comunità docente riflessiva, di motivazione intrinseca.
Il MCE propone al mondo associativo dei docenti, dei dirigenti scolastici, dei genitori, alle organizzazioni sindacali, al mondo della ricerca pedagogica e dell’Università di costruire assieme una grande campagna di sensibilizzazione su questa problematica che rischia di produrre discriminazioni, improprie gerarchizzazioni e forme di competizione fra gli alunni.
Una prima occasione di lancio della campagna sarà costituito da un seminario sulla valutazione delle competenze che la nostra associazione organizza a Roma sabato 21 marzo 2015 cui sono invitati rappresentanti del mondo associazionistico e delle altre organizzazioni citate in precedenza.
Ci stiamo impegnando a che nelle classi si discuta con gli alunni e negli incontri con le famiglie sul senso e l’effetto dei voti per consentire una diversa consapevolezza del compito e delle finalità della valutazione come azione di attribuzione di valore e come lettura intersoggettiva delle esperienze scolastiche.

L’appello ha immediatamente richiamato l’interesse di molti. Sul sito Pavone Risorse è possibile leggere alcuni interventi in merito. Mi auguro possano essere di aiuto per attirare l’attenzione sulla necessità di riflettere su questo tema importante. L’appello dell’MCE rappresenta certamente un’operazione in controtendenza culturale in senso ampio; fuori dalle parole d’ordine, dai karma ideologici, dalle parole-chiave del “nuovo che avanza” (modernità, smart, brand, meritocrazia). Che sottolinea la necessità del passaggio ad una forma di valutazione complessa e descrittiva che analizzi attentamente le pratiche, che consenta l’osservazione e la valutazione del processo di insegnamento-apprendimento nella sua complessità e interconnessione, che valorizzi  e non stigmatizzi l’errore e la divergenza, che permetta modi e tempi basati sul lavoro disteso e non in piccole dosi parcellizzate, segmentate, sviluppando lo scambio, la relazione e il confronto.

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Marina Boscaino

Docente di italiano e latino in un liceo classico di Roma, blogger del Fatto Quotidiano e di MicroMegaOnline, e coordinatrice delll’Associazione Nazionale Per la Scuola della Repubblica. Scuola e Costituzione il binomio cui ispira la sua attività di insegnante e giornalista e il suo impegno di cittadina.

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