Esame di Stato: una questione aperta

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Mio figlio quest’anno affronterà l’esame di Stato. È un ragazzo abituato da suo padre e sua madre a pensare che le acquisizioni della vita devono essere meritate; che occorrono impegno e rigore per raggiungere un obiettivo; che la conoscenza deve essere disinteressata, perché ci rende migliori come cittadini e come uomini. Sa che le scorciatoie, per noi, non sono appetibili. Quindi non siamo particolarmente appassionati alla possibilità – ormai una certezza – che l’esame venga quest’anno per l’ennesima volta riformato.

Il mondo della scuola, con la sua atavica abitudine al re-styling (negli ultimi 15 anni motivato quasi esclusivamente da motivi di bilancio) è diviso in favorevoli e contrari rispetto all’inserimento di tutti membri interni in commissione. Chi ritiene l’esame di Stato un’inutile liturgia ormai priva di senso, e pertanto destinata a scomparire, è anche chi maggiormente plaude a commissioni costituite esclusivamente da membri interni. Chi, invece, si dichiara apertamente contrario a questa eccessiva semplificazione, rivendica l’importanza e la serietà di una tappa significativa nel percorso di studi. Tra i primi, però, c’è anche chi sostiene la necessità che siano coloro che hanno seguito il ragazzo negli anni, i docenti curricolari, che devono essere messi nella condizione di valutarlo alla fine del percorso scolastico, affinché la valutazione stessa tenga conto non solo della prestazione fornita all’esame, ma anche dello sviluppo che – registrando miglioramenti o peggioramenti per quanto riguarda impegno, capacità, conoscenze, comportamenti – lo studente ha avuto nel corso del tempo. L’argomento non è inconsistente, anche se tale considerazione è già affidata al computo nella valutazione finale dei crediti acquisiti durante il triennio.

Le ultime modifiche rispetto alla commissione tutta interne sono state dovute esclusivamente a contenimento di spesa e risparmio; nulla di didatticamente o pedagogicamente determinato e motivato.

La discussione sarebbe lunga e appassionante. Del resto, da quando Giovanni Gentile introdusse la prova, nel 1923, in una forma tanto severa – nell’a.s. 1924-25 i promossi furono il 59,5% alla maturità classica e 54,9% alla maturità scientifica (l’anno precedente, quello dell’esordio, la percentuale era stata ancora più bassa) – che il ministro Fedele (su pressione dei gerarchi fascisti e dell’opinione pubblica) fu costretto a semplificarla, si sono susseguiti ben 7 interventi sostanziali, che hanno portato – anche dal punto di vista della composizione delle commissioni – a soluzioni e ripensamenti. C’è da aggiungere, però, un particolare non irrilevante: le ultime modifiche rispetto alla commissione tutta interna (Moratti e, adesso, Giannini) sono state dovute esclusivamente a contenimento di spesa e risparmio; nulla di didatticamente o pedagogicamente determinato e motivato.

Nel recente intervento su Repubblica Tv, in cui ha spaziato tra vari argomenti rispondendo alle domande dei cittadini in merito alla maturità, la ministra ha affermato: “Nessuna intenzione di riformismo radicale per l’esame (…) solo la scelta tra commissione interna e commissione mista. Il mio punto di vista, e quello di molti tecnici, è di passare a una commissione interna con un commissario esterno (…) del resto questa modalità è molto più coerente al progetto della Buona Scuola e anche alla funzione che ha oggi l’esame di Stato. (…) Tutti sanno che il tasso di promozione è il 98% (…) perché l’esame ha il compito di sintetizzare il ciclo di uno studente (…). Chi può farlo meglio dei professori interni?”. Per quale motivo la conclusione di un ciclo debba/possa portare necessariamente risultati positivi rimane misterioso. Giannini ha poi aggiunto: “L’operazione ci farà anche risparmiare molti soldi, che di questi tempi…”. Ecco svelato il motivo principale di questa ennesima modifica, già tentata nel 2002 da Moratti, e dopo la quale Fioroni ristabilì il sistema misto, viste le accuse di “maturità all’acqua di rose” che piovvero addosso alla ministra. E che – è notizia di questi giorni – si inserisce in un quadro più ampio di tagli alla scuola.

La revisione delle commissioni di esame di Stato porta alla ribalta, inoltre, due temi molto importanti, in una prova già terribilmente indebolita dalla celebrazione di molti test di accesso all’università durante l’ultimo anno di scuola secondaria.

Il primo: la questione delle scuole paritarie. Sinteticamente si può affermare che, rispetto all’a.s. 2000-2001 i candidati privatisti negli istituti non statali si sono quasi decuplicati, producendo nelle iscrizioni alla scuola privata quella che è stata definita una «piramide rovesciata», con un incremento progressivo delle iscrizioni alle ultime classi e un boom incontrollabile delle iscrizioni alla classe d’uscita: pochi iscritti nelle prime classi, sempre più nelle classi di mezzo, moltissimi all’ultimo anno. È tipico il caso dello studente che, ottenuti risultati negativi alla fine del primo quadrimestre, si trasferisce presso l’istituto che gli garantisce un’uscita indolore dal ciclo dell’istruzione a suon di migliaia di euro. O ancora i famosi «due anni in uno», spericolata e costosa gimkana premiata con la promozione sicura. Nello stesso tempo sono diminuiti i privatisti che hanno sostenuto gli esami presso le scuole statali. Come impedire che il provvedimento incida ulteriormente sulle forme di malcostume e di svendita del titolo di studio? Non si sa. E appare particolarmente strano che il governo di centro-sinistra, sotto il quale venne concepita e approvata la legge 62/00 relativa alla parità scolastica, in seguito alla quale si concesse la parità a istituti anche indegni, senza controllo dei requisiti previsti dalla legge, favorendo la compravendita di titolo di studio (a fronte di altri, che – acquisita la parità – hanno assolto ai propri impegni e a criteri di qualità), non si preoccupi di calmierare un fenomeno in cui, in particolare nelle regioni del Sud, talvolta persino la malavita organizzata detta legge, gestisce contratti capestro per gli insegnanti, determina tariffe.

Il secondo tema riguarda la questione del valore legale del titolo di studio, che determina la certezza del possesso di una preparazione culturale e professionale in conformità agli standard fissati dall’ordinamento didattico nazionale; da questo dipendono la partecipazione a concorsi pubblici e l’accesso ai concorsi per l’iscrizione agli albi professionali. Certificazione, dunque, di un bagaglio culturale, nonché creazione di condizioni di parità di accesso in alcuni settori lavorativi. Da tempo il dibattito su questo tema è accesso, grazie anche alla folta schiera dei sostenitori dell’abolizione. Ma occorre riflettere sul fatto che la mancanza della necessità del ‘pezzo di carta’ per accedere al mercato del lavoro, implicherebbe la frequenza delle scuole solo da parte dei ragazzi veramente motivati, con un conseguente miglioramento dell’offerta formativa; in realtà la proposta potrebbe preludere a un mercato selvaggio di corsi privati. Infatti il valore legale del titolo di studio si basa su due pilastri: le norme generali dell’istruzione, che sono dettate dalla Repubblica e che fissano le caratteristiche generali dei corsi di studio e dei titoli rilasciati, e l’esame di Stato, che ha la funzione di accertare – nell’interesse pubblico generale – il possesso di specifiche competenze e conoscenze. È evidente che, sopprimendo questa forte componente ‘pubblica’, verrebbero meno requisiti sostanziali del sistema dell’istruzione sancito dalla Costituzione. Si dovrebbe eludere il dl 206/07, che recepisce alcune direttive comunitarie secondo le quali i paesi membri dell’UE sono tenuti a riconoscere il valore legale di titoli e qualifiche di ciascun altro paese. Si registrerebbe una riduzione della partecipazione al processo formativo e una devastazione della scuola come luogo di formazione di cittadini. Verrebbero soppresse garanzie nell’accesso al lavoro. Ma soprattutto – in questo vento di privatizzazione volto a sostituire la scuola con le fondazioni – si darebbe una spallata definitiva al concetto di scuola dello Stato penalizzando, ancora una volta, le fasce più deboli della popolazione.

Nei 100 punti per l’istruzione, Confindustria ha apertamente parlato di abolizione del valore legale del titolo di studio.

Come è evidente, la questione è tutt’altro che semplice. E non si gioca, se non nelle scuole statali, in termini di riflessioni didattico-pedagogica; altrove la posta in gioco è molto più alta e i discorsi sono molto più “concreti”. Riguarda questioni economiche, situazioni da non disturbare; una visione neo liberista per dirimere i problemi dell’istruzione e dell’educazione. Le pressioni sono molte: nei 100 punti per l’istruzione, Confindustria ha apertamente parlato di abolizione del valore legale del titolo di studio.

Recentemente “Tecnica della Scuola” ha sottoposto i propri lettori a un quesito: come pensi si possa riformare l’esame di Stato? Mentre scrivo, su 643 voti il 49,8% indica la risposta “va bene così com’è”; il 30,3% “va bene solo lo scrutinio finale”; il 19,9% “solo commissari interni, con un presidente esterno”.

Che il cambiamento nella composizione della commissione d’esame possa preludere a imminenti soluzioni nella direzione dell’abolizione del valore legale del titolo di studio, pare abbastanza evidente. Rino di Meglio, della Gilda degli insegnanti, sottolinea: “Sull’esame di maturità si sta ripetendo il solito copione che va in scena in Italia: si fugge dal nodo centrale del problema. La questione principale non ruota intorno ai commissari interni o esterni, ma al valore legale del titolo di studio. Istituire commissioni composte soltanto da docenti interni non sarebbe una novità, visto che l’esperimento fu tentato già dall’ex ministro Moratti e si rivelò un flop. Se si vuole davvero cambiare l’esame di Maturità, occorre aprire un dibattito culturale serio che coinvolga anche il tema dell’autonomia scolastica”. “In Italia il diploma di Maturità ha valore legale – spiega Di Meglio – perché a stabilirlo fu il 90% dell’Assemblea Costituente e i commissari esterni servono per garantire uniformità su tutto il territorio nazionale. Modificare questo sistema è una scelta politica che va dibattuta in Parlamento e non deve essere un’operazione dettata da motivi economici”.
Non possiamo che dargli ragione.

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Marina Boscaino

Docente di italiano e latino in un liceo classico di Roma, blogger del Fatto Quotidiano e di MicroMegaOnline, e coordinatrice delll’Associazione Nazionale Per la Scuola della Repubblica. Scuola e Costituzione il binomio cui ispira la sua attività di insegnante e giornalista e il suo impegno di cittadina.

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