La volontà generale: da Robespierre alle formiche

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In un gruppo sociale chi deve decidere? Si tratta di uno dei problemi tra il sociale e il politico più intriganti. La soluzione di Rousseau è una delle opzioni teoriche più note: “Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale”. La realizzazione che ne diede Robespierre, che cercava di interpretare la volontà generale, portò al Terrore.

rousseau

La teoria di Rousseau infatti presta il fianco alla grave critica di non rendere chiaro il meccanismo effettivo di individuazione della volontà generale. Rousseau ci dice che essa è sempre retta e che non si individua con un meccanismo secco a maggioranza: “si vuole sempre il proprio bene, ma non sempre si capisce qual è; il popolo non viene mai corrotto, ma spesso viene ingannato e allora soltanto sembra volere ciò che è male” (Il contratto sociale, libro II, cap. 3). Al di là di un certo ottimismo antropologico sotteso al passo, si nota l’esplicita ammissione che la massa può errare nel giudizio. Di seguito al testo citato, Rousseau aggiunge che i partiti e le logiche di gruppo che spingono gli individui a uniformarsi ad altri inceppano il meccanismo decisionale, portando al prevalere non già della volontà generale, ma di una posizione particolare. Ne conclude l’autore: “Per avere la schietta enunciazione della volontà generale è dunque importante che nello Stato non ci siano società parziali e che ogni cittadino pensi solo con la propria testa”. Insomma, bando ai gruppi e viva le prese di posizione individuali, senza filtri.

Quello che durante la Rivoluzione francese di fatto avvenne fu proprio quanto si poteva temere sulla base del modello teorico di Rousseau: abolita la nobiltà (con l’abolizione del regime feudale), messo in riga il clero (con l’eccezione del clero refrattario che però politicamente non contava), caduti i foglianti che sostenevano il re, neutralizzati i girondini col Tribunale Rivoluzionario, finalmente i giacobini ebbero la via spianata. O quasi. Gli indulgenti di Danton e gli hébertisti cercarono di opporsi alla dittatura, ma senza successo. Gli ideali giacobini erano nobili: si trattava di garantire il benessere al paese, di garantire la giustizia. Inoltre c’erano oggettive urgenze pubbliche, visto che la Francia era in guerra. Non si deve guardare al solo Terrore per capire come mai essi riuscirono ad avere il consenso, almeno per un po’. Tali scopi venivano però realizzati grazie al Tribunale Rivoluzionario che faceva da boia, ammantando di giustizia l’eliminazione fisica degli oppositori politici. Insomma, tutto il processo rivoluzionario fu segnato da un raccogliersi in gruppo. Un gruppo colpì l’altro, portando all’eliminazione progressiva di quelli che via via erano i gruppi più deboli. La storia procedeva col prevalere del tutto provvisorio di un gruppo sugli altri. Non era la volontà generale a vincere di volta in volta, ma gli interessi di parte che si imponevano sul tutto, troppo debole e diviso e segnato dalla volontà di affermare il proprio particolare.

All’interno dei gruppi i loro leader, quando non erano mossi dall’interesse di parte, cercavano di realizzare il bene comune. Ritenersi l’espressione della volontà generale da parte di un singolo però è pericoloso, perché lo porta (si chiami egli Robespierre, o Hitler, o Stalin) a perdere il contatto con la realtà. Tale convinzione lo rende sordo alle critiche e gli fa dimenticare che la politica è l’arte del compromesso. Per ovviare ai personalismi delle leadership visionarie, se non addirittura folli, le moderne democrazie hanno creato sistemi di leadership non personalistici, ma collegiali. In essi il leader è controllato da altri e controlla gli altri. Il tutto avviene pubblicamente, in linea di principio. Almeno in Italia, la sclerotizzazione delle élite formatesi negli anni scorsi ha bloccato gli urgenti rinnovamenti sociali di un mondo in rapida trasformazione. Ciò dipende da un limite strutturale del sistema politico vigente.

Per uscire dall’impasse alcuni teorici stanno tornando a Rousseau. La vita di un formicaio, in cui nessuno prende le decisioni e tutto è organizzato, è il modello di riferimento. Internet sarebbe lo strumento che rende tale modello realizzabile, perché dà modo di esprimere il proprio parere e di portare a deliberazioni collettive rapide e non mediate. Ma su questo, un’altra volta.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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