
Pierre Michon si impone nel panorama letterario francese con la pubblicazione, nel 1984, della raccolta Vite minuscole, una rivisitazione radicale del modello plutarchiano delle Vite parallele, in cui narra l’esistenza di figure marginali con una prosa densa e cesellata. Nel 2009, l’autore torna a intrecciare storia e letteratura con Gli Undici, un’opera ambientata nel cuore del Terrore rivoluzionario, quando la Rivoluzione francese raggiunge il culmine della sua ferocia e il Comitato degli Undici si accinge a scatenare una repressione spietata.
Al centro della narrazione non vi sono Robespierre e i suoi colleghi – Billaud, Carnot, Prieur, Couthon, Collot, Barère, Lindet, Saint-Just, Saint-André – bensì un pittore: François-Élie Corentin, soprannominato il “Tiepolo del Terrore”. Questo titolo gli deriva dall’essere stato, in gioventù, assistente e modello di Giambattista Tiepolo durante gli affreschi della reggia di Würzburg. Michon ne ripercorre l’infanzia sulle rive della Loira e ne delinea un ritratto vivido e sfaccettato: un uomo di statura media e dall’aspetto scialbo, che tuttavia affascina con i suoi silenzi febbrili, il suo umore mutevole, oscillante tra una cupa gaiezza e un’arroganza torva. Lo si può scorgere, appena ventenne, in una delle volte di Würzburg, raffigurato da Tiepolo stesso nel corteo nuziale di Federico Barbarossa, circondato da una moltitudine di figure, simboli e allegorie.
Tornato in Francia dopo il suo apprendistato, Corentin riceve una commissione sconcertante: il Comitato degli Undici, non ancora salito al potere, desidera un quadro che immortali la propria grandezza e il proprio impegno per la Francia. Una notte gelida del mese di Nivôse del 1794, un drappello di sanculotti lo preleva dalla sua abitazione e lo conduce nella sacrestia sconsacrata di Saint-Nicolas-des-Champs. Qui incontra tre eminenti dirigenti rivoluzionari: Léonard Bourdon, ex maestro di scuola e fervente promotore della dea Ragione, impegnato nella distruzione dei simboli della superstizione cristiana; Proli, un fiammingo dalle mani d’oro, noto come “il banchiere dei patrioti”, la cui presenza sorprende il pittore, poiché si dice sia in disgrazia e ricercato; infine, Collot d’Herbois, attore e autore di commedie, un tempo suo amico.
I tre uomini gli affidano l’incarico: dipingere il “Grande Comitato dell’Anno II”, una vera e propria apoteosi del potere giacobino. Corentin accetta ponendo tre condizioni – compatibilità con il proprio stile, compenso e tempi di consegna – e, come risposta, il banchiere fiammingo rovescia sul tavolo una borsa colma di monete d’oro, un tesoro in un periodo in cui la Francia è priva di metalli preziosi. Il pittore chiede cosa dovrà rappresentare e si sente rispondere: «Un’assemblea di eroi».
Fin dall’inizio, il quadro si carica di un’ambivalenza ineludibile: non è chiaro se la sua commissione sia un atto di celebrazione o un’astuta strategia politica in un contesto di lotte intestine e sospetti che presto travolgeranno anche i protagonisti del Terrore, fino alla caduta di Robespierre e Saint-Just. Corentin, con un’audacia mai avuta prima, realizza un’opera destinata a diventare leggendaria: un capolavoro che mostra al contempo la grandezza e la miseria, la nobiltà e la crudeltà del potere rivoluzionario. Il narratore ci dice che Jules Michelet, lo storico per eccellenza della Rivoluzione francese, considera “Gli Undici” una sorta di “Ultima Cena rivoluzionaria”, non un semplice dipinto storico come quelli di David, ma la storia stessa che si manifesta sulla tela, colma di sgomento e terrore. Per Michelet, tuttavia, è un’Ultima Cena falsata, non perché vi manchi Cristo – assenza che anzi lo esalta – ma perché ciò che vi appare non è l’anima collettiva del Popolo del 1789, bensì l’emblema del tiranno che si spaccia per esso.

Al confronto, “La morte di Marat” di David appare come un’opera intima e “caravaggesca”, relegata nei corridoi periferici del museo di Versailles, mentre la monumentale tela “quattro metri per tre” di Corentin troneggia nel cuore del Louvre, diventando il vero e proprio fulcro del museo, il suo bersaglio ultimo. E giunti alla fine di questo viaggio immersivo tra colori, passioni e tragedie rivoluzionarie, il lettore si chiede se davvero, da qualche parte, il quadro esista, tanto è il realismo con cui Michon ne descrive ogni dettaglio e atmosfera.
Eppure, il dipinto di Corentin non è una semplice opera di propaganda: è una raffinata strategia di comunicazione. L’unica indicazione data al pittore è di far emergere, più di ogni altro, la figura di Robespierre e di Saint-Just, poiché il Comitato non ha più esistenza politica. E qui risiede la sottile astuzia: se Robespierre avesse trionfato, il quadro sarebbe stato un omaggio alla sua grandezza; se fosse caduto, sarebbe diventato una prova della sua brama di potere. In ogni caso, l’opera segna la fine delle grandi passioni rivoluzionarie, lasciando spazio esclusivamente agli interessi individuali.
Eliminati realisti, foglianti e girondini, non esistono più partiti, solo ruoli: «Quei ‘partiti’ – dice la voce narrante – non erano altro che maschere di un teatro crudele, dove ciascuno alzava la voce per sovrastare quella altrui, fino a farla tacere per sempre. Non si trattava più di opinioni, ma di teatro; e così accade sempre quando la pittura si fa politica e riduce la storia alla semplice rappresentazione di uomini».
Alla fine, il lettore si arrovella: se tutto in questo romanzo è storia, tranne il dipinto e il suo autore, possiamo ancora parlare di mera finzione? La narrazione di Michon non è semplice invenzione, ma un gioco raffinato tra realtà e immaginazione, dove la storia appare più vera del vero proprio perché è il frutto di un impasto inscindibile tra fatti documentati e pura creazione letteraria. Per lo scrittore, la storia è narrabile solo quando lo storico la modella attraverso un sapiente montaggio. Non a caso, Michon stesso afferma: «Metto in dubbio ogni rappresentazione interpretativa della Storia. Anche la più documentata, alla fine, mi appare tanto opaca e misteriosa quanto le pitture di Lascaux. La Storia è finzione, la più alta finzione»[1].
Note
[1] Citato in Souad Yacoub Khlif, Fiction et histoire dans «Les Onze» de Pierre Michon, in «Itinéraires», 2013-1; pubblicato online il 1° ottobre 2013.