“Cribol” di Comisso fra vitalismo e fanatismo religioso

Tempo di lettura stimato: 14 minuti
Viene ora riproposto dalla Nave di Teseo il romanzo di Comisso, arricchito da una prefazione di Paolo Di Paolo.

Comisso è stato un intellettuale in apparenza solitario, legato alle radici di un territorio (il Veneto), da cui provengono grandi letterati, come Goffredo Parise, Giacomo Noventa, Nico Naldini e Andrea Zanzotto, per citarne alcuni. Per descrivere il Comisso uomo e scrittore sono stati evocati i nomi di Casanova, Stendhal e D’Annunzio. Alberto Arbasino ha riconosciuto in lui uno dei suoi maestri inserendolo nell’albero genealogico della sua famiglia letteraria, a fianco di Moravia, Soldati e Brancati (i padri), Gadda e Palazzeschi (gli zii anziani); Bassani e Flaiano (gli zii giovani)[1].

Dopo un percorso scolastico difficile, conclusosi con la bocciatura alla maturità, nel 1914 si arruolò volontario per un anno al corso Genio telegrafisti di Firenze, per essere spedito al fronte nella Grande Guerra. Ripresi gli studi, si laureò in legge, ma non maturò mai l’attitudine alla pratica forense. Nel 1927, rispondendo all’invito di Giorgio Pini, direttore de «L’Assalto», che aveva da poco inaugurato una rubrica di “autobiografie”, ammise:

Mi ero laureato a Siena in legge, ma gli articoli del codice mi pesavano come condanne. Cercavo di scoprirvi tra le righe motivi poetici. Trovavo che la riga dell’articolo 30 del c.p. “Ogni giorno di pena è di 24 ore” corrispondeva a questo verso del Petrarca: “Tutto il dì piango”. Esasperato dalla vita tra la carta bollata e i codici tentai la salvezza in ciò che fin dalla giovinezza mi aveva dato la più alta speranza»[2].

Cominciò a scrivere: prima per i giornali locali; poi, i ricordi della guerra e di Fiume lo spinsero a «tentare un libro». Era Giorni di guerra: libro di ricordi, scritto nel 1919, ma uscito solo nel 1930, con la «guerra vista come fonte di emozioni e avventure»[3]. Si fece, per lui, il nome di Stendhal. È a Stendhal – secondo Giacinto Spagnoletti – «che si ripensa di continuo, leggendo questi ricordi ancora così annodati ad esperienze reali, da sembrare appunti scritti in giornata»[4]. Dello stesso avviso fu Gianfranco Contini, che volle sottolineare lo «stendhalismo originario» di Comisso: «mettete accanto al Waterloo della Chartreuse il Caporetto di Giorni di guerra»[5]. Del resto, alla fine del primo conflitto, Comisso confessò di aver trovato nei romanzi di Stendhal «conferme alla sua vita»[6].

Altra esperienza fondamentale nel cammino umano e letterario di Comisso fu il coinvolgimento nell’Impresa di Fiume, a fianco di D’Annunzio (del quale fece sua la «lezione di stile»[7] e «la chiarezza poetica»[8]) e dei suoi legionari. A Fiume rimase sino alla mattanza del “Natale di sangue”, durante la quale combatté «come se si fosse trattato d’una ripresa della guerra»[9]. In questi giorni concitati, si legò in particolare allo scrittore americano Henry Furst, a Léon Kochnitzky, raffinato esteta di origini russe, amante dei Balletti russi, e soprattutto a Guido Keller, stravagante esemplare di soldato, che amava posare come un tritone, con il quale nell’estate del 1920 trascorse giorni indimenticabili veleggiando tra le isole del Quarnaro: ne nacquero alcune fra le pagine più belle de Il porto dell’amore (1924)[10]. Si diede quindi a trafficare nell’Adriatico, «commerciando alla meno peggio, tra rischi di naufragi, lottando contro le autorità jugoslave», per finire arrestato nell’isola di Pago[11]. Il resto è una vita di viaggi, avventure, ozio, libertà e vagabondaggi, per avere poi, «egocentrico e sensuale […], come il suo vago antenato Casanova»[12], il piacere di raccontare.

Il maggiore contributo di Comisso si concentra principalmente su un’opera di memoria e riflessione autobiografica. In Le mie stagioni del 1951, lo scrittore esplora nuovamente gli eventi legati a Fiume e racconta le sue esperienze come individuo e autore durante l’era fascista. In questo contesto, raggiunge una profonda interpretazione della realtà, registrandone attentamente gli aspetti più evidenti e sensibili. Nella parte conclusiva dell’opera, dedicata alla breve vita e alla tragica morte di un giovane amico durante la guerra civile, Comisso aggiunge una nota malinconica, trasformando le esperienze precedentemente legate solo ai sensi in momenti che toccano le vette della tragedia.[13]

Scorrendo i titoli delle sue opere, ci vengono incontro testi come i racconti di Un gatto attraversa la strada (1955), per il quale ottenne lo Strega, La mia casa di campagna (1958), le Satire italiane (1961) e il romanzo drammatico La donna del lago (1962), ricco di interpretazioni simbolico-panteistiche che riportano alla lezione dannunziana. A questi segue il romanzo Cribol, la cui storia editoriale risale al 1964, quando appare in prima edizione per Longanesi; il romanzo è stato poi rieditato nel 1968 dallo stesso editore insieme a La donna del lago. Al 1993 risale l’ultima edizione, questa volta per Guanda. Escluso dal “Meridiano”, comprendente una selezione significativa di testi dell’autore, viene ora riproposto dalla Nave di Teseo all’interno di un piano editoriale volto a riportare alla luce le opere dello scrittore trevigiano. Come nei casi precedenti di Gioventù che muore, Gente di mare, Un gatto attraversa la strada, anche questa pubblicazione è inserita nella collezione “I libri di Comisso” ed è arricchita da una prefazione di Paolo Di Paolo.

Nel racconto, ambientato nel pittoresco e semi-immaginario paesino di Avièn, prende forma la storia di un personaggio affascinante quanto inquietante: Cribol. Descritto come un individuo dalla natura primitiva e dalla lingua facile, Cribol è un uomo intraprendente, nonostante l’ostacolo rappresentato da una gamba anchilosata. Il soprannome “Cribol” deriva da una particolare espressione che diventa il suo marchio di fabbrica, una sorta di fusione tra le parole “Cristo” e “diavolo”, che il protagonista era solito esclamare «quando si arrabbiava giocando alle carte[,] e suonava come una bestemmia».

Cribol si imbarca in un’avventura ai limiti della decenza nel tentativo di recuperare la virilità perduta. A consigliarlo è un anziano pastore, supportato dalle stravaganti teorie del farmacista locale, lettore e seguace del medico-alchimista Paracelso[14]. Cribol inizia la cura, senza grandi intoppi, con l’aiuto di alcuni giovani accondiscendenti incontrati in riva al fiume. Tuttavia, le sue azioni non passano inosservate e innescano una vera e propria guerra dichiarata dal fanatico parroco del paese, don Fulvio, che osserva col cannocchiale i movimenti di Cribol. Ma, inaspettato, giunge il trasferimento di don Fulvio per motivi disciplinari. La trama si sviluppa ulteriormente con l’arrivo del nuovo prete in canonica, un uomo comprensivo e caritatevole dal temperamento completamente diverso, che aveva già conosciuto Cribol in una circostanza decisamente particolare.

Intricato di humor, suspense e profondità psicologica, questo romanzo offre una panoramica avvincente sulla vita in un piccolo villaggio, esplorando le sfumature dei personaggi e le dinamiche sociali con una prosa coinvolgente e ben orchestrata. Un’opera che cattura l’immaginazione e invita il lettore a riflettere sulla complessità umana in contesti inaspettati. Per descrivere la capacità narrativa di Comisso in questo romanzo è stato proposto un parallelismo con Pirandello[15]. Secondo quanto osservato, per Pirandello, «l’abilità di un narratore nell’avvicinare il più possibile il piano delle parole a quello delle cose, fino a farli coincidere». Tuttavia, è importante sottolineare che per lo scrittore siciliano, tale impresa sarebbe una sfida destinata a incontrare inevitabili ostacoli. Per Pirandello, la parola è una convenzione artificiosa, uno “strappo” (Il fu Mattia Pascal, xii cap.), che non riesce a penetrare appieno nella vita, ma danza attorno a essa cercando di reinterpretarla secondo regole proprie[16].

Ma Comisso non si spinge oltre, e né in teoria potrebbe, non avendo a sorreggerlo una formazione letteraria e filosofica paragonabile a quella del grande siciliano. In ogni caso, nonostante il totale abbandono del dialogo, Comisso è riuscito a plasmare la narrazione con un ritmo tanto naturale e coinvolgente. Ma questa caratteristica è una costante nell’opera del trevigiano e si manifesta anche nei suoi racconti, nei libri di viaggio e nei romanzi, come La donna del lago, in cui il dialogo è ridotto al minimo. Nonostante la mancanza di dialoghi, lo stile di Comisso non si perde in una staticità autocompiaciuta, ma si presenta dinamico, consentendo alla trama di fluire. In questo modo, l’autore riesce a catturare l’attenzione del lettore, offrendo una prospettiva unica e coinvolgente.

Dobbiamo considerare anche l’autentico tessuto della prosa di Comisso, che si distingue per la sua semplicità senza l’utilizzo di fronzoli o ingredienti complicati. La sua scrittura evita ogni spreco di parole, trae ispirazione dalla genuina tradizione letteraria veneta, catturando l’essenza dell’aria del Piave e del Montello. Comisso «si riscatta per la sua presa diretta, per le nitide aperture di paesaggio, per un incanto che dentro vi circola fluttuante fra trepide malinconie e la serena gioia di vivere»[17]. Senza ricorrere a eccessivi influssi dialettali o a complesse contaminazioni linguistiche, Comisso ha saputo plasmare un linguaggio tangibile e flessibile, che attinge vitalità e spontaneità dal contesto regionale. L’influenza del dialetto si percepisce solo in sottili inflessioni, ma «quanto basta – dirà – per mantenere il legame del dialetto veneto con la lingua latina»[18].

I personaggi di Comisso sono ritratti come figure provenienti da una terra e da una società specifiche, lontani dall’essere considerati semplici burattini danzanti nell’etere dell’immaginazione. Comisso ha trasformato la sua storia in una varietà di personaggi, mantenendo salda la sua regola costante «di rappresentare lucidamente i propri stati d’animo, sensazioni che a lui e a lui soltanto apparivano memorabili»[19].

In relazione a Cribol, Comisso ha affermato che l’ispirazione per la storia deriva direttamente dalla realtà. Nell’atto di narrare, l’autore ha inteso offrire una testimonianza storico-sociale del conflitto emerso in un piccolo paese veneto nel periodo post-bellico. Il racconto si sviluppa delineando da un lato una forma di fanatismo religioso e, dall’altro, una sessualità libera e istintiva, primitiva e priva di sensi di colpa. La trama si configura così come uno specchio delle dinamiche sociali, proponendo una riflessione su temi cruciali come la religione, la morale e la sessualità nella provincia veneta del dopoguerra[20].

Il contributo letterario di Comisso nel periodo postbellico emerge come un’esperienza intensa e continuativa, con reazioni spesso imprevedibili che richiamano il gusto dannunziano, sebbene rivisitato in una forma nuova.[21] L’autore si avventura con sprezzo del pericolo nei territori dei miti legati all’avventura pura, senza confini o direzioni chiare, e si lascia coinvolgere in modo meno rischioso nei territori della bella «prosa musicale pronta ad accogliere ogni eco della vita, soprattutto delle sue avventure terrene»[22]. La sua arte della descrizione si presenta come un vivace tentativo di catturare, attraverso l’abile manipolazione delle parole, la vasta gamma degli spettacoli del mondo. Questi possono essere esplorati nella loro superficiale brillantezza o nelle atmosfere decadenti, stanche o in rovina, dove le tensioni sensoriali si manifestano in inevitabili sfumature.

Una tappa determinante nella crescita letteraria di Comisso fu la partecipazione alla rivista «Solaria»[23], il cui contributo allo sviluppo del romanzo in Italia non è stato riconosciuto abbastanza. «Solaria» costituì un punto di svolta in un panorama letterario dominato dal frammento espressionista e dalla prosa d’arte rondesca. Contrariamente a molti loro contemporanei, gli scrittori di «Solaria» si confrontano in modo esplicito con la questione del romanzo. Essi si avventurano in nuove tecniche e ricerche ideologiche-strutturali, con lo sguardo rivolto alle esperienze europee di Proust, Kafka e Joyce, ma anche al romanzo americano del tempo, insieme alla rinnovata tradizione italiana del nuovo romanzo, rappresentata soprattutto da Svevo e Federigo Tozzi. In questo crocevia di apporti e influenze si fa strada il «narrare come “memoria” di Romano Bilenchi, come pura oggettività di Cassola e Bonsanti, come allegoria di Vittorini, come mito di Cesare Pavese»[24].

Il romanzo idealizzato dai solariani è inoltre concepito come un’apertura sperimentale alla rivoluzione epistemologica del pensiero moderno, abbracciando, ad esempio, la psicoanalisi in contrasto con l’idealismo crociano e la cultura del regime. I “solariani” tentano il superamento dell’«affanno» del frammento espressionista, cercando costruzione e durata attraverso la capacità di “oggettivazione”, che si manifesta tanto nel realismo lirico di Vittorini, Bilenchi e Pratolini quanto nel realismo fantastico e surreale di autori come Gianna Manzini, Landolfi, Bonsanti, Delfini, Buzzati. Infine, si può giungere a una coesistenza dei due poli, come dimostrato da Loria, Anna Banti, e Comisso, considerato il «più estroso, certamente il più irregolare, di tutti i “solariani”»[25].

Se le prime narrazioni di Comisso per «Solaria» sembrano risentire della lezione rondesca – sono brevi cronache, perlopiù di avventure marittime e di guerra –, già a partire da Al vento dell’Adriatico (1928) si fa strada la straordinaria abilità di Comisso nel trasformare con semplicità la vita in materia letteraria.[26] Comisso guarda a Conrad, è stato osservato, e lo fa attraverso una rinnovata «sensibilità analitica» e una propensione alla «fantasia integrale».[27] Il che segna il passaggio dello scrittore da un’iniziale impostazione legata alla prosa d’arte di scuola rondesca a uno sviluppo più analitico che pone, così, lo scrittore trevigiano entro l’orizzonte programmatico di “Solaria”.


Note

[1] A. Arbasino, L’Anonimo lombardo, Feltrinelli, Milano 1959, p. 379: «[…] abbiamo perfino una madrina che abita a Firenze e ci sgrida, un fratellastro più grande che sta a Roma, ma fa dei lavori un po’ diversi, sempre fuori di casa, oltre che alcuni bravi professori, come Longhi e Cecchi e Praz, che le loro cose giuste le hanno insegnate a chi voleva stare a sentire».

[2] G. Comisso, Giovanni Comisso, in 20 giovani leoni. Autobiografie pubblicate su “L’Assalto” negli anni 1927-1928, a cura di C. Barilli e M. Bonetti, Volpe, Roma 1984, p. 106.

[3] C. Segre, Letteratura, in La cultura italiana del Novecento, a cura di C. Stajano, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 376.

[4] G. Spagnoletti, L’estro di Comisso, in Id., La letteratura italiana del nostro secolo, Mondadori, Milano 1985, II, p. 501.

[5] G. Contini, Comisso romanziere, in Id., Esercizi di lettura sopra autori contemporanei, Einaudi, Torino 1974, p. 148.

[6] G. Comisso, Le mie stagioni, Longanesi, Milano 1985, 112. Cfr. Editori e lettori. La produzione libraria nella prima metà del Novecento, a cura di L. Finocchi e A. Gigli Marchetti, F. Angeli, Milano 2000, p. 311.

[7] G. Comisso, Giovanni Comisso, cit., p. 106.

[8] G. Neri, Solaria. Una stagione letteraria del Novecento italiano, Marco, Lungro 1994, p. 143.

[9] G. Comisso, Giovanni Comisso, cit., p. 106.

[10] Scritto nell’autunno del 1921, il breve romanzo apparve nel 1924, con il titolo Il porto dell’amore, per ricomparire nel 1928 con l’aggiunta di tre capitoli e l’inclusione di diciotto racconti sotto il titolo Al vento dell’Adriatico: «un libro che deve considerarsi come un tentativo di uno che vuol divenire uno scrittore servendosi della vita viva che gli è passata accanto» (Id., Giovanni Comisso, cit., p. 107).

[11] Ivi, p. 106.

[12] G. Spagnoletti, L’estro di Comisso, cit., p. 498.

[13] G. Bàrberi Squarotti, La narrativa italiana del dopoguerra, Cappelli, Bologna 1975, p. 17.

[14] Comisso dovette venire a conoscenza di Paracelso e delle sue pratiche (cfr. Opus paramirum, III ii, 5) attraverso la mediazione di Casanova, del quale Comisso aveva letto le memorie («stimoli per nuove vicende»), nelle quali il medico-alchimista è spesso citato. Cfr. Editori e lettori. La produzione libraria nella prima metà del Novecento, cit., p. 311.

[15] F. Mazzoleni, Spiritualità inquieta di Giovanni Comisso, in «Il Popolo», 25 febbraio 1965, p. 5; ora nell’Appendice critica della nuova edizione di Cribol.

[16] Gadda chiamerà in causa il Principio di indeterminazione di Heisenberg, (non è possibile conoscere al tempo stesso la posizione e la carica dell’elettrone), per spiegare come, sul piano ontologico, l’osservatore non permette di cogliere a pieno la realtà, che gli sfugge, proprio in virtù della sua stessa presenza; «conoscere – scrive Gadda – è inserire alcunché nel reale». Cfr. G. Alfano, [Carlo] Emilio Gadda, “Quel pasticciaccio brutto de via Merulana”, in L’“incipit” e la tradizione letteraria italiana. Il Novecento, a cura di P. Guaragnella e S. De Toma, Pensa MultiMedia, Lecce 2011, p. 460.

[17] L. Fiorentino, Giovanni Comisso (1895), in Id., Narratori del Novecento, Mondadori, Milano 1962, p. 143.

[18] Citato in G. Spagnoletti, L’estro di Comisso, cit., p. 499.

[19] Ivi, p. 503.

[20] Cfr. F. Gnerre, Giovanni Comisso (1895-1969). Pansessualità e giochi d’infanzia, in Id., L’eroe negato. Omosessualità e letteratura nel Novecento italiano, Baldini & Castoldi, Milano 2000, p. 128.

[21] G. Neri, Solaria. Una stagione letteraria del Novecento italiano, Marco, Lungro 1994, p. 143: «Io sono stato il primo, pur accettando una derivazione dannunziana, a liberarmene, ossia a tramutarla nel complesso del mio spirito verso una forma nuova».

[22] G. Bàrberi Squarotti, La narrativa italiana del dopoguerra, cit., p. 17.

[23] Comisso collaborò con “Solaria” dal 1926 al 1929, pubblicando i seguenti contributi: Una città di pescatori (9-10, 1926), rec. a Enrico Somarè, Signorini (12, 1926), La donna sul mare (4, 1927), Lungo un’isola (2, 1927), Partenza da una rada (6, 1928), Ritorno a casa (12, 1929), Durante un temporale (11, 1930).

[24] G. Bàrberi Squarotti, La narrativa italiana del dopoguerra, cit., p. 28.

[25] P. Cataldi, Dalle avanguardie al primato della letteratura (1914-43), in Id., Le idee della letteratura. Storia delle poetiche italiane del Novecento, Carocci, Roma 20154, p. 103.

[26] G. Ferrata, Al vento dell’Adriatico, in «Solaria», III, 7-8, 1928, p. 50: «La sostanza di vita si trasmuta qui in “letteratura” con una semplicità, una schiettezza che non so quanto costino di lavoro […] all’autore, ma che trasportano e meravigliano il lettore come se Comisso davvero improvvisasse».

[27] Ivi, p. 51: «Conrad mi pare […] la tempra d’artista a cui Comisso è più vicino. Come Conrad, credo ch’egli riuscirà ad inserire in modo perfetto la commedia umana nella commedia delle “cose”: attaccandosi sempre più a “spacchi” narrativi, ad opere ben chiuse».

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Giuseppe Balducci

Nato nel 1992, ha compiuto studi letterari. Consulente editoriale per vari editori, ha curato testi di Mario Praz, Pierre Loti, Marcel Proust e Henry de Montherlant

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