“Roma” di Aldo Palazzeschi, fra modernità e tradizione

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Pubblicato nel lontano 1953 dalla casa editrice Vallecchi e ora riedito da Mondadori nella collana degli Oscar cult, “Roma” è il romanzo di Aldo Palazzeschi che offre un affascinante viaggio attraverso la città eterna, descritta mediante il consueto umorismo dell’autore frammisto a umana comprensione.

La trama di Roma si dipana attraverso le strade e gli altari, dalla miseria all’opulenza, dalla bontà alla perfidia, dalla spiritualità al cinismo e al calcolo. Aldo Palazzeschi presenta una galleria di personaggi che intonano un inno a gola spiegata, esplorando la vastità di colori e costumi di una Roma che, nonostante la crisi, continua a risplendere («Roma, Roma, Roma: giovane e decrepita, povera e miliardaria, intima e spampanata, angusta e infinita», osserverà con commozione l’autore fiorentino, ma romano d’adozione).

Oltre ai capitoli pittoreschi che ritraggono la Roma vernacolare e le vicende durante il bombardamento americano del 1943, il romanzo offre uno sguardo acuto su una società in declino, segnata dalla miseria del dopoguerra e dalla decadenza dei costumi. Palazzeschi presenta un affresco vivido dell’aristocrazia romana, in cui la richiesta di redenzione della Chiesa sembra ormai fiacca. Il romanzo sfida le tendenze “moderniste” dell’epoca, posizionando il Principe protagonista, nobile cameriere segreto di Sua Santità, come un faro di tradizionalismo in un contesto di cambiamento sociale e culturale.

In audace ribellione al vento modernista che minaccia di spazzare via ogni traccia di vita cristiana, il Principe di Santo Stefano si staglia come un faro di rettitudine in mezzo al tumulto di Roma. Nobile, vedovo e padre di quattro figli, tre dei quali sono un vero disastro, tra cui la Norina (che per eccesso di bene nei confronti del marito intende tradirlo!), il Principe è il protagonista che sfida gli schemi, tessendo la trama con la vitalità pulsante di una Roma intrisa di dramma.

Nel cuore di questa storia, il Principe, Cameriere Segreto di Sua Santità, emerge come un’icona di carità e integrità in un mondo popolato da personaggi moralmente ambigui. Il Principe di Santo Stefano è accompagnato nella sua frugale e morigerata esistenza da sor Checco, il suo umile aiutante. Il rapporto tra il Principe e sor Checco aggiunge profondità alla trama. Insieme, incarnano l’umiltà e la semplicità, sfidando i paradigmi borghesi e mantenendo un legame simbiotico che attraversa le sfide della vita quotidiana. Sor Checco intreccia con il Principe un legame indissolubile, conducendoli a condividere ogni istante in una simbiosi unica. La loro semplicità e ingenuità fungono da chiave per accedere a uno stato di eterna fanciullezza, permettendo loro di osservare il mondo attraverso occhi liberi da pregiudizi.

Questa dinamica di ingenuità li spinge inevitabilmente a confrontarsi con le leggi inesorabili della vita. Tuttavia, Sor Checco, illuminato dalla guida morale del Principe nel tumulto del mondo, non conosce timori, nemmeno di fronte alle contraddizioni legate alla lotta di classe.

In questo intricato intreccio di trame, la relazione tra il Principe e Sor Checco si rivela una gemma di saggezza e resistenza in una Roma in continua evoluzione. Alberto Moravia ha raccontato, in un convegno su Palazzeschi organizzato nel 1976, che quando, in rari incontri, tentava di coinvolgere l’autore fiorentino nella propria problematica etico-politica, questi troncava il discorso con un’alzata di spalle. D’altronde, nella stessa occasione, il critico marxista Alberto Asor Rosa aveva lealmente ricordato il rifiuto palazzeschiano dell’odio sociale e di classe, il suo sostanziale cattolicesimo e il suo moderatismo politico.

Un interessante intermezzo si sviluppa nel capitolo Il Palazzo del numero 3, in cui Palazzeschi descrive un misterioso palazzo e il rituale che in esso si svolge:

In luogo solitario e al lato opposto della città, c’è un palazzo quadrato e rossastro nascosto nel mezzo d’un giardino. Da qualsiasi parte vi possiate volgere per esso lo troverete sempre al lato opposto. […] In date circostanze, e con scadenze determinate, il palazzo si popola di soli uomini che nell’oscurità della notte anziché corpi potrebbero apparire ombre. […] Nel mezzo di questa sala rotonda e tutta nera, i cui confini si perdono nell’oscurità oltre il cerchio di luce formato da migliaia di candele, è una curiosissima costruzione, di cera anch’essa, così complessa e imponente nella poderosa mole che difficile riesce descrivere.

Questo passaggio – poco o per niente compreso dalla critica italiana, Palazzeschi confiderà alla sua traduttrice per il francese: «È una descrizione misteriosa e umoristica della Massoneria che, sembra, tutti abbiano dimenticato. C’è ancora, ma pare non abbia più la medesima importanza»[1] – offre effettivamente uno sguardo inusuale ma affascinante sul tessuto sociale romano.

Nonostante le critiche iniziali sulla mancanza di aderenza agli stilemi del neorealismo, che allora dominava la scena letteraria, e ai valori della Resistenza (S. Quasimodo), Roma ha ricevuto elogi da autorevoli critici come Alba De Céspedes, Enrico Falqui ed Eugenio Montale, che lo ha definito il capolavoro di Palazzeschi:

Roma […] fu giudicato un romanzo troncato a metà mentre era soltanto il ritratto di un patrizio che rifiuta tutto quel ch’è accaduto a Roma dopo il 1870: un ritratto veramente straordinario ma poco o punto compreso dalla critica, disorientata di fronte a un romanzo che non era un romanzo e neppure un antiromanzo.[2]

La dimensione spirituale e simbolica dell’autore, spesso trascurata, emerge chiaramente in questo romanzo, aggiungendo un elemento di profondità e mistero alla sua opera complessiva.

È la spiritualità che ispira il finale dei Fratelli Cuccoli[3]: è la spiritualità che traspare in Roma, «romanzo quasi pacelliano», ebbe a definirlo Geno Pampaloni. Nel romanzo – ha scritto Alberto Arbasino, che includeva Palazzeschi nell’albero genealogico della sua famiglia letteraria, con Gadda, Comisso, Flaiano e Bassani – papa Pacelli s’affaccia alla loggia di San Pietro «così solo, disadorno, fiancheggiato da due prelati che divenivano sempre più piccoli. E un gruppo di figurette vaticane stilizzate si scambia battute da commedia piccolo-borghese sui genitori e sui suoceri, attraverso i “cartoni romani” di un precoce anti-romanzo sorprendentemente strutturato come i “disegni milanesi” della sublime Adalgisa di Carlo Emilio Gadda»[4].


Bibliografia

E. Falqui, La Roma di Palazzeschi, in «Il Tempo», 15 aprile 1953, p. 3.
G. De Luca, «Roma» di Aldo Palazzeschi, in «L’Osservatore Romano», 19 aprile 1953, p. 3.
A. De Céspedes, Palazzeschi da Firenze a Roma, in «Epoca», IV, 140, 7 giugno 1953, pp. 38-39.
S. Quasimodo, La Roma di Palazzeschi, in «l’Unità», 4 dicembre 1953, p. 3.
M. Farnetti, La parata delle esorbitanze. Palazzeschi narratore fantastico, prefazione di G. Luti, Solfanelli, Chieti 1991.
A. Palazzeschi, Roma, Mondadori (“Oscar Cult”), Milano 2023, pp. 288.


Note

[1] G. Tellini, Notizie sui testi. Genesi e storia editoriale, in A. Palazzeschi, Tutti i romanzi, II, Mondadori, Milano 2005, p. 1530.

[2] E. Montale, Il Doge, in «Corriere della Sera», 4 giugno 1967, p. 11.

[3] A. Palazzeschi, I Fratelli Cuccoli, in Id., Tutti i romanzi, II, cit., p. 428: «Lo sposo fu il primo a ricevere Gesù. Ma invece di chinare la fronte come aveva fatto sempre ricevuta la Comunione, la manteneva alta nell’istante di rapimento, sempre più alta, e gli occhi vedevano salire da una nube d’oro verso il cielo colonne azzurre. Colonne di lapislazzuli e d’oro che salivano da una nube d’argento d’oro e gemme».

[4] A. Arbasino, Aldo Palazzeschi, in Id., Sessanta posizioni, Feltrinelli, Milano 1971, p. 345.

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Giuseppe Balducci

Nato nel 1992, ha compiuto studi letterari. Consulente editoriale per vari editori, ha curato testi di Mario Praz, Pierre Loti, Marcel Proust e Henry de Montherlant

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