Vuoi imparare a lavorare? Allora esci dalla scuola!

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Si fa un gran parlare di apprendistato, di alternanza scuola-lavoro, di mentoring, di didattica laboratoriale: tutti strumenti utili ad aiutare i nuovi cittadini a entrare in contatto col mondo del lavoro, spesso conosciuto solo attraverso i racconti, non sempre consapevoli e aggiornati, dei propri familiari, degli insegnanti o dei mass media. È un bene che la scuola italiana affronti seriamente il cambiamento culturale, in atto all’interno dei paesi dell’Unione Europea, in direzione di una maggiore apertura democratica della scuola al mondo esterno, in opposizione alla tradizionale chiusura e all’autoreferenzialità tipiche soprattutto dei licei e delle scuole secondarie di secondo grado.

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È importante che la scuola renda conto di ciò che fa alla sua comunità, ed è altrettanto importante che i cittadini, a cominciare da chi la frequenta, non la percepiscano come uno spazio e un tempo separati, in cui gli alunni sono relegati per poi essere restituiti alla vita vera, alla fine del percorso di istruzione, finalmente pronti ad affrontare il mondo reale. Se è vero che le persone imparano in ogni momento e in ogni ambiente della loro vita, allora bisogna allargare la responsabilità dell’educazione a tutti i cittadini, e inoltre far sì che la scuola, che è l’ambiente intenzionalmente dedicato all’apprendimento, valorizzi il ruolo della comunità circostante, rendendola partecipe e coinvolgendola attivamente.
Tuttavia ho l’impressione che la scuola, nonostante le leggi consentano grande autonomia decisionale e offrano possibilità apertura alle singole istituzioni scolastiche, rimanga un ambiente stagno, impermeabile al mondo esterno. Credo sia per questo che gli alunni e le alunne hanno problemi, oggi, a imparare a lavorare. E credo che sia per questo che i legislatori sentono il bisogno di mandare i ragazzi fuori dalla scuola per andare a vedere come funziona il mondo delle organizzazioni, per capire cosa significa avere un obiettivo e cercare di raggiungerlo da soli o in collaborazione con altri, cosa vuol dire gestire il tempo in modo efficace, prendere le decisioni in modo rapido, condividere le informazioni, lavorare in gruppo, gestire le riunioni in modo efficiente, eccetera.

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Oggi, per farla breve, chi voglia capire il significato e il funzionamento del lavoro non può farlo a scuola, che pure sarebbe un luogo di lavoro. Anzi, per la precisione: la scuola è l’ambiente di lavoro di oltre un milione di persone regolarmente retribuite, a cui si devono aggiungere decine di migliaia di persone impiegate nei servizi accessori, dall’editoria scolastica alle imprese di pulizie. E allora perché gli alunni dovrebbero andare a osservare il lavoro o a praticarlo al di fuori dei locali scolastici?
Penso che il motivo risieda nell’atteggiamento stesso della scuola e dei suoi dipendenti, che sembrano compiere sforzi enormi per negare il fatto che insegnare è un lavoro e nascondere l’insieme variegato di processi lavorativi, solitamente invisibili, messi in atto dalle numerose organizzazioni che agiscono nel sistema scuola (case editrici, enti pubblici, produttori e fornitori di energia, fornitori di servizi e di prodotti…).
Gli alunni e i loro familiari sono trattati dalla scuola italiana come “clienti” un po’ sciocchi, ai quali viene messo davanti il prodotto già fatto, senza che essi abbiano la possibilità di capire come è stato costruito e con quali materiali, chi lo ha prodotto, con quanto sforzo, in quanto tempo, eccetera.
In definitiva, a scuola il lavoro è invisibile. Alunni e famiglie assistono allo spettacolo delle lezioni e dei ricevimenti, ma non sono ammessi dietro le quinte e nei camerini, dove potrebbero vedere e capire a fondo i processi di gestione, l’organizzazione interna, e tutti quei complessi meccanismi che concorrono al funzionamento della macchina. In quanti conoscono il DSGA della loro scuola? Chi si occupa dei rifornimenti di gasolio? E della sicurezza? Come si sceglie la carta igienica? E le tecniche didattiche?
La scuola è un mondo misterioso, sconosciuto perfino a chi vi è direttamente coinvolto, che fondamentalmente diseduca gli alunni, e – ne ho il fondato sospetto – gli insegnanti stessi, i quali disimparano a lavorare, concentrando tutta la loro attenzione sull’atto di insegnamento/apprendimento e dimenticando tutto il resto: i valori, le motivazioni, le relazioni e le competenze che sono alle fondamenta del lavoro.
E allora, per cominciare, perché non liberare le energie educative della scuola trasformandola in un ambiente di lavoro aperto e trasparente? Perché, prima di mandare gli alunni fuori dalla scuola, non consentire loro di entrare davvero al suo interno?
Anziché mandare i ragazzi e le ragazze a vedere il lavoro al di fuori della scuola, proviamo a farli crescere, fin da bambini, con un’idea più concreta, consapevole e democratica del lavoro e dei suoi effetti sulla società.

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Simone Giusti

ricercatore, insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale L’onesta brigata. Per una letteratura delle competenze, per il triennio delle secondarie di secondo grado.

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