Una lettura di Dante Alighieri perenne e sempre nuova

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Quando è veramente grande, un’opera d’arte è una fonte inesauribile di significati, tanto che si può definire ogni secolo in base al particolare modo con cui ha interpretato la Commedia. C’è da chiedersi quale sia il nostro modo, a pochi anni dal settimo centenario della morte del poeta.

Siamo entrati nel decennio che precede una ricorrenza di grandissimo rilievo nazionale e internazionale, il 700° anno dalla morte di Dante. Nei prossimi anni avremo certamente un’intensa fioritura d’iniziative e progetti di ogni genere da seguire e commentare, ma c’è già molta materia a ridosso di questa soglia per fare intanto bilanci degli ultimi tempi, pieni di eventi significativi. Non intendo parlare, qui, di edizioni, mostre, convegni, che non sono mai mancati, ma di quell’intreccio di fatti culturali, sociali e perfino politici generali che alimentano da piani più ampi, con maggior tenuta temporale, il richiamo a quell’uomo e alla sua opera.

L’interesse per la Commedia dantesca rivela sempre tendenze e situazioni del presente. Ogni opera vive del dialogo tra Autore e Lettore, di ciò che entrambi vi immettono attraverso il loro contatto, anche se è decisiva la forza che il primo le ha impresso. Possiamo dire di più: le opere di straordinaria ricchezza sprigionano una quantità di stimoli, non tutti percepiti o esauriti dall’ambiente coevo, che restano anche nascosti e circolano sotterranei, per poi affiorare in altri contesti e accendervi rinnovati e diversi interessi, talora improvvisi, per via di consonanze con i nuovi tempi. È certamente questo il caso dell’opera dantesca, tutta intera, una delle più alte e profonde che siano mai uscite dalla mente umana.

Quali motivi, dati dal nostro presente, dalle nostre azioni, conquiste di sapere e condizioni di vita, hanno riacceso in epoca recente, con ritmo e vigore crescenti negli ultimi anni, la passione dantesca? Cominciamo dalle riflessioni sugli appena compiuti 150 anni della nostra unità politica, che hanno contribuito molto a mettere in luce la funzione fondante, e suppletiva di fattori politici, che la nostra lingua e il suo principale artefice hanno avuto nel predisporre la nascita di uno Stato italiano. È stato d’obbligo rievocare il clima risorgimentale, nel quale, come molti forse stavano dimenticando, le forti passioni politiche rianimarono lo studio di Dante, che a sua volta divenne strumento per propagare quelle passioni, perfino oltre i confini d’Italia: pensiamo subito agli studi di Mazzini, che parlava di Dante anche agli operai italiani emigrati in Inghilterra, e all’opera svolta in questo stesso Paese, a noi amico, da altri esuli come Foscolo e Rossetti.
C’è stato dunque, con la ricorrenza unitaria, un rimbalzo diretto e forte dell’attenzione per Dante dalla grande stagione politico-culturale ottocentesca al nostro presente, bisognoso di conferme sulla nostra ragion d’essere come comunità nazionale.

Ci sono però, in piena sintonia con questo evento specifico, motivi più latamente culturali e scientifici che fanno da sfondo. Abbiamo finalmente costruito, nell’ultimo cinquantennio, un quadro molto più ampio e ricco di dati della nostra storia linguistica complessiva (l’opera di avvio, ma risolutiva, di Bruno Migliorini uscì nel 1960 e moltissimo è stato aggiunto in seguito). In questa prospettiva più definita, fornita anche di molte quinte laterali, l’intera opera di Dante è risultata sempre più centrale e proteiforme, direi balisticamente possente. Non solo sono stati scoperti nuovi codici e nuovi commenti del poema, a volte precoci e redatti ben lontano dalla Toscana (ad esempio, a Napoli, in pieno Trecento), ma si raccolgono citazioni e richiami ed echi in molti angoli della letteratura italiana e mondiale di ogni epoca, fino all’ultima generazione. Restando nell’orizzonte italiano, pensiamo a due autori “eterodossi” come Pasolini e Sanguineti, il secondo anche come critico dantesco fecondo e di grande forza. E al caso particolarissimo di Primo Levi, al quale, mentre sprofondava nella bolgia della malvagità estrema nel campo di sterminio di Auschwitz, affiorò improvvisa e tumultuosa la memoria del canto di Ulisse; e quando poi ne scrisse, gli occorsero parole del lessico infernale dantesco (come ha osservato Cesare Segre) per rappresentare quei momenti.

Oggi è la nuova conoscenza complessiva delle vicende della nostra lingua, vera generatrice e cemento di un’intera civiltà, priva per secoli del sostegno di uno Stato politico, che ci porta continuamente a misurare la potenza di quel fulmine che le aprì prontamente il varco nella selva di altre tradizioni linguistiche radicate sullo stesso suolo. Ragionando più in dettaglio, gli studi sempre più fitti sul volgare dell’epoca di Dante e i raffinati strumenti d’indagine di cui disponiamo ci mostrano che molte sue scelte linguistiche sono entrate nella nostra lingua comune: limitandoci a pochi esempi del lessico, chi direbbe che parole inizialmente ricercate, perché latinismi, e poi divenute di grande consumo, come facile, fertile, molesto, mesto, puerile, profano, infimo, coagulare, o sono state immesse per la prima volta da lui nel nostro volgare o dal suo uso sono state consolidate e perpetuate? Perfino quisquilia, parola latinissima che indicava “detriti, immondezza, impurità”, usata da Dante per descrivere l’effetto di eliminazione delle incapacità intellettive prodotto in lui dalla vista radiosa di Beatrice (nel XXVI del Paradiso), è finita nel nostro lessico quotidiano, col significato di “minuzia insignificante”. E la parola è in rima con mille milia, locuzione che, seppure di varia interpretazione nel testo dantesco, circola nella nostra lingua col significato che ben conosciamo e ha finito per dare il nome a una famosa competizione automobilistica.

Il poema, certo, è dominante in questo panorama del nostro uso linguistico. Ma anche le altre opere volgari di Dante scorrono nelle vene della nostra lingua e della nostra cultura. E tra le latine ha acquistato nuovissimo rilievo il De vulgari eloquentia, al quale siamo tornati con interesse fortemente accresciuto dal nostro attuale bisogno di osservare e riosservare l’intero paesaggio linguistico italiano, con le sue innumerevoli varietà, e anche perché ci poniamo con spirito più acuto il tema dell’insorgenza delle lingue di cultura (“illustri” nel lessico del suo primo robusto teorico) e quello del confronto della nostra con le altre lingue letterarie europee.
Per quanto riguarda i modi di accostamento a Dante, il fenomeno culturale oggi emergente sembra legato agli sviluppi del “teatro di parola”: in questo campo il poema dantesco si è fatto subito spazio. Da tempo antichissimo la Commedia, per la sua intrinseca vocalità, è stata oggetto di lecturae (inaugurate da Boccaccio nel 1373), compiute in sedi di alta tradizione a opera di studiosi e commentatori con sicura patente filologica e ha beneficiato dell’opera di esperti “dicitori”, tra i quali si colloca ora con grande dignità Vittorio Sermonti. Un filone addirittura preceduto dalle declamazioni del divino poema in botteghe e piazze, a opera di osti e artigiani che, a dire dello sdegnato Petrarca, con rozze voci e storpiature del testo facevano sconcio della poesia.

Una via intermedia tra le due forme rappresentano le attuali vere e proprie fruizioni sceniche, con attori professionisti. Il fenomeno è complesso, tali e tanti sono gli attori di grido che dalla seconda metà del Novecento (ricordiamo almeno Ruggero Ruggeri, Romolo Valli, Carmelo Bene, Giorgio Albertazzi, Vittorio Gassman, Arnoldo Foà, Ivano Marescotti, “lettore”, ma anche creativo rielaboratore dei temi danteschi) sono stati attratti da questa prova, e tanto diverse sono le impostazioni che questa pratica assume. Si arriva così al fenomeno Benigni: non solo potenziato dall’esecuzione in vere piazze affollate, con propagazione immediata dello spettacolo a più ampie platee attraverso i mezzi audiovisivi, ma caratterizzato dalla marcatissima maschera giullaresca dell’attore e dalla sua intenzione (anche questa giullaresca) di attualizzare sociopoliticamente i contenuti del poema.
Non è l’unico caso di “torsione” del testo dantesco, perché alquanto precedenti sono le varie operazioni compiute da Federico Tiezzi e dalla sua compagnia, che hanno anche coinvolto poeti di prima grandezza quali Sanguineti, Luzi e Giudici come “riscrittori” dei canti danteschi. Corrono le dispute sull’accettabilità di questa o quella resa del testo dei singoli esecutori, ma non c’è dubbio che questo è per sua natura ampiamente legato alla realizzazione fonica, talora proprio ad alto volume, e in molte porzioni anche mimica e scenica, e dunque alla risonanza generata da un largo pubblico presente. L’animazione del testo dantesco mediante gli interventi corporei dei suoi interpreti di teatro è forse oggi, grazie anche all’esistenza dei mezzi di diffusione e ripetizione a distanza degli spettacoli, l’avventura più sconvolgente a cui il poema potesse andare incontro. Ma non dimentichiamo le scosse che questo ha prodotto in tutti i tempi in un campo non molto lontano da quello fin qui evocato: il campo delle arti figurative, cioè delle interpretazioni pittoriche, infinitamente varie, offerte anche queste già dai miniatori trecenteschi e dagli incisori degli incunabuli e poi, in Italia e fuori, dagli artisti di ogni epoca e stile, dai rinascimentali (Botticelli, Signorelli, Stradano, Zuccari) ai romantici (Füssli, Blake, D. G. Rossetti, Delacroix, Flaxman, J. A. Koch, Doré, Scaramuzza, Rodin) e ai novecenteschi e contemporanei (A. Nattini, A. Martini, Guttuso, Dalì, Sassu, R. Savinio).

L’interprete figurativo più popolare dell’età moderna resta Gustave Doré, sia per l’ampiezza della sua serie d’illustrazioni, sia per la sua capacità di rendere fortemente, nel segno nero delle incisioni, l’atmosfera luciferina dell’Inferno dantesco. Proprio queste incisioni hanno impressionato da ragazzo il fumettista giapponese Kiyoshi Nagai, il creatore della saga dei Mazinga, che vi si è ispirato per creare, dal 1971, le serie di manga (fumetti) Mao Dante e Devilman.
L’occasione immediata di queste riflessioni ci è data da un’ardita iniziativa dell’editore Loescher e dell’Accademia della Crusca: lanciare un invito, rivolto soprattutto ai giovani e quindi largamente nelle scuole, a misurarsi con la recitazione, liberamente impostata, di un prescelto episodio della Commedia, e proporre parallelamente la riedizione anastatica di un cimelio della filologia dantesca, il “Dante della Crusca”. Si tratta della prima edizione del poema fondata “criticamente” su un alto numero (un centinaio) di manoscritti e stampe, realizzata nel 1595 dagli Accademici della Crusca, come prima prova delle loro proclamate intenzioni di costruire il grande Vocabolario della lingua italiana basandolo su un corpus di testi accertati.

Fu quello il segnale di un rilancio senza più contrasti del supremo valore linguistico della Commedia. Rilancio più che opportuno, perché quel valore era stato messo in dubbio decenni prima, dal gusto classicheggiante e levigato del Bembo, allergico agli ardimenti e alla varietà di una lingua di smisurata forza, che a lui sembrava “rassomigliare a un bello e spazioso campo di grano, che sia tutto d’avene e di logli e d’erbe sterili e dannose mescolato, o ad alcuna non potata vite al suo tempo, la quale si vede essere poscia la state sì di foglie e di pampini e di viticci ripiena, che se ne offendono le belle uve” (Prose della volgar lingua, l. II, xx). Sic!
Una lingua che, dopo sette secoli, invece stravince su di noi, ci possiede irresistibilmente quando cerchiamo di andare a fondo nel nostro sentire, lottiamo per abbattere il male, siamo attratti dall’avventura delle scoperte, aneliamo conoscere l’amore nella sua essenza suprema: che solo Dante ha intravisto e suggellato nelle dieci parole (articoli compresi) dell’ultimo verso del poema.

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Francesco Sabatini

Professore ordinario di Storia della Lingua Italiana in diversi atenei e, in ultimo, presso l’Università Roma Tre. È presidente onorario dell’Accademia della Crusca.

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