«Avere una lingua». Dante e la lingua italiana

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Il nostro debito verso Dante è grande: nella sua opera creativa e fortemente anticipatrice tratta temi universali, rinnovando il sapere e la coscienza civile e storica del tempo; da scienziato della lingua studia, sperimenta e crea una lingua potente, fatta per raggiungere le generazioni future.
Installazione alla mostra “The Divine Comedy: Heave, Purgatory and Hell Revisited by Contemporary African Artists”, SCAD Museum of Art, Georgia

Non si può essere veramente grati al donatore, se non si conosce l’entità del suo dono. Quello che abbiamo ricevuto da Dante – indiscutibilmente, soprattutto da lui – non è facile da definire e valutare, e perciò mi servo, per avviare questa riflessione, delle parole di un altro poeta, del nostro tempo, Mario Luzi (1914-2005; fiorentino anche lui), pronunciate nel suo discorso d’ingresso all’Accademia della Crusca il 9 giugno del 2003.

Il privilegio di avere una lingua che abbiamo formato e ci ha a sua volta formati come noi siamo e diveniamo. Il profondo disagio di coesistere come etnia e storia, ma una lingua non averla, mancarne. […] Avere una lingua, ma anche essere avuti da lei. Il suo fondamento, il suo criterio organico di sviluppo non ti lasciano mai solo di fronte al paragone sempre nuovo con le cose, ti orientano, ti sostengono.

Parole più dirette e alte di quelle che possono trovare i linguisti, ai quali spetta semmai di spiegarle. Punto subito sul terzo passaggio, nel quale si segnala quello che capita davvero a ognuno di noi: di fronte a fatti imprevisti e improvvisi («il paragone sempre nuovo con le cose») solo le parole di una lingua ricca e dinamica ci aiutano a capire cosa ci succede, cosa possiamo fare. Qui si tocca il piano della funzione cognitiva e interpretante che la lingua, tipica risorsa della specie umana, svolge per ogni individuo. Nel primo passaggio Luzi invece riflette sulla funzione della lingua come realizzatrice dei valori della coabitazione delle genti in un territorio.

In quel che segue poco dopo e nel resto del discorso troviamo una potente sintesi di quello che da tempo sappiamo, e le ricerche più avanzate precisano sempre più, sulle funzioni della lingua; concetti che vanno tenuti presenti per valutare in misura adeguata il nostro debito verso Dante. Di noi abitanti d’Italia, ma anche in quanto membri di una comunità più larga, almeno europea, che ha acquistato maggiore stabilità, fisionomia e consistenza anche attraverso la definizione dell’assetto sociale, culturale e politico più riconoscibile e riconosciuto di questo Paese, non più semplice terra di conquista. Possiamo e dobbiamo dirlo, non per un riemergere dell’uso immediato, fin sui campi di battaglia, come avvenne nel nostro Risorgimento, ma perché, in una situazione ormai ben diversa da quella durata per secoli, constatiamo quale effetto successivo alla nostra Unità si sia avuto dalla nostra presenza nel quadro europeo. È difficile che senza Dante tutto ciò ci sarebbe stato, per l’Italia e per quanto le sta intorno.

Il nostro maggior poeta ha trattato temi universali, importanti per ogni vivente in qualsiasi parte del mondo, ma dobbiamo cominciare col veder chiaro, intanto, che egli ha rinnovato per tempo, all’uscita dal Medioevo, il sapere e la coscienza civile e storica del cittadino europeo e del mondo occidentale. Con la maggiore opera creativa, ma anche con indagini, riflessioni teoriche e ricostruzioni storiche condotte con i mezzi del suo tempo, proiettando lo sguardo in molte direzioni, anticipando lo spirito dei secoli successivi. Dante ha sentito fortemente l’importanza del recupero – attraverso figure, storie emblematiche, richiami ad opere concrete – di quanto era stato prodotto nel mondo greco-latino, da lui mitizzato ben prima che intervenisse l’esaltazione propriamente umanistica. Progettando l’architettura del mondo infernale inventa il «nobile castello» per accogliervi, al riparo dalle pene, e indicarci a dito la schiera degli «spiriti magni» dell’antichità (Inferno, IV, vv. 106 e 119). Si dà per risaputo il significato della figura di Virgilio, che mette a disposizione tutto il proprio sapere per guidare il cammino dell’incerto e fiacco Dante: ma da questo dato non finiremo mai di dedurre nella giusta misura quanto peso Dante avesse subito attribuito all’intero mondo antico; anche, come mostra con quei frequenti affacci, specificamente al mondo greco che gli era linguisticamente precluso e dal quale trae e fa rivivere per sempre l’eroe del desiderio di conoscenza, Ulisse. Né può essere sottovalutato il significato della fusione ch’egli realizza tra il sapere di quel mondo e quello dei grandi mediatori arabi.

Installazione alla mostra “The Divine Comedy: Heave, Purgatory and Hell Revisited by Contemporary African Artists”, SCAD Museum of Art, Georgia

Ma è certamente nel campo delle lingue che la sua geniale curiosità si scatena, nel saccheggiare le fonti disponibili, ma aggiungendo anche molto di suo. Si pone domande sui processi primordiali, correggendo sé stesso per disdire l’origine divina del linguaggio (asserita nel De vulgari eloquentia) e infine dichiararlo una creazione umana, convocando come testimone, ovviamente, Adamo («l’idïoma ch’usai e ch’io fei»; «la lingua chi’o parlai»: Paradiso, XXVI, vv. 114 e 124). Partito, nel trattato, da un’ampia ricerca sulle lingue d’Europa, dalle foci del Danubio alle sponde dell’Atlantico, cerca di distinguere in base alle lingue i vari popoli («Ex linguis gentes, non ex gentibus linguae exhortae sunt» aveva appreso da Isidoro di Siviglia) e punta a chiarire soprattutto la genesi e la vicenda delle lingue neolatine: unite evidentemente da una radice comune, che però non era per lui il latino parlato, come solo noi oggi sappiamo, perché questo dato fu una scoperta dei secoli successivi, della scienza linguistica della fine del secolo XIX. Del latino stesso dà un’interpretazione storicamente errata, ma funzionalmente vera: non lingua di tutto il popolo romano quale fu, ma lingua artificiale dei dotti («grammatica»), immutabile, adatta per un sapere universale. Le cose stavano diversamente, ma ai suoi tempi valeva l’altra opinione. Dante si cimenta con questa questione nelle due opere incompiute, il Convivio e il De vulgari eloquentia, e ne ricava schemi concettuali con i quali inquadra perfettamente e progettualmente i ruoli, nella realtà del suo tempo, delle due forme linguistiche. E arriva così a preannunciare – lui e solo lui – il declino dell’«usato sole», perché non adatto a illuminare il cammino delle «migliaia», e l’ascesa del «sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’altro tramonterà, e darà luce a coloro che sono in tenebre e in oscuritade» (Convivio, I, xiii, 12).  È qui il manifesto per le lingue nuove di tutta l’Europa, insieme con la dichiarazione di esistenza, ormai, della lingua di sì per gli Italiani. La lingua che solo «i cattivi d’Italia» disprezzano, per la vanità di usare le altre lingue. Un’allucinazione, si direbbe; ma no, una profezia che anticipava di poco l’esistenza della cosa nuova – che stava infatti nascendo dalle sue stesse mani – e colpiva subito l’atteggiamento di coloro, dei suoi e dei nostri tempi, che ignorano il bene (per tornare a Luzi) dell’«avere una lingua ed essere avuti da lei». E notiamo ancora il coraggio nel prevedere e dichiarare la fine del dominio incontrastato del latino come lingua per la diffusione del sapere (resterà per qualche secolo ancora per le indagini più approfondite e per la comunicazione internazionale; servirà fino a noi per andare più a fondo ancora nello spessore della storia).

Ci siamo inoltrati (a proposito: sa il nostro lettore che questo verbo, insieme con altri dello stesso tipo, indovarsi, insemprarsi, inurbarsi, ecc., è stato inventato da Dante, nel Paradiso, XXI, v. 94?) sulle piste del suo pensiero linguistico, seguendo di più il primo dei due trattati sopraindicati. Non possiamo lasciare questo terreno senza aver indicato la parte più corposa dell’altro: dove figura l’esame della situazione socio-geolinguistica dello spazio italiano e si lancia l’indicazione perentoria del modello linguistico da adottare. Non esiste per gli altri Paesi d’Europa (e direi del mondo) a quel livello cronologico una descrizione così attenta e ricca delle partizioni areali secondo le variazioni delle parlate locali. Il disegno è ampio e sistematico, fondato su una prospezione geografica della penisola italiana e delle sue isole. Con una documentazione attinta da molte fonti, scritte e parlate (detti popolari, intercalari, componimenti scherzosi, pronunce singole) e una precisa conoscenza dell’intero territorio, che affiorerà anche nella Commedia, attinta in gran parte alle consultatissime carte geografiche del suo tempo. Una profusione di citazioni buffe (a mo’ d’esempio: bòlzera che chiangesse lo quatraro dicono i Pugliesi; enter l’ora del vesper dicono Milanesi e Bergamaschi; deuscì i Romagnoli; ces fas tu? dicono i Friulani; ecc.) addotte per sostenere che le parlate locali non hanno i requisiti per essere un volgare illustre; oggi diremmo una lingua di cultura soprattutto scritta, degna di un’alta letteratura e di servire per governare uno Stato. Dopo una lunga serie di prese in giro, la conclusione, per Dante e per noi: il nostro volgare illustre andava cercato in altra direzione; era quello già nato dal siciliano usato dai poeti raccolti nella corte di Federico II: «et quia regale solium erat Sicilia … sicilianum vocetur» (De vulg. el., I, xii, 4). Schiere di cultori del siciliano di oggi ne traggono forse ancora, falsando il senso del passo, gran vanto per la parlata regionale.

Installazione alla mostra “The Divine Comedy: Heave, Purgatory and Hell Revisited by Contemporary African Artists”, SCAD Museum of Art, Georgia

Dante inaugura, in questo modo, anche la trattazione della storia della nostra letteratura. Ma non sono state queste sue folgoranti idee, da scienziato delle lingue, che hanno avuto effetto. Sia perché proprio il De vulgari non circolò che per qualche anno e fu dimenticato (fu riscoperto solo nel primo ‘500), sia perché non erano le proposizioni teoriche che potevano incidere su una situazione culturale e linguistica italiana piena già di sparsi fermenti ed esordi, ma speculare all’assetto politico, ormai, di frammentazione e tenace contrapposizione di forze, per di più manovrate da poteri esterni. Una realtà contro la quale Dante si scaglia rabbiosamente in tante occasioni e si erge teoreticamente in un’altra opera, la Monarchia, composta pur credendo ancora nell’autenticità, esecrata, della “Donazione di Costantino” (un falso dimostrato tale solo nel pieno secolo XV). Il suo dono, della lingua e per questa via anche – fortunatamente, diciamolo – della nostra Unità e quindi esistenza politica, ci è venuto, abbondante e caldo, dalla sua poesia. In parte anche dalle sue prime manifestazioni poetiche, accompagnate dall’autobiografia dell’amore giovanile (Tanto gentile e tanto onesta pare è da secoli nella memoria di milioni di giovani e non giovani italiani), non invece dalle profonde e architettate canzoni. Decisamente e a profusione dalla Commedia, da sola: da ogni suo canto, dalle storie che i dannati di ogni genere, travagliati ancora dalle loro passioni, narrano di sé stessi; dalle voci delle anime purganti e pur legate nostalgicamente al mondo dei vivi; dalle parole adamantine degli spiriti fulgenti nella vicinanza a Dio e dagli inesprimibili giochi di luce radianti dalla fonte suprema di un amore capace di muovere «il sole e le altre stelle». Il tutto passato a noi attraverso una lingua che si concrea con le immagini stesse; una lingua alla quale si chiede il dono di un’altissima potenza perché raggiunga le generazioni future: «e fa la lingua mia tanto possente, / ch’una favilla sol de la tua gloria / possa lasciare a la futura gente» (Paradiso, c. XXXIII, vv. 70-72).

Invece di circondare qui il poema di epiteti, metafore, allegorie, per definirne l’importanza eccezionale, affianchiamogli alcuni dati fattuali e quantitativi. L’opera cominciò a circolare via via che veniva prodotta (ne abbiamo tracce almeno dal 1317 in poi): la sua circolazione crebbe immediatamente negli anni e decenni successivi alla morte del poeta, anche ad opera di due dei suoi figli, Iacopo e Pietro, che ne fornirono commenti, affiancati a tanti altri. Si diffuse in tutta l’Italia ed entro il ‘300 ne circolarono almeno 600 manoscritti, finora individuati, con testo parziale o integrale. Ottocento esemplari ne furono tirati nella prima edizione a stampa realizzata a Foligno nel 1472. Seguirono altre quattro edizioni, due nello stesso anno a Mantova e a Venezia, una a Milano nel 1477 e una a Napoli nel 1478.  Un’edizione di grandi dimensioni a Firenze, nel 1481, commissionata da Lorenzo de’ Medici, si arricchì del commento di Cristoforo Landino e delle incisioni preparate da Sandro Botticelli. Intanto, con Dante e gli altri due grandi nomi del Trecento toscano, Petrarca (concorrente di Dante nella fama poetica) e Boccaccio (un fervente cultore della Commedia, alla quale attribuì l’aggettivo divina), gli echi di una letteratura italiana cominciarono a circolare anche fuori d’Italia. Nella seconda metà del secolo XIV il poeta inglese Geoffrey Chaucer (1340?-1400) imitò il capolavoro dantesco nei suoi poemi in inglese. In Francia, a prescindere dalla presenza del Petrarca ad Avignone, entro la fine dello stesso secolo la gentildonna e scrittrice di origine veneziana Cristina da Pizzano (1364-1430) contribuì precisamente a far conoscere l’opera dantesca alla corte di Carlo VI.

La letteratura e la lingua italiana avevano cominciato ad avere prodotti da esportazione.

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Francesco Sabatini

Professore ordinario di Storia della Lingua Italiana in diversi atenei e, in ultimo, presso l’Università Roma Tre. È presidente onorario dell’Accademia della Crusca.

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