Un giorno questo dolore ti sarà inutile

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Si avvicina la notte degli Oscar. Tra le statuette assegnate, quella per la miglior sceneggiatura originale potrebbe andare a Woody Allen. Se succederà, lo vedremo andare a ritirare il plauso di Hollywood e godersi gli applausi. Penseremo tutti la stessa cosa: nonostante.

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Da quando la lettera di Dylan Farrow al New York Times lo ha definito uno stupratore di bambine, il pubblico non ha smesso di dividersi per difenderlo o prenderne le distanze attraverso articoli su blog e giornali, discussioni online e lapidari commenti sui social network; per esprimersi sulla vicenda come se fosse un suo preciso obbligo imbastire in tutta fretta un processo in cui ricoprire il ruolo di difensore, pubblico ministero e, troppo spesso, giudice.
La questione posta dal caso è certamente interessante perché tocca temi come la distinzione tra l’uomo e l’artista, la tutela di chi denuncia un abuso sessuale, la presunzione di innocenza quanto mai necessaria, l’immunità garantita dal potere e dalla fama.
Quello che mi colpisce, però, negli articoli che ho letto a riguardo, è sempre questo netto schierarsi contro l’altro: presunto colpevole lui, presunta innocente lei o viceversa. L’impressione è che qualunque presa di posizione debba contemplare un Barabba e un Gesù, che la libertà per l’uno debba comportare la croce per l’altro.

Qualcosa di analogo è accaduto di recente per la spaventosa querelle scatenata dai video di Caterina Simonsen, in cui la giovane afflitta da una grave malattia ha dichiarato in rete tutto il suo sostegno alla vivisezione, cui ritiene di dovere la sua sopravvivenza. Tema delicato, comunicazione provocatoria: la risposta è arrivata immediatamente. Con minacce e veri e propri insulti numerosissimi animalisti si sono fatti avanti per ribadire quanto della vita di una persona (e, nello specifico, di quella di Caterina) si possa benissimo fare a meno, se il prezzo da pagare consiste nella perpetuazione di una pratica crudele e, a loro dire, per niente necessaria.
Nel giro di poche ore ecco dunque la prevedibile formazione di due eserciti online con tanto di hashtag contrapposti, usati come bandierine da sventolare per segnalare un’appartenenza più che un’opinione. Non solo, quindi, il possibile dibattito si è ridotto a decidere da che parte stare, ma, nel momento in cui le condizioni della discussione sono diventate queste, è stato impossibile dichiarare #IononstoconCaterina senza necessariamente risultare contro di lei.

cateQuesta tendenza al plebiscito rappresenta una semplificazione comprensibile ma comporta, oltre a quello della banalizzazione del dibattito, un altro rischio: quello di approvare o condannare una situazione già data, abbracciando una causa o rigettandola in toto, per come cioè è stata formulata da chi l’ha proposta. Una condizione, questa, inaccettabile perché, concentrandoci sul dare una risposta, non ci soffermiamo sulla sensatezza della domanda.
Per dire: sono personalmente favorevole alla vivisezione nei casi, nelle modalità e nei limiti in cui la legge e la scienza la prevedono, però penso che in quell’occasione la questione sia stata posta nei termini sbagliati, contrapponendo un dolore (quello di una persona) a un altro (quello delle cavie e quello di chi, eticamente, si pone il problema di infliggerglielo). Affrontare qualsiasi argomento unicamente dal punto di vista di una condizione sofferente è ricattatorio e cerca l’assenso altrui attraverso l’empatia o la compassione: io non sono a favore della vivisezione perché Caterina o chiunque altro, me compresa, non soffra, così come non potrei combatterla facendomi forte del permesso di chi, pur essendo malato, la rifiuta e la considera un orribile sopruso. Non è l’emotività che dovrebbe guidarmi in questa scelta, è la scienza. Se la scienza continuerà a ritenere questo procedimento utile ai fini della ricerca (con il placet dei comitati etici che valutano la questione e la regolamentano) non mi opporrò; se i dubbi sulla sua effettiva utilità si faranno più consistenti a causa di dati e ricerche documentate, invece, mi unirò a chi dissente.
Mi pare insomma che una questione simile non dovrebbe ridursi a una feroce partita di ping pong, ma contare su un arbitro informato che in modo lucido e il più possibile scientifico valuti l’effettiva necessità della cosa e il contributo che ne viene per la ricerca. A partire da quei dati, poi, ognuno avrebbe il pieno diritto di formulare una propria opinione senza farne una bandiera che necessariamente neghi la vita o la libertà di nessuno. In altre parole, “io sto con Caterina” non significa automaticamente desiderare di giocare al tiro al piattello con dei cuccioli di foca: si può sostenere la battaglia per la vita di una persona e al tempo stesso ritenere che il dolore degli animali esista e che il loro sacrificio vada riconosciuto anziché negato o sminuito. Accettare di prendere su di sè la responsabilità di quel dolore, pur ritenendolo necessario.

Convincere gli altri della bontà delle proprie argomentazioni puntando al loro coinvolgimento emotivo non mi sembra la leva da usare per sollevare il mondo. Non mi convincerà mai la conferenziera del movimento per la vita che condanna l’aborto dicendo che se a sua madre fosse stato permesso lei non sarebbe mai nata. Esattamente come la mia, la sua necessità di essere viva non è una prova a carico contro l’aborto. Il suo dolore al pensiero di non nascere non può condizionare la mia idea che l’aborto sia un diritto, così come il dolore manifestato da Dylan Farrow non può mettere in crisi la convinzione che esista una presunzione di innocenza. E continuare a ritenerlo non è una presa di posizione contro di lei o contro le donne che hanno subito abusi: non lede il suo o il loro diritto di denunciare e chiedere giustizia.
Eppure a me sembra che spesso sia proprio la nostra emotività a guidare certe atroci battaglie. Le immagini dei bambini malati e delle loro famiglie che speravano nel metodo stamina non avrebbero dovuto favorire una truffa che la medicina aveva già dichiarato tale. E ancora: la rabbia per la corruzione che affligge il Paese non dovrebbe portare alla negazione della democrazia e all’attacco personale come modalità abituale di interazione politica.
Invece ogni volta che una situazione provoca il nostro coinvolgimento emotivo, ci capita di cadere, fragili, nel ricatto dell’una o dell’altra parte spingendoci a dire la nostra prima ancora di analizzare le prove o di considerare che c’è già qualcuno – tecnico, scienziato, giudice, medico che sia – preparato a valutare quella situazione e chiamato a farlo in modo responsabile. Allo stesso modo, abituarci a esprimere e a prendere in considerazione solo opinioni informate e ben argomentate ci sottrarrebbe alla pressione demagogica della leva emotiva, impedendoci di finire in una tifoseria in attesa del via per unirci al coro.

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Giusi Marchetta

vive a Torino, dove insegna. Ha pubblicato la raccolta di racconti Dai un bacio a chi vuoi tu (Terre di mezzo, 2008), vincitore del Premio Calvino, e i romanzi L’iguana non vuole (Rizzoli, 2011) e Dove sei stata (Rizzoli, 2018). Ha fondato e coordina il podcast del Tavolo delle ragazze (nato da Tutte le ragazze avanti!, Add editore). Per Einaudi ha pubblicato Lettori si cresce (2015) e ancora per Add il saggio Principesse, (eroine del passato, femministe di oggi) sugli stereotipi di genere nella cultura di massa

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