Forte è meglio di carina

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A un giornalista che lo lodava per essere  il primo a vincere due medaglie olimpiche, il campione di tennis Andy Murray ha risposto che Venus e Serena Williams ne avevano vinte quattro a testa. Una cosa che un giornalista avrebbe dovuto sapere, e che probabilmente sapeva. Solo che non aveva importanza.
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Eleganti anche sul court, 1949, Getty Images.

Da circa due anni, cioè dal marzo 2016, è partito un progetto europeo coordinato da associazioni provenienti da quattro nazioni (Francia, Italia, Romania, Inghilterra) chiamato Le sport egal. L’obiettivo è “fare leva sullo sport per affrontare le disuguaglianze di genere” e i destinatari sono allenatori ed insegnanti di educazione fisica cui si chiede di guidare ragazzi e ragazze nell’attività sportiva scelta liberi dai pregiudizi causati dai più tradizionali stereotipi di genere. Per dare un’idea di quali possano essere queste convinzioni, possiamo citare innanzitutto l’idea che esistano sport “da maschi” e altri “da femmine”; a questa posizione, però, se ne aggiungono altre che all’apparenza sembrano più insidiose da confutare: che le donne presentino caratteristiche fisiche che le rendono meno forti e veloci degli uomini e, quindi, meno adatte a competere ad alti livelli; che siano meno interessate in generale agli sport; che non possano allenare o arbitrare competizioni maschili perché non hanno esperienza o capacità necessarie; infine, che le battaglie femministe debbano guardare altrove: il mondo dello sport è un gigantesco spogliatoio maschile in cui, pare, non siamo ammesse.

È indiscutibile che questi preconcetti siano diffusi anche nelle nostre palestre, comprese quelle scolastiche. L’importanza data all’attività fisica nel processo di crescita dei ragazzi appare a tutti innegabile, tanto che le scienze motorie negli anni della preadolescenza e adolescenza (alle scuole medie e alle superiori) si costituiscono come una materia a sé che meriterebbe ancora più spazio e, se possibile, finanziamenti. Mentre, però, statistiche e sondaggi tra insegnanti e allenatori ci dicono che i maschi vengono incoraggiati e a volte spinti verso un’attività sportiva competitiva, confermano il dato altrettanto sconfortante che non avviene la stessa cosa per le compagne. Lo scenario che potrebbe riproporsi, quindi, non cambia rispetto al passato: gli uomini accedono ad una maggior varietà di discipline e, all’interno di queste, finiscono per occupare anche in modo preponderante i ruoli direttivi e tecnici. Solo nell’area amministrativa le donne, come accade in tutti i settori produttivi, hanno un indiscusso primato. 

Questi dati, poi, invece di portare l’attenzione sul problema, vengono spesso sbandierati come prova da chi sostiene che lo sport sia “una cosa da uomini”. È un errore di valutazione o, peggio, una manipolazione fatta in cattiva fede. La discriminazione sessuale nell’attività sportiva esiste, e come di recente si è cominciato a prendere sul serio la questione femminile nel campo scientifico e tecnologico-informatico, allo stesso modo sarebbe opportuno interrogarci sulle potenziali atlete che abbandonano questa strada prima di arrivare alla meta. 

Maschiacci e femminucce

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Suzanne Lenglen, tennista francese attiva negli anni ‘20 del secolo scorso, e vincitrice di 25 titoli del Grande Slam.

È evidente che la disparità di trattamento economico che colpisce le donne anche nel mondo delle società sportive rende molto più difficile per loro considerare di trasformare una passione in carriera. Le condizioni lavorative, infatti, si dimostrano decisive in questo come in altri settori: non a caso nelle società e negli sport che hanno una dirigenza femminile si nota una consistente partecipazione femminile. Tutti gli studi commissionati dal CONI, inoltre, citano gravidanza e maternità come fattori di abbandono di una disciplina sportiva praticata per anni. Infine, la scarsa visibilità dei successi ottenuti dalle atlete rende meno appetibile per le più giovani l’idea di perseguire uno sport soprattutto in un Paese come l’Italia, dove qualsiasi attività sportiva sembra vivere all’ombra del campionato di calcio.

Eppure, come negli ultimi anni si è lavorato per il rilancio di altri sport, puntando su eventi come le Olimpiadi per suscitare un interesse più vario, gli addetti ai lavori dovrebbero collaborare per rendere l’intero settore meno discriminatorio nei confronti delle donne.

Tuttavia se questa, come le altre che riguardano il mondo del lavoro, resta una battaglia politica, dal punto di vista culturale è giusto che la scuola prenda una posizione per abbattere i pregiudizi che impediscono o rendono difficoltosa la via dell’attività sportiva alle ragazze. In primo luogo questo contribuirebbe a migliorare l’autostima fin dalla giovane età: l’adolescenza è un momento delicato per la percezione che si ha del proprio corpo, e praticare un’attività sportiva permette un rapporto più consapevole con se stessi da questo punto di vista. Punti di forza, debolezze: sfidare i propri limiti allenando il corpo significa conoscerlo meglio e, forse, perfino amarlo e prendersene cura.

Questo aspetto della questione è particolarmente rilevante in un’età in cui insorgono disturbi alimentari e disagi legati all’aspetto fisico. Non mi sembra un fattore secondario il modo in cui l’ora di scienze motorie diventi spesso una tortura per chi ha un rapporto difficile con se stesso, soprattutto se vittima di atti di bullismo da parte dei compagni.

Anche quando una presa in giro costante non è presente, comunque, grava sulle ragazze il fantasma del corpo perfetto, che è di taglia media, che non ha peli e non suda mai troppo. Quello che si osserva troppo spesso nelle nostre palestre è un’autoconsapevolezza eccessiva delle ragazze nei confronti di se stesse: un giudizio che è totalmente introiettato e fa sentire molte di loro a disagio quando si impegnano in un’attività percepita come maschile o quando si rivelano poco aggraziate nell’esecuzione di un esercizio. Il termine “maschiaccio” è sempre dietro l’angolo e la dice lunga sulla possibilità che una bambina possa indirizzarsi ad esempio verso il calcio. Lo stesso potrebbe dirsi per l’equivalente “femminuccia”, altro appellativo sessista, che colpisce i ragazzi attraverso un utilizzo retrivo e limitato del concetto di virilità per scoraggiare la scelta di attività come la danza o il pattinaggio.

Si tratta certamente di due facce della stessa medaglia, ma a differenza dei compagni, sulle ragazze gravano anche tutte le altre restrizioni che la discriminazione sessuale porta con sé. Questo corpo, infatti, che può diventare un problema nell’età dello sviluppo, pare non riuscire mai a svincolarsi dal giudizio maschile. È questo il motivo per cui telecronisti e giornalisti sportivi si rendono colpevoli troppo spesso di espressioni offensive nei confronti di atlete di successo – come le “grassottelle” vincitrici del tiro con l’arco nelle passate olimpiadi, o come le pallavoliste della nostra nazionale, che io stessa ho sentito citare in trasmissioni radiofoniche o televisive da un conduttore che, accanto alla bravura, non mancava di sottolinearne la bellezza.

Questa visione distorta e sconfortante della donna comincia in tenera età, e pare non abbandonare mai né l’occhio che guarda (e commenta) né il corpo che è guardato. L’effetto immediato, poco visibile ma oltremodo deleterio di questo atteggiamento è una continua svalutazione dell’attività sportiva femminile che non termina neanche quando le atlete competono a livelli altissimi. L’effetto secondario è l’allontanamento delle ragazze dallo sport: ci vuole una passione decisamente accesa per dedicarsi con sacrificio a quella che molto probabilmente non diventerà una carriera e che se anche portasse al successo, sarebbe sempre una vittoria in tono minore.

I pregiudizi che avvelenano il mondo delle ragazze

Non si punta abbastanza sull’attività sportiva per le ragazze. Esattamente come per le scienze e l’informatica prima che se ne discutesse, molti sport sono rimasti tradizionalmente appannaggio maschile. Eppure diverse storie di ex sportive che hanno raggiunto posizioni importanti nei settori più disparati dimostrano che praticare uno sport è stato per loro formativo: nel recente Women’s Summit della NFL, dirigenti d’azienda, manager e consulenti di alta finanza, tutte provenienti dal mondo dello sport, hanno raccontato quanto sia stato importante essere incoraggiate dai genitori, imparare a perdere o sfidare i propri limiti e vincere durante il percorso scolastico e universitario. 

Queste testimonianze sono importanti, e non è un caso che vengano dagli Stati Uniti, dove il femminismo moderno ha abbracciato da tempo una politica di empowerment, cioè di rafforzamento delle bambine attraverso l’educazione. Parte di questa educazione si basa sulla distruzione dei luoghi comuni e, sebbene a mio parere concentrare l’azione femminista sulle bambine rischia di escludere dal quadro le responsabilità maschili e di colpevolizzare le eventuali vittime di molestie o discriminazione classificandole come troppo deboli, mi sembra comunque liberatorio spazzare via alcuni tradizionali pregiudizi che avvelenano il mondo delle ragazze.

Cominceremo col dire che non esistono sport “da maschi” e altri “da femmine”. Gli ultimi record stabiliti da atlete, superiori o vicini a quelli dei colleghi in diverse discipline, dovrebbero costringerci a riconsiderare perfino la divisione in categorie.

Le ragazze, se libere di esprimersi riguardo al proprio corpo e non sottoposte allo sguardo maschile, non sono affatto meno interessate allo sport o alla competizione. Infine, come in ogni settore, anche quello sportivo rappresenta un terreno fertile per la conquista di una parità di genere. Di più: qualsiasi successo registrato in un settore che ha un tale seguito non può che ottenere un benefico effetto a cascata. In altre parole: per avere un maggior numero di atlete, dobbiamo vedere sui nostri schermi un maggior numero di atlete.

Nel 2009, agli US Open, Serena Williams perde la calma dopo l’ennesima “svista” arbitrale che le causa la sconfitta. È la seconda volta dopo il 2004 che una sua avversaria vince con l’aiuto del giudice di gara, un aiuto testimoniato dalle riprese televisive e dagli stessi commentatori del match. Tuttavia, lo sfogo di Serena non piace a nessuno, e anni dopo, quando l’America la celebrerà come la campionessa dalle due medaglie olimpiche, qualche giornalista la loderà per aver imparato finalmente a gestire la propria rabbia. Non se ne esce.

Claudia Rakine ha raccontato l’episodio nel suo bellissimo Citizen, in un capitolo dedicato all’epopea di una “angry black woman”. Al razzismo conclamato dei giudici di gara che hanno ostacolato per anni il percorso suo e della sorella Venus, si aggiunge il pregiudizio limitante e offensivo che considera isteriche le donne arrabbiate, le proteste accettabili solo se poste in modo pacato, “femminile”.

A chiudere il cerchio, arriva il recentissimo spot Nike girato da Serena Williams che affastella tutti i pregiudizi che hanno accompagnato la sua carriera: troppo maschile, troppo arrabbiata, troppo ambiziosa, troppo nera. «Non c’è un modo sbagliato di essere donna», dice alla fine. «Parla alle donne di tutto il mondo», ha dichiarato il portavoce della Nike, sbagliando, perché il messaggio invece è diretto a tutti.

Da «Repubblica» del 22 febbraio, su Arianna Fontana, campionessa di pattinaggio su ghiaccio: «Adesso resta da capire cosa può convincere una donna ormai sposata, che vive parte dell’anno negli Stati Uniti, che ha vinto tutto, è già la più premiata nella storia olimpica dello short track e è stata designata portabandiera, a dedicare un altro quadriennio alla ricerca di nuove medaglie a Pechino 2022».

O forse si tratta di capire come mai, nel 2018, un giornalista si chieda su un quotidiano nazionale cosa cerchi un’atleta di successo nella sua disciplina, pur essendo già sposata. La risposta, però, non è compito esclusivo delle donne. Ben vengano dunque i Murray che, durante una conferenza stampa, rispondendo a un giornalista che aveva definito Sam Querrey «il primo giocatore americano a raggiungere la semi-finale dal 2009», ha mugugnato: «Male player», “tennista maschio”. Il primo passo per ottenere l’uguaglianza, infatti, è vedere che nel proprio settore, con pari dignità, esistono anche le colleghe e indicarle a tutti quelli che le considerano invisibili.

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Giusi Marchetta

vive a Torino, dove insegna. Ha pubblicato la raccolta di racconti Dai un bacio a chi vuoi tu (Terre di mezzo, 2008), vincitore del Premio Calvino, e i romanzi L’iguana non vuole (Rizzoli, 2011) e Dove sei stata (Rizzoli, 2018). Ha fondato e coordina il podcast del Tavolo delle ragazze (nato da Tutte le ragazze avanti!, Add editore). Per Einaudi ha pubblicato Lettori si cresce (2015) e ancora per Add il saggio Principesse, (eroine del passato, femministe di oggi) sugli stereotipi di genere nella cultura di massa

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