Tradurre Gurnah #5

Tempo di lettura stimato: 10 minuti
Ultimo appuntamento con l’approfondimento sulla traduzione. Si arriva al capolinea: qual è la traduzione ideale, e quali sono le scelte che deve fare chi traduce per ottenerla?
Paul Klee, Commedia, 1921, Tate Modern

Traduzione ideale e perdita dell’aura associativa

Si deve a Goethe il concetto di “traduzione integrale”, cioè di una traduzione capace di trasmettere al lettore non solo il significato dell’originale, cioè i pensieri, le immagini, la vicenda nel caso dei testi narrativi, ma anche la struttura retorica, la musicalità, il gioco dei registri stilistici, cioè tutti gli elementi attraverso cui, meno esplicitamente, passa una parte fondamentale del messaggio del testo letterario.

Si tratta evidentemente di un ideale a cui tendere, ben sapendo che è impossibile raggiungerlo appieno. Che si tratti di una traduzione intralinguistica o endolinguistica (per esempio la parafrasi di un sonetto di Dante, o la riscrittura in italiano moderno del Principe di Machiavelli) o di una traduzione interlinguistica (per esempio dall’inglese all’italiano), qualcosa va sempre perduto. Anche perché, al di là dei fattori meramente linguistici, lessicali e grammaticali, quello che cambia spostandoci nel tempo o nello spazio è il codice culturale di riferimento. Quella che Steiner chiama “aura associativa”, cioè l’insieme dei significati secondi, delle connotazioni, dello spessore storico della lingua di partenza, può essere recuperata solo in parte nel testo di arrivo.

A conferma di questo fatto, ecco una frase apparentemente semplicissima, che non pone alcuna difficoltà interpretativa al traduttore, ma che assume un significato assai diverso a seconda di chi la legge. Il famoso incipit di Moby Dick suona «Call me Ishmael». Non c’è dubbio che la traduzione di Pavese, «Chiamatemi Ismaele», sia corretta – si potrà decidere di usare il nome nella versione originale anziché in quella italianizzata, ma altre variazioni paiono forzature. Per il lettore italiano del nostro tempo, tuttavia, la frase tradisce in buona misura il pensiero di Melville: intanto perché, al contrario di Melville, il lettore italiano contemporaneo è poco abituato a frequentare la Bibbia, e quindi il nome Ismaele non richiama subito alla sua mente il figlio “illegittimo” di Abramo, con la sua storia di abbandono e di insperata salvezza, che invece è allusa dalla scelta di Melville e confermata dalla vicenda del romanzo; e poi perché nella conversazione inglese l’invito a chiamarsi per nome ha (e aveva) il valore del nostro “diamoci del tu”, e quindi è un invito a instaurare un rapporto cordiale, informale, più intimo di quello che ci si aspetterebbe nel momento di un primo incontro, cioè nel momento in cui l’io narrante si presenta ai lettori, e tutto questo nella traduzione va perduto.

Problemi di rilevanza

Nel passaggio da una lingua a un’altra, in buona sostanza, c’è sempre una perdita di energia comunicativa e poetica. Quanto più grande è la distanza culturale fra il testo di origine e quello di arrivo, tanto più grave sarà la perdita. D’altro canto, è proprio nella capacità di aprire nuovi mondi, di collegare tradizioni lontane e di rompere barriere che la traduzione trova il suo senso più profondo e il suo valore sociale più universalmente riconosciuto.

Il compito del traduttore, non potendosi dare se non per approssimazione ad infinitum la “traduzione integrale” di Goethe, consisterà nello scegliere – per quanto sia possibile – cosa conservare a tutti i costi del testo originale, e a cosa rinunciare. È nella consapevolezza di questa scelta e nella capacità di motivarla esteticamente che sta la qualità di una traduzione e il valore culturale del lavoro traduttivo. Attribuire rilevanza è infatti un’operazione di carattere ermeneutico, cioè un’interpretazione critica del testo, da cui dipendono scelte spesso radicalmente opposte.

Come si stabilisce infatti ciò che è essenziale e ciò che non lo è, o che lo è meno? Attraverso l’analisi della poetica dell’autore, come dice Emilio Mattioli, cioè approfondendo la riflessione dell’autore, implicita o esplicita, sulla propria attività letteraria. Ecco perché è utile che un traduttore frequenti non il singolo testo che sta traducendo, ma l’autore nel suo complesso – che è quanto cerco di fare anche con Gurnah, grazie alle interviste e alle lezioni e ai discorsi presenti sempre più numerosi in rete da quando gli è stato attribuito il Premio Nobel.

Credo che a questi concetti (rilevanza, scelta ecc.) rimandi l’idea di “negoziazione” discussa da Umberto Eco nel suo Dire quasi la stessa cosa (2003) e ingenerosamente tacciata da Franco Buffoni di essere un concetto «stolido, risibile e piuttosto volgare». A me pare invece un’idea che risponde piuttosto bene alla mia esperienza di traduttore, continuamente posto di fronte alla necessità di scegliere e desideroso di rinunciare a ragion veduta a quello che non sia possibile conservare.

Paul Klee, Navi nel buio, 1927, Tate Modern

Un esempio

Mi spiegherò meglio con un esempio, confrontando alcune traduzioni italiane, quasi contemporanee fra loro, della prima strofa dell’Albatro di Baudelaire. Questo l’originale:

Souvent, pour s’amuser, les hommes d’équipage
Prennent des albatros, vastes oiseaux des mers,
Qui suivent, indolents compagnons de voyage,
Le navire glissant sur les gouffres amers.

Traducendo I fiori del male nel 1977, Attilio Bertolucci opta per una versione in prosa:

Sovente, per diletto, i marinai catturano degli albatri, grandi uccelli marini che seguono, indolenti compagni di viaggio, il bastimento scivolante sopra gli abissi amari.

È una scelta radicale, che rinuncia programmaticamente a versi e rime, attribuendo invece il massimo rilievo alle scelte lessicali e all’andamento della frase.

Di carattere opposto la scelta di Gesualdo Bufalino, che nel 1983 scrive:

Spesso, per passatempo, acchiappano i gabbieri
un di quei grandi albatri, uccelli d’altomare,
che, come pigre scorte, i nomadi velieri
sogliono sugli amari vortici accompagnare.

Come si vede, in questo caso l’autore rispetta rigorosamente la metrica del francese, usando versi settenari doppi e rime alternate. Scelte apparentemente simili fa Antonio Prete nel 1994:

Spesso, per divertirsi, uomini d’equipaggio
catturano degli albatri, vasti uccelli dei mari,
che seguono, compagni indolenti di viaggio,
il solco della nave sopra gli abissi amari.

Apparentemente, perché laddove Bufalino si allontana dal lessico dell’originale, “inventando” i gabbieri, i nomadi velieri e i vortici, Prete ricorre a veri e propri calchi dal francese, come nel caso di uomini d’equipaggio (= marinai) e dell’aggettivo vasti riferito agli uccelli.

Giovanni Raboni, nel 1987, compie una scelta ancora diversa, usando versi regolari, ma differenti fra loro (due endecasillabi e due settenari doppi), e limitando la rima ai versi pari:

Spesso, per divertirsi, i marinai
catturano degli albatri, grandi uccelli dei mari,
indolenti compagni di viaggio delle navi
in lieve corsa sugli abissi amari.

Si tratta di versioni nello stesso tempo autorevoli e discutibili, che riporto per mostrare che cosa significa concretamente scegliere un’opzione rispetto a un’altra, sulla base di rilevanze che sottendono posizioni di gusto, definizioni di poesia, interpretazioni del testo e dell’autore nel suo complesso, in conflitto fra loro.

La responsabilità del traduttore

Un latinista di cui seguivo i corsi quando studiavo all’università, Alberto Grilli, raccomandava di diffidare di chi commenta un testo antico o straniero senza tradurlo, perché la traduzione è il primo commento, la prima interpretazione.

Essendo di necessità imperfetta, la traduzione rivela infatti le scelte del suo autore – a cosa si può rinunciare, cosa è invece essenziale – ed è quindi la chiave di accesso alla sua (del traduttore) poetica, in dialogo certo con quella dell’autore tradotto; alla sua (del traduttore) ideologia, perché ogni posizione estetica è sempre sintomo di un’ideologia, di una visione del mondo. Esaltare come fa Marinetti l’automobile ruggente sulle ali della mitraglia e la distruzione delle biblioteche sottende l’esaltazione dell’industria, della tecnica, dello schiaffo, del pugno e della guerra, e prelude, al di là delle provocazioni “rivoluzionarie”, all’adesione al fascismo (e alla poltrona da accademico d’Italia). Preferire i quotidiani alberi dei limoni ai ricercati bossi, ai ligustri e agli acanti dei vati, viceversa, rende automaticamente estraneo il “conservatore” Montale alla retorica dannunziana e mussoliniana…

Credo quindi che il traduttore abbia una enorme responsabilità, non tanto nella scelta dei testi che traduce (può capitare a tutti di tradurre libri mediocri o pessimi), quanto nel modo di tradurre, nelle scelte lessicali, sintattiche, retoriche ecc. che si compiono a partire dal testo originale. Come abbiamo appena visto, qui il margine di libertà è davvero ampio.

Intendo responsabilità (del traduttore) nei confronti dei suoi lettori e più in generale della società in cui opera. E mi spiego: è di Carlo Dossi, autore che le storie letterarie imprigionano poco generosamente nell’ambito della Scapigliatura lombarda, una delle frasi più vere che io conosca: gli esseri umani, cito a memoria, si dividono in due categorie, quella di chi mangia quando vuole e quella di chi mangia quando può. Io appartengo (come coloro che leggono queste righe, immagino) al novero dei privilegiati. E ho un secondo privilegio, quello di amare il mio lavoro, che come diceva Primo Levi (anche lui troppo confinato nell’ambito della memorialistica, e infatti la citazione è dal suo romanzo La chiave a stella) «costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra».

Non credo di dovermi sentire in colpa per questo. Ne ricavo piuttosto un senso di responsabilità (insisto volutamente su questo termine) nei confronti delle decine di persone che, con il loro lavoro sgradevole, a volte umiliante, quasi sempre mal retribuito, mi consentono di svolgere un’attività intellettuale. È a loro che penso ogni volta che mi siedo al computer per dare il mio minuscolo contributo al mondo che verrà. È a loro che dedico ogni singola pagina da me firmata.


Qualche consiglio di lettura

Ho svolto il mio discorso senza appesantirlo di note, ma voglio richiamare qui i testi di riferimento fondamentali di cui mi sono avvalso. Tutti i testi fuori diritti si trovano facilmente online, tradotti in italiano.
Cicerone (De optimo genere oratorum, 46 a.C. circa) è il primo teorico della traduzione, che ha ispirato il più grande di tutti, san Girolamo, di cui raccomando la lettura della Lettera LVII a Pammachio, detta anche De optimo genere interpretandi (392-95).
Leonardo Bruni (De interpretatione recta, circa 1420) è l’autore con cui inizia per la traduzione l’età moderna (a lui si deve tra l’altro l’invenzione, non sappiamo quanto volontaria, del termine “traduzione”). Friedrich Schleiermacher è l’autore del saggio Über die verschiedenen Methoden des Übersetzens (Sui diversi metodi di traduzione, 1813), a cui si affianca la ricchissima riflessione dell’epoca romantica, da Novalis a Leopardi, da Goethe a M.me de Staël, da Berchet a Hölderlin.
Nel Novecento, tre autori tuttora discussi e fecondi sono Benedetto Croce (Breviario di estetica, 1913, e La poesia, 1936), Walter Benjamin (Die Aufgabe des Übersetzers, Il compito del traduttore, 1923) e Roman Jakobson (Aspetti linguistici della traduzione, 1959). Ancora utile è la lettura di Georges Mounin, Les Problèmes théoriques de la traduction (Teoria e storia della traduzione, 1963), per quanto in buona misura superato.
I due libri recenti per me imprescindibili sono: George Steiner, Dopo Babele (1975), che a quasi cinquant’anni di distanza dalla pubblicazione continua a costituire una miniera inesauribile di riflessioni, spunti, letture, ripensamenti; e Emilio Mattioli, Il problema del tradurre (1965-2005), che raccoglie le riflessioni del più importante traduttologo italiano.

(fine)

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Alberto Cristofori

ha organizzato nel 2015 “Milano per Dante”, una lettura integrale della Commedia affidata a 100 esponenti della società civile milanese. È autore di manuali scolastici e traduttore. Ha pubblicato con Bompiani un romanzo e una raccolta di racconti, e dirige una casa editrice per bambini e ragazzi (Albe
Edizioni).

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