Traduzioni belle e brutte
Fino a pochi decenni fa, il giudizio sulle traduzioni letterarie si articolava intorno a due polarità contrapposte: a seconda delle epoche e del quadro teorico di riferimento si parlava di traduzione “ad verbum” o “ad sensum” (o “ad sentantiam”); di traduzione fedele o libera; di traduzione filologica o estetica; di traduzione di servizio o letteraria. Da un lato, insomma, c’era chi sosteneva che la traduzione più perfetta sarebbe quella che più si avvicina alla traduzione parola per parola, o alla traduzione interlineare; dall’altro, si dovrebbe invece aspirare a traduzioni intese come una sfida all’originale, capaci di reinventare il testo e dare l’impressione che sia stato scritto direttamente nella lingua di arrivo.
Ancora in tempi recenti la prima posizione è stata rivendicata da figure non prive di autorevolezza, per esempio Vladimir Nabokov, l’autore di Lolita: «Chi desideri tradurre in un’altra lingua un capolavoro letterario ha un unico dovere da rispettare: riprodurre con assoluta esattezza l’intero testo, e nient’altro che il testo. Il termine “traduzione letterale” è tautologico, dal momento che qualsiasi altra cosa non è una vera traduzione, ma un’imitazione, un adattamento o una parodia».
In verità, la traduzione “ad verbum” si scontra con un fatto facilmente verificabile da chiunque, e cioè la non sovrapponibilità delle lingue (il termine tecnico è “anisomorfismo”): dalle formule di cortesia alla definizione dei rapporti familiari, dalle espressioni idiomatiche all’individuazione dei colori, infiniti sono gli esempi di non sovrapponibilità, anche tra lingue appartenenti alla medesima famiglia. Per quanto condotta con buon senso, la traduzione interlineare rischia di risultare utile solo per chi cerchi un aiuto a decifrare l’originale, ma illeggibile come testo autonomo.
Dall’altro lato si pone il problema dei limiti dell’interpretazione: fino a che punto può spingersi la libertà del traduttore? Le “belle infedeli” (stendiamo un velo sul maschilismo della metafora, che risale a Gilles Ménage: era il XVII secolo) erano spesso vere e proprie reinvenzioni, in cui il traduttore sovrapponeva i propri criteri estetici o morali o ideologici a testi del passato o di culture diverse. Puškin, con geniale perfidia, diceva che l’abate Jacques Delille, traducendo in francese Paradise Lost nel 1805, aveva «abbellito senza misericordia! il povero Milton per adeguare il testo originale all’ideale estetico neoclassico. Il caso più celebre di traduzione-reinvenzione in Italia è l’Iliade del Monti, oggetto di strali plurisecolari, da Foscolo alla Lettera a una professoressa.
Le funzioni della traduzione
Credo che la contrapposizione suddetta si possa considerare ormai superata, almeno in sede teorica. Mi sembra più utile mettere al centro della questione, anziché il rapporto fra testo di partenza e testo di arrivo, lo scopo a cui risponde l’attività del traduttore, e quindi il lettore a cui si rivolge la traduzione stessa. Possiamo così distingue, molto schematicamente, tre tipologie di traduzioni: le traduzioni scolastiche, quelle di servizio e quelle d’arte.
Il primo caso è il più comune: tutti siamo stati chiamati a tradurre per dimostrare all’insegnante (e poi a un potenziale datore di lavoro, o a una commissione ministeriale ecc.) che avevamo studiato ed eravamo in grado di capire e rendere in italiano un testo in una delle lingue, antiche o moderne, previste dai programmi. Vorrei osservare che gli esami non finiscono mai: anche il traduttore esperto si rivolge a lettori chiamati a giudicare il suo lavoro – nel mio caso, per esempio, i redattori che rileggono le mie traduzioni confrontandole con l’originale e mi segnalano eventuali dubbi, errori, dimenticanze, problemi irrisolti e così via.
Con l’espressione “traduzione di servizio” (stiamo sempre parlando di traduzioni letterarie, non degli annunci aeroportuali o dei manuali d’uso dello smartphone) indico la traduzione che si prefigge di rendere fruibili al lettore opere scritte in una lingua che non conosce. Vorrei richiamare qui il testo che dà inizio alla modernità nel campo della teoria della traduzione, e cioè Über die verschiedenen Methoden des Übersetzens (Sui diversi metodi di traduzione) di Friedrich Schleiermacher (1813). Due, secondo Schleiermacher, sono i cammini che il traduttore può intraprendere, o meglio, far intraprendere: lasciare lo scrittore il più tranquillo possibile e far sì che sia il lettore ad andargli incontro, o, al contrario, lasciare il più tranquillo possibile il lettore e far sì che sia lo scrittore a dirigersi verso il mondo linguistico di questi. Per fare un esempio molto semplice: traduco le miglia in chilometri, i galloni in litri, i piedi e i pollici in centimetri? sto avvicinando il testo al lettore, attenuo il suo carattere esotico, lo ripulisco dalla patina del tempo…; lascio le miglia, i galloni, i pollici e i piedi, le iarde e le once e così via? costringo il lettore ad avvicinarsi al testo, cioè a entrare nel mondo “altro” dell’originale. Tutti i traduttori sanno di dover giocare fra questi due estremi, seguendo da un lato il buon senso, dall’altro le convenzioni editoriali della loro epoca.
La traduzione d’arte è quella che mette tra parentesi il lettore: in questo caso, il traduttore concentra tutta l’attenzione sul testo di partenza, con il quale instaura una sorta di nobile gara, per mettere alla prova la propria lingua, i propri mezzi espressivi, addirittura la propria poetica. Rientrano in questa tipologia, per limitarci all’Italia degli ultimi due secoli, gli esperimenti di Foscolo (La chioma di Berenice) e Leopardi (la Batracomiomachia), Carducci che affronta Heine, i Lirici greci di Quasimodo, nonché i “quaderni di traduzione” dei grandi poeti novecenteschi, da Ungaretti a Montale a Sereni a Fortini a Raboni e altri. In questi casi la traduzione (quasi sempre poetica, ma vi sono anche casi in prosa) ambisce a porsi come testo autonomo, anche quando vi sia l’originale a fronte, e spesso viene proposta come parte della produzione dell’autore-traduttore.
Coerenza, adeguatezza, efficacia
Mi sembra che questa impostazione del discorso abbia un’importante conseguenza sulla valutazione del testo di arrivo. Sia nel caso della traduzione scolastica, sia nel caso di quella di servizio, sia nel caso di quella d’arte, il giudizio sulla traduzione non può essere legato al criterio della fedeltà o della bellezza, ma a quello dell’efficacia. Efficacia innanzitutto nel mediare fra le due esigenze opposte, la salvaguardia dell’originale (e quindi l’invito al lettore affinché si avvicini al testo) e l’aiuto al lettore (ossia l’avvicinamento del testo al fruitore).
Detto altrimenti: la traduzione è un lavoro che risponde a determinati bisogni e il suo esito va giudicato in termini di rispondenza agli obiettivi. La traduzione scolastica (per es. una versione dal latino) dovrà avere caratteristiche diverse da quelle della traduzione di servizio e dalla traduzione d’arte dello stesso testo: una versione d’arte di un carme di Catullo non è detto che sia premiata in un esame, e viceversa la traduzione che merita il voto più alto a scuola non è automaticamente pubblicabile in un volume destinato alle librerie. Uno dei più grandi traduttori italiani di tutti i tempi, Melchiorre Cesarotti, nel XVIII secolo fece due traduzioni dell’Iliade, una in endecasillabi sciolti, l’altra in prosa, e giustificò quanto appariva a molti bizzarro con queste parole: «Due sono gli oggetti [cioè gli obiettivi] ch’io mi sono proposto: l’uno di far gustare Omero [con la traduzione “d’arte” in versi], l’altro di farlo conoscere [con la versione in prosa]».
Non solo. Le traduzioni editoriali sono giustamente considerate opera d’ingegno, e retribuite come diritti d’autore, perché si riconosce anche nella traduzione di servizio, “reader-oriented”, la presenza di una ricerca stilistica ed espressiva. Le scelte di chi traduce – poiché di scegliere, cioè di interpretare, sempre si tratta – devono rispondere a criteri estetici consapevoli, frutto di una riflessione il più possibile critica e autocritica (come proverò a mostrare nel prossimo articolo).
Tradurre è un gesto politico
Le mie traduzioni di Gurnah e tutte le altre che ho pubblicato finora si collocano nell’ambito delle traduzioni di servizio, ma spero di aver chiarito che la distinzione fra le tre tipologie ha confini assai sfumati. Vorrei perciò concludere con alcune riflessioni che riguardano le traduzioni nel loro complesso.
Tradurre significa lottare con lo spazio e col tempo. Tutte le traduzioni mettono a confronto non solo due testi, ma due visioni del mondo, giacché ogni lingua esprime e trasmette una visione del mondo. Tradurre uno scrittore cinese o sudafricano significa quindi ampliare lo sguardo del lettore, portarlo in qualche misura a viaggiare in Cina o in Sudafrica, instaurare un dialogo, per quanto difficile, imperfetto e smozzicato, con tradizioni e culture “altre”. Quando si traduce un autore antico, o quando si parafrasa un poeta medievale, si intraprende un vertiginoso e affascinante viaggio nel tempo (penso per esempio alla meravigliosa pagina in cui Contini spiega Tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia, chiarendo che gentile non vuol dire gentile ma nobile d’animo, onesta non vuol dire onesta ma piena di decoro, pare non vuol dire pare ma si mostra, e donna non vuol dire donna ma colei che ha signoria sulla mia mente; e traduce: «Tale è l’evidenza della nobiltà e del decoro di colei ch’è la mia signora…»).
Le traduzioni storicamente più significative non sono quelle perfette dal punto di vista filologico, al contrario. L’importanza culturale di una traduzione non è legata se non in piccola misura alla sua valutazione tecnica, e lo dimostrano casi celeberrimi, dalla già citata Iliade del Monti, che a dispetto degli “errori” è il capolavoro del neoclassicismo ormai prossimo al tramonto (nel 1810), al Moby Dick di Pavese, piena di imprecisioni, e come poteva essere diversamente? se pensiamo agli strumenti che non aveva a disposizione l’autore, ma che tuttavia ha rappresentato (nel 1932) un gesto coraggioso di sfida a fronte della chiusura culturale del fascismo e della sua censura nei confronti di tutto ciò che era “straniero”.
Ogni scelta ha il suo peso, non astrattamente letterario, ma concretamente politico, nel senso più nobile del termine: Ettore Capriolo, pochi anni fa, è stato vittima di un attentato per aver tradotto I versetti satanici di Salman Rushdie; nel mio piccolissimo, sono orgoglioso di aver dato voce italiana ad autori impegnati a favore dei diritti umani, spesso perseguitati, in qualche caso uccisi o imprigionati nei loro paesi, come la pachistana Benazir Buttho, il turco Ahmet Altan, la russa Masha Gessen, l’iraniana Shirin Ebadi… E naturalmente Abdulrazak Gurnah, scrittore post-coloniale costretto a emigrare a vent’anni per sfuggire alla persecuzione etnica e capace di evitare nei suoi romanzi le facili contrapposizioni tra africani buoni e colonialisti cattivi, o tra etnie dominanti ed etnie perseguitate, a vantaggio di una comprensione umana più approfondita e di un giudizio più sfumato sui personaggi e sulle loro vicende.
(continua)