Tra il mito e la fiaba

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Fiaba e mito contro il logorio della vita moderna: consigli di Remo Ceserani per sopravvivere alle feste. [L’articolo è già comparso sulla rivista Aracne, nella rubrica “Messa a fuoco”. Ringraziamo l’autore per il dono.]
Gentile da Fabriano, Adorazione dei Magi, 1423, Galleria degli Uffizi di Firenze

Le feste natalizie sono ormai dominate dai riti ossessivi della società consumistica e sincretistica che ci assediano da ogni parte. Una strategia difensiva può essere quella di approfittare dell’occasione per vedere le cose del mondo e della storia con l’aiuto delle modalità rappresentative del mito e della fiaba.
Propongo di andare a rivederci, agli Uffizi, l’Adorazione dei magi di Gentile da Fabriano: su uno sfondo gotico-rinascimentale, con concessioni all’esotico, ma nessun tentativo di ricreare un ambiente che possa assomigliare alla Palestina, fra l’Africa e l’Asia. Ecco la grotta, come un uovo dal guscio aperto che accoglie l’asino e il bue; poi un gruppo di pastori resi attoniti dall’evento miracoloso, una colomba, uccelli, cavalli, levrieri, leopardi, dromedari, oggetti preziosi; a sinistra Maria con Gesù bambino, ancelle e un Giuseppe con l’aria da vecchio profeta; nel centro il corteggio solenne e lussuoso con i tre magi di età diversa (uno vecchio, uno in età matura, uno giovinetto) dalle vesti sfarzose di seta e damasco e gli ornamenti dorati e luccicanti, in atto di adorazione; il tutto rappresentato su una superficie schiacciata e una composizione affollatissima, che si svolge su vari piani, senza nessun uso della prospettiva.
La forza del mito investe soprattutto la figura di Maria e offre l’esempio di una potente attività mitizzante forse insuperata nella storia del mondo: una povera donna ebrea analfabeta, che viveva nel poverissimo, oscurissimo villaggio di Nazaret, senza neppure una sinagoga, in una piccola casa con una sola finestra e una stanza divisa a metà tra la famiglia da una parte e dall’altra gli animali, un cortile di dietro dove venivano coltivate poche verdure. In quella casetta, lei e il marito carpentiere crebbero quattro figli maschi (fra cui Gesù era il primogenito) e un numero imprecisato di femmine. Il suo primo figliolo, Gesù di Nazaret, molto probabilmente è nato lì e non a Betlemme, come sostengono Matteo e Luca – solo loro, ma lo fanno in base alla concezione figurale della storia: i profeti dell’Antico testamento, infatti (Isaia 7,13, Michea 5,2), avevano annunciato che a Betlemme sarebbe nato il «messia dei Giudei», il discendente o «figlio» di David.
È molto probabile che sia il padre che i figli, compreso Gesù prima di aver incontrato Giovanni Battista ed essersi dato alla predicazione (ed essersi sposato con una qualche donna del posto, come era norma per tutti i giovani della sua età nella società ebraica del tempo) andassero ogni giorno da Nazaret a lavorare nella vicina cittadina di Sefforis, dove i Romani avevano iniziato un’intensa attività edificatoria (ville e palazzi, con vivaci mosaici che rappresentavano uomini nudi dediti alla caccia, donne inghirlandate con ceste di frutta, ragazzi che danzavano e suonavano strumenti musicali).
La povera donna dovette piangere, nel tempo, ben due figli morti ammazzati a opera dei romani: Gesù nel 33 d. C. sulla croce, e il fratello Giacomo, trent’anni dopo, per lapidazione, avendo egli guidato una sanguinosa ribellione contro i romani conquistatori (testimonianza attendibile di Giuseppe Flavio, che parla di «Giacomo, fratello di Gesù, colui che è chiamato il Messia»).
Tanto più risulta straordinario, se si tien conto degli scarsi dati biografici a nostra disposizione, che quella povera donna sia stata nel giro di pochi secoli trasformata in una figura mitica, una divinità risiedente in Paradiso, rappresentata nelle più varie forme umane (bionda per lo più, con un manto celeste, ma anche nera come a Czestochowa), adorata da re, papi e grandi poeti, avvistata in forma fantasmatica da ingenui pastorelli, donne dai nervi fragili e dalle acute facoltà sensitive o papi a passeggio nei giardini vaticani: una divinità molto più potente che mai fossero state Venere o Atena o la Chalciuhtlicue degli Atzechi o Freyja delle religioni nordiche.

James Jacques J. Tissot, Viaggio dei Re Magi, 1894, Minneapolis Institute of Arts, Minneapolis, Minnesota, USA

Davanti a lei e al bambino appena nato arrivarono, per rendergli omaggio e portargli dei doni di forte valore simbolico, i tre re magi: e qui alla modalità letteraria del mito si è sovrapposta, nel racconto evangelico di Matteo e in quelli molto più dettagliati di alcuni apocrifi (soprattutto il Vangelo dell’infanzia armeno), la modalità letteraria della fiaba. Vengono chiaramente dal mondo della fiaba il numero magico di tre, gli attributi astrologici, regali, sapienziali e oroscopici dei tre viaggiatori, i riti dell’omaggio in ginocchio e, con forte implicazione antropologica, i «doni» recati da ciascuno di essi.
Come in tutte le favole di magia, i tre magi hanno origini antiche, nelle società dei raccoglitori e dei cacciatori, ma anche capacità metamorfiche, che hanno permesso loro di ricomparire sotto le forme più varie presso le più diverse culture, innescandosi e ibridandosi con altre forme di culti locali. Sono divenuti così, traverso testi scritti e orali e messe in scena di sacre rappresentazioni, los tres Reyes Magos dei paesi di lingua castigliana, i quali usavano ricevere lettere dai bambini e venivano a portar loro «doni» nel giorno dell’Epifania a cavallo di tre cammelli e da tre continenti diversi, Melchior dall’Europa, Caspar dall’Asia e Balthasar dall’Africa e i bambini, in previsione del loro arrivo, provvedevano a preparare acqua da bere e fieno per i cammelli.
In Austria e Baviera la gente usava scrivere con il gesso sopra la porta di casa le iniziali dei nomi dei tre re K+M+B, e il giorno dell’epifania i bambini del posto, a gruppetti di tre, usavano andare di casa in casa, cantando una canzoncina: erano gli Sternsinger, vestiti da magi (uno con il viso nero di carbone), con una stella sulla fronte, e ricevevano doni.
Nelle Filippine, nel giorno dei Tatlóng Haring Mágo i bambini erano soliti lasciare, la sera prima dell’Epifania, fuori dalla porta di casa, le scarpe, per trovarci i doni il giorno dopo.

E oggi, nelle società postmoderne? I riti tradizionali si indeboliscono, l’attività di mantenimento dei miti e delle fiabe gradualmente svanisce, le madonne continuano un po’ stancamente a dare qualche illusione di speranza e arricchire albergatori, tourist operator, bancarellai di oggetti kitsch e cianfrusaglie nei luoghi deputati in Portogallo, in Croazia, sui Pirenei, mentre nei grandi magazzini i finti babbi Natale cominciano alla fine di novembre a cacciare nel dimenticatoio i bambin Gesù, i presepi, le sante Lucie, e anche i poveri fiabeschi re magi e a sostituire allo scambio dei doni la vendita delle merci a spese delle tredicesime.

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Remo Ceserani

(Soresina, 1933 – Viareggio 2016), allievo di Mario Fubini a Milano, si è perfezionato alla Yale University con René Wellek. Ha insegnato a Bologna, Milano, Pisa, Genova e in università statunitensi e australiane. Si è occupato di teoria della letteratura, di letterature comparate del Rinascimento e dell’età moderna e di storia della critica. Tra i suoi scritti ricordiamo Raccontare la letteratura, Bollati Boringhieri, Torino 1990, Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino 1997, Guida allo studio della letteratura, Laterza, Roma-Bari 1999, Il testo narrativo: istruzioni per la lettura e l’interpretazione, il Mulino, Bologna 2005, con Andrea Bernardelli, Il testo poetico, il Mulino, Bologna 2005, Convergenze: gli strumenti letterari e le altre discipline, Bruno Mondadori, Milano 2010, La letteratura nell’età globale, il Mulino, Bologna 2012, con Giuliana Benvenuti, Treni di carta, Bollati Boringhieri, Torino 2002, L’occhio della medusa: fotografia e letteratura, Bollati Boringhieri, Torino 2011. Ha fatto parte del comitato direttivo de «L’asino d’oro» e ha collaborato al «Giornale storico della letteratura italiana», a «Belfagor», a «L’Indice» e a «il manifesto».

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