Allargare i confini

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Nel 2013, invitato a tenere una lezione magistrale alla quarta edizione del convegno “Le storie siamo noi”, Remo Ceserani proponeva agli studiosi e ai docenti di letteratura di superare le consuete frontiere nazionali, situando la cultura italiana nel contesto dell’Europa e della più ampia comunità mondiale. Si pubblica di seguito il testo dell’intervento.
R. Delaunay, Ritratto del poeta Philippe Soupault, 1922, Musée National d’Art Moderne, Parigi.

Credo che sia giunto il momento di studiare la cultura e la letteratura italiane al di là delle solite frontiere, nel contesto non solo dell’Europa, ma anche della più ampia comunità mondiale. Basta una breve scorsa alle vicende nei secoli di molti uomini di cultura italiani per capire che i rigidi canoni nazionali imposti dalla tradizione scolastica, sulla base del grande modello desanctisiano (Ceserani 2011a), non sono più sostenibili.
Non sappiamo, per esempio, se Dante abbia davvero soggiornato a Parigi, anzi è molto probabile che la notizia data da Giovanni Villani che «Dante andossene allo studio a Bologna, e poi a Parigi, e in più parti del mondo» (notizia, quanto a Parigi, ripetuta da Giovanni Boccaccio) sia frutto di fantasia e di volontà di accrescere la fama e il prestigio di un grande concittadino, ma è anche vero che, nei limiti consentiti dalle strettoie dell’esilio, Dante ebbe una visione culturale e politica molto ampia, oggi si direbbe europea, anche se conservatrice, e che la sua trasformazione in «padre della patria» (da fiorentino in esilio a italiano) è stata un’operazione ideologica del Risorgimento.
Ha scritto Amedeo Quondam, in un libro sulla discussa italianità di Petrarca:

Dante: poeta di una poesia forte, virile, profetica, politica, civile. Dante poeta esule, mai incline al compromesso: come tanti esponenti dell’avventura risorgimentale. L’efficacia di questa interpretazione dantesca è subito formidabile, perché si proietta sul presente, connotandone le drammatiche vicende, disponibile a un immediato riuso e consumo attualizzanti, in chiave tutta ideologica (2004, p. 57).

Petrarca, appunto, il quale è pur vero che scrisse una canzone All’Italia, citata, non a caso, da Machiavelli nella conclusione del Principe, e letta e commentata in tutte le scuole italiane dopo il Risorgimento, ma sarà bene ricordare che l’Italia di cui parla la canzone è immagine tutta letteraria, nutrita soprattutto di storia romana e di una visione che anch’essa potremmo chiamare europea.
Va anche ricordato che la vita di Petrarca si svolse in parte a Avignone e Valchiusa, fuori dai confini italiani, e che egli non riuscì mai a mettere radici (e relative adesioni politiche) in luoghi e istituzioni della penisola, oscillando fra Napoli, Roma, Parma, Venezia, Milano e i Colli Euganei, ogni volta scegliendo in quei luoghi un domicilio provvisorio, possibilmente ameno e solitario.
Boccaccio, a sua volta, non solo prese per buona la leggenda di un viaggio di Dante a Parigi, ma addirittura inventò la favola di una sua improbabile ma prestigiosa nascita proprio a Parigi, invece che a Firenze, o peggio a Certaldo, paese di cipolle. Anche lui, inoltre, si nutrì di un’ampia cultura non solo umanistica sovranazionale (latina e anche, almeno come aspirazione, greca), fortemente legata alle migliori tradizioni francesi apprese alla corte angioina, dove ebbe luogo la sua formazione.
Quanto al movimento umanistico, forse un po’ troppo rigidamente identificato da Eugenio Garin con una specifica tradizione fiorentina, da lui definita «umanesimo civile», va ricordato che esso fu un movimento schiettamente internazionale, con la partecipazioni di intellettuali tedeschi, francesi, spagnoli, cechi, i cui nomi originali stranieri erano mascherati dalla trascrizione latina, e che quegli intellettuali ebbero strumenti efficaci di confronto e costruzione di comuni interessi, come i fitti scambi epistolari, e luoghi di incontro e confronto di opinioni, come i concili di Basilea e di Costanza, dove ebbero ampia possibilità di discutere le interpretazioni dei testi classici e promuovere la scoperta di manoscritti, come avvenne con il De rerum natura, ritrovato nel 1417 nel monastero di Fulda, in Germania, da Poggio Bracciolini (Greenblatt 2012).
Si pensi a un personaggio come Enea Silvio Piccolomini che, prima di venire eletto papa con il nome di Pio II, ha viaggiato in lungo e in largo sul nostro continente, ha toccato la lontana Scozia, ha avuto un figlio in una città delle Fiandre da una donna inglese e ha addirittura scritto un’opera storico-geografica intitolata De Europa, rimettendo in circolazione il nome a suo tempo originario della Grecia e delle sue storie mitologiche. Le pagine dei suoi Commentarii, scritte in un latino nel quale si avverte la presenza dell’arguzia senese e toscana, dovrebbero essere lette nelle nostre scuole, in buona traduzione, accanto a quelle di Machiavelli e di Guicciardini.

R. Delaunay, «La torre rossa», 1911, Guggenheim Museum, New York.

Una comunità nomade: i letterati

I secoli fra Sei e Settecento abbondano di personaggi italiani che, per una ragione o per l’altra, furono costretti ad andare oltre frontiera (nessuno, allora, si fermava a Chiasso): filosofi come Bruno, intellettuali irregolari, seguaci della riforma luterana o calvinista costretti a sfuggire dalle grinfie dei tribunali ecclesiastici, e poi musicisti, uomini di teatro, cortigiani, diplomatici, avventurieri.
Oltre a Cagliostro (che, fra le tante imprese e i tanti imbrogli, compiuti in tutta Europa, ordì anche una truffa ai danni di un fabbro palermitano sciocco e avido, di nome Marano) o Casanova (la cui Histoire de ma vie fu scritta in francese negli ultimi anni vissuti da Casanova in Boemia e pubblicata solo nel 1960-62), sarebbe importante riportare alla ribalta personaggi come Ferrante Pallavicino, feroce libellista, autore di un romanzo noto in tutta Europa come Il corriere svaligiato (1640), decapitato nel 1644 ad Avignone su ordine delle autorità pontificie, o come Gian Paolo Marana (il cui nome è stato ripreso da Calvino in Se una notte d’inverno): genovese, Marana ebbe una vita piena di intrighi e congiure, fu storico alla corte del re di Francia e nel 1684-86 pubblicò in francese e in italiano il romanzo epistolare L’esploratore turco, precursore delle Lettres persanes di Montesquieu, che fu tradotto in molte lingue.

Gli illuministi italiani fecero parte di una rete internazionale di intellettuali, spesso in dialogo con i loro colleghi di oltralpe come l’abate Ferdinando Galiani, spiritoso protagonista dei salotti parigini e autore del trattato Della moneta, o Cesare Beccaria, i cui Delitti e delle pene, stampato in italiano a Livorno nel 1764, fu subito ristampato in francese con le note di Diderot e un commento di Voltaire e in francese fu letto in tutta Europa e in America. Ci sono, naturalmente, i casi più noti e più presenti nelle antologie scolastiche di Goldoni, Verri, Alfieri, Foscolo. Centrale, per capire la rete di rapporti culturali e linguistici che collegò l’Italia alle altre principali realtà europee fra Sette e Ottocento, è la vicenda musicale.Goldoni visse a Parigi dal 1762 al giorno della morte nel 1793, dove fra l’altro insegnò l’italiano ai figli del re, e in francese scrisse, oltre ad alcune commedie, i Mémoires.
Centrale, per capire la rete di rapporti culturali e linguistici che collegò l’Italia alle altre principali realtà europee fra Sette e Ottocento (Folena 1983) è la vicenda musicale: basta ricordare che mentre Mozart compose alcuni dei suoi capolavori in italiano (fra cui il Don Giovanni, messo in scena a Praga nel 1787, su libretto di un altro italiano vagabondo, Lorenzo Da Ponte, che trascorse la seconda parte della sua vita in America), Gioacchino Rossini, che quando era studente di composizione a Bologna veniva chiamato «il tedeschino» per la sua passione per la musica di Haydn e di Mozart, arrivato a Parigi nel 1823, vi trascorse il resto della vita e in francese compose alcuni dei suoi capolavori.

Nel periodo del Risorgimento, le vicende politiche spinsero molti italiani all’esilio o alla residenza all’estero (Foscolo a Londra, Mazzini in giro per l’Europa, Gioberti a Bruxelles e Parigi, De Sanctis a Zurigo, Cattaneo a Lugano) e ispirarono a molti intellettuali europei simpatia e sostegno per la causa italiana, e i rapporti interculturali si fecero anche più intensi, così come l’intreccio delle esperienze, anche linguistiche e letterarie.
Nel Risorgimento, le vicende politiche spinsero molti italiani all’esilio o alla residenza all’estero e ispirarono a molti intellettuali europei simpatia e sostegno per la causa italiana, e i rapporti interculturali si fecero anche più intensi, così come l’intreccio delle esperienze anche linguistiche e letterarie.Ricordo soltanto, perché esemplare, il caso del patriota mazziniano Giovanni Ruffini, che andò in esilio prima a Edinburgo poi a Parigi e scrisse in inglese quattro romanzi, fra cui due molto popolari, ispirati in parte a vicende dell’autore o dei suoi fratelli, anch’essi mazziniani: Lorenzo Benoni (1853) e Dottor Antonio (1855).
Ruffini, che a Parigi scrisse anche due libretti per Gaetano Donizetti, scrisse i romanzi in inglese, avvalendosi molto probabilmente della collaborazione di due amiche e amanti, anch’esse scrittrici: Cornelia Turner e Henrietta Camilla Jenkins; la quale Jenkins, a sua volta, pubblicò nel 1861 a Lipsia presso Taichnitz il romanzo Who Breaks, Pays (Italian Proverb), in cui viene in parte rappresentata la storia di Giovanni Ruffini, nei panni di un esiliato italiano a Parigi, dove è protetto da una signora anglo-francese (Turner) e incontra, amandola, una giovane inglese (Jenkins).
Nel libro di Jenkins è descritto un incontro con Gioberti a Parigi e si discute dei Promessi sposi e della Divina commedia. Difficile stabilire se queste opere appartengono alla letteratura inglese o a quella italiana, o francese, o europea.

Dopo l’unificazione del Paese e nel corso del Novecento l’intreccio si è fatto così fitto e frequente che non posso qui che darne soltanto un’idea frammentaria: i tanti intellettuali italiani attratti verso le capitali della cultura: Parigi, Vienna, Londra, Berlino e più tardi New York; poeti come Ungaretti, nato e cresciuto ad Alessandria d’Egitto, trasferito a Parigi per farvi il suo apprendistato, passato poi in Italia durante la prima guerra mondiale e andato poi come professore all’Università di San Paolo in Brasile e infine a Roma; storici o filosofi o letterati o economisti o scienziati come Salvemini, Prezzolini, Borgese, Momigliano, Dionisotti, Modigliani, Fermi finiti in America, Inghilterra, Svizzera in un grande intreccio di esperienze e rapporti (Borgese, in America, sposò una figlia di Thomas Mann); giornalisti e corrispondenti di guerra e di pace dai più diversi Paesi (Alvaro a Berlino al tempo della repubblica di Weimar, dove conobbe Walter Benjamin; Emanuelli in Russia e Cina; Manganelli viaggiatore in India e Maraini residente in Giappone e tanti altri che per conoscere il mondo, girare film – come fecero Antonioni, Pasolini e Bernardo Bertolucci – tradurre poesie e romanzi; tutti superarono sistematicamente le nostre frontiere).
Vanno aggiunti, naturalmente, anche scrittori come Pavese e Vittorini che, senza essere mai stati davvero in America (come invece fecero Soldati, Cecchi e Piovene) si nutrirono dei miti culturali di quel Paese; e infine Calvino, che in modo esemplare tracciò il percorso dello scrittore italiano contemporaneo: dall’impegno, anche politico, nel nostro Paese, al lavoro editoriale e creativo presso la casa editrice Einaudi a Torino e Roma, al soggiorno parigino negli anni 1967-1980 in cui condivise le esperienze dello strutturalismo, della narratologia e dell’OuLiPo, ai due importanti viaggi negli Stati Uniti, nel 1959 e nel 1975, preludio al viaggio del 1985 che la morte improvvisa non gli consentì di realizzare e per cui aveva preparato le Lezioni americane, per le Norton Lectures a Harvard.

Egemonie alternate e confini che si allargano

Mi preme soltanto sottolineare due aspetti generali del fenomeno di cui sto parlando.
1) Nella complicata storia della cultura nei Paesi europei attraverso i secoli, non è difficile stabilire momenti e periodi in cui la cultura di una delle aree linguistiche risultò egemone ed esercitò un forte influsso sulle altre. Nel periodo del risveglio dopo il Millennio, furono egemoni, oltre alla cultura latina persistente, anche le nuove forme poetiche e le nuove concezioni dell’amore provenzali e le narrazioni epiche e romanzesche francesi (nelle quali erano presenti elementi derivanti dalla concezione occitanica e cortese della vita e dell’amore, arricchita di elementi della gnosi e dell’erotismo arabo e altri derivanti dal gusto celtico per l’avventura, la dismisura e la potenzialità trasfigurante del sacrificio e della sconfitta e altri ancora, derivanti dalle tradizioni germaniche e celtiche dell’ideologia cavalleresca e della fedeltà di appartenenza al clan e al ceto nobiliare).
Dante ha dato una poderosa sintesi di tutti questi temi e fermenti, inaugurando un periodo di egemonia della cultura italiana su gran parte dell’Europa: un’egemonia a cui hanno contribuito per parte loro Petrarca per la tradizione lirica e Boccaccio per la tradizione novellistica. Con Ariosto e Machiavelli e gli scrittori e artisti italiani del Rinascimento l’egemonia italiana ha toccato il suo punto più alto, mentre quando Tasso scrisse tormentosamente il suo grande poema la situazione in Europa era ormai assai più complessa: la Riforma aveva introdotto una divisione ideologica destinata a produrre effetti molto profondi; la scena culturale aveva visto affacciarsi nuovi protagonisti: dalla Francia Rabelais inventore di un nuovo linguaggio e Montaigne inventore di una nuova capacità di autoriflessione, e più tardi Racine, Corneille e Pascal; dalla penisola iberica Miguel de Cervantes con le imprese fantastiche e demistificanti di don Chisciotte, Luis de Camões con le storie epiche delle imprese marinare verso i nuovi mondi; dall’Inghilterra il teatro nuovo di Shakespeare, fatto di poesia e grandi passioni, e il grande poema protestante di Milton.
Nel Settecento i due Paesi egemoni, fra loro contrapposti in molti modi, furono la Francia e l’Inghilterra: l’uno nell’elaborazione delle idee, nella teoria sociale e nella polemica intellettuale e politica, l’altro nella creazione della filosofia sperimentale, della scienza economica e del romanzo moderno.L’egemonia italiana si stava gradualmente sgretolando. Nel Settecento i due Paesi egemoni, fra loro contrapposti in molti modi (come ci ricordano le Lettres anglaises di Voltaire), furono la Francia e l’Inghilterra: egemoni l’uno nell’elaborazione delle idee, nella teoria sociale e nella polemica intellettuale e politica, l’altro nella creazione della filosofia sperimentale, della scienza economica e di un nuovo genere di letteratura borghese: il romanzo moderno.
Con l’Ottocento la scena europea si è complicata: alle nazioni culturalmente egemoni come la Francia e l’Inghilterra, soprattutto la prima con la grande tradizione del romanzo, da Stendhal a Balzac a Flaubert a Zola, e con la fondazione della poesia moderna con Baudelaire, Rimbaud e Mallarmé, si sono aggiunte la Germania con Goethe, i grandi poeti e filosofi romantici, le voci innovative di Schopenhauer e Nietzsche, l’America del Nord e del Sud e la Russia con grandi figure di scrittori come Puškin, Gogol, Tolstoj e Dostoevskij, le cui opere hanno avuto una grande diffusione in tutta Europa.

L’Italia ha timidamente partecipato al concerto europeo soprattutto con Manzoni e Leopardi e tuttavia il romanzo di Manzoni, così come l’alta poesia e il forte pensiero di Leopardi, hanno stentato a farsi conoscere all’estero: Goethe fu tra i primi ammiratori dello scrittore lombardo, a Leopardi dedicò grande attenzione Sainte-Beuve, ma una bella traduzione in inglese dei Canti di Leopardi, a cura di Jonathan Galassi, si è avuta soltanto di recente (2011), e ancora più recente è una traduzione completa dello Zibaldone, a cura di Michael Caesar e Franco D’Intino (2013). La lettura dei Canti in inglese ha spinto il noto critico e divulgatore Harold Bloom, in un nuovo libro sul canone occidentale (2011) a introdurre Leopardi nell’Olimpo dei grandi di tutti i tempi.
Abbastanza tarde sono state anche le traduzioni in tedesco di Nievo e in inglese dei Malavoglia di Verga, nonostante ci si fosse impegnato, per Verga, nientemeno che D. H. Lawrence.

Nel Novecento e nel periodo della piena modernità, i Paesi egemoni restarono più o meno gli stessi, con la Francia, la Gran Bretagna, i Paesi di lingua tedesca, gli Stati Uniti in posizione privilegiata, le città-capitali essendo Parigi, Londra, Berlino, Vienna, New York, gli autori più affermati essendo Proust, Gide, Camus, Sartre, e poi Conrad, Joyce, Virginia Woolf, e poi Thomas Mann, Kafka, Musil, e poi Hemingway e Faulkner. Ci fu anche un progressivo allargamento delle zone di influenza negli altri continenti, in parallelo con le avventure del colonialismo.
Nel Novecento si è assistito a un indebolimento dei tradizionali centri della produzione culturale dominante, alla scomparsa di molte frontiere, e alla forte capacità espansiva della cultura statunitense.L’Italia si è andata progressivamente allineata a questo movimento, esprimendo anch’essa scrittori appartenenti pienamente alla modernità, come Pirandello, Svevo e parecchi altri. Diversa la situazione dopo la svolta di metà Novecento e il passaggio dalla modernità solida a quella liquida (Ceserani 2013).
In questo periodo, molto complesso, a cui qui posso solo accennare, si è assistito a un indebolimento dei tradizionali centri della produzione culturale dominante e alla scomparsa di molte frontiere, alla forte capacità espansiva della cultura statunitense in tutte le sue ramificazioni mediatiche e con tutti i nuovi mezzi tecnologici, ma anche a un allargamento straordinario delle aree interessate, con effetti importanti di decentramento.
Per questo un libro molto importante come quello dello studioso francese Pascale Casanova sulla letteratura mondiale (1999) risulta non privo di contraddizioni, come è stato fatto notare in un bel saggio da Christopher Prendergast (2001): Casanova, pur avendo l’intento commendevole di proporre uno sguardo globale a quella che chiama «la repubblica mondiale delle lettere» continua, magari senza rendersene conto, a considerare la Francia e Parigi al centro di quella repubblica.
Il panorama è diventato ormai molto ricco e differenziato e ai nomi di alcuni importanti scrittori statunitensi detti «postmoderni» come Pynchon e DeLillo si affiancano scrittori di tutto il mondo, britannici, irlandesi, tedeschi, est-europei, asiatici, africani, sudamericani e anche italiani, come Calvino, Tabucchi e Eco.

Dal punto di vista generale storiografico e delle fasi principali della storia delle egemonie culturali, quello che si può disegnare è un processo di progressivo allargamento e mescolamento delle lingue e delle culture: i casi di un Conrad che partendo dalla Polonia mette radici prima in Francia per poi diventare un grande scrittore inglese, profondamente e anche ideologicamente intriso di cultura anglosassone; o quello di Nabokov che lascia la sua Russia zarista per andare a vivere a Berlino e scrivere in tedesco e poi trasferirsi negli Stati Uniti e diventare un grande scrittore americano, o quello straordinario di Paul Celan che, nato in una città al suo tempo appartenente alla «Grande Romania», da famiglia ebrea di lingua madre tedesca, ha scritto poesie giovanili in romeno, poi si è trasferito a Parigi, quasi mai toccando il suolo della Germania, ma ha scelto di scrivere le sue straordinarie poesie in tedesco, la lingua degli aguzzini nazisti dei suoi genitori; questi casi si moltiplicano, sulla scena mondiale, e anche su quella italiana, all’infinito, prima isolati (esempio: Pressburger), poi sempre più numerosi in seguito alle ondate immigratorie.

2) C’è poi, per l’Italia, una questione che è condivisa da altri Paesi, ma che ha un’importanza particolare per noi: l’esistenza, fin dal tempo dei Romani e della prima unificazione politica estesa a quasi tutta la Penisola, di frontiere interne, oltre a quelle esterne. Si tratta di frontiere linguistiche, culturali, religiose (Cristo si è fermato a Eboli), di costume, di organizzazione teatrale. In Italia occorre tenere presente la questione dell’esistenza, fin dal tempo dei Romani, di frontiere interne, oltre a quelle esterne: linguistiche, culturali, religiose, di costume, di organizzazione teatrale.Esse non seguono le frontiere stabilite artificiosamente dalle divisioni amministrative (regioni, province) dello stato unitario e tantomeno corrispondono a immaginarie regioni padane; sono spesso più ristrette, municipali, e fanno riferimento a numerose città-capitali, che con la loro stessa esistenza dimostrano quanto sia stato artificioso (e ideologico) puntare su Roma-capitale seguendo il modello accentrato di Parigi.
La situazione geografico-culturale dell’Italia va tenuta attentamente presente anche nelle sue contraddizioni: per esempio nel contrasto fra la molteplice, differenziata e persistente a lungo presenza di tante parlate dialettali (spesso usate da scrittori grandi e minori per il teatro, da Goldoni a De Filippo, e per la poesia, con poeti grandissimi come Porta, Belli e tanti del Novecento, e per contro una lingua italiana letteraria riservata a fasce ristrette di parlanti e dall’altra parte le spinte nazionaliste, che hanno portato, per esempio, in Dalmazia e Tirolo del Sud, a campagne ingenue e goffe di italianizzazione dei nomi di persone, monti, villaggi).

R. Delaunay, «La torre rossa», 1911, Guggenheim Museum, New York.

La geocritica e il rifiuto del nazionalismo letterario

Gli storici dell’arte sono abituati a ragionare in termini di «scuole», botteghe e tradizioni locali: la scuola senese, quella fiorentina, quella veneziana, l’officina ferrarese. Si tratta di un metodo di ricostruzione storica che tiene conto del fatto che, finché non sono venuti i musei, con le loro sale specializzate (pittura veneta, i fiamminghi), le mostre e le riproduzioni a stampa, i quadri non giravano, e per vedere un Piero della Francesca o un Giorgione bisognava poter visitare una chiesa di Arezzo o di un paesino di campagna o poter entrare in un palazzo nobiliare. Diversa la circolazione dei libri.
Per questo i tentativi di adottare lo stesso sistema e parlare di «linea lombarda» o «tradizione poetica ligure» o «letteratura triestina mitteleuropea» o «letteratura siciliana» non sempre hanno dato buoni frutti.
Proprio alla geocritica e al rifiuto dell’utilizzo della letteratura per fondare l’identità nazionale s’ispirano tre opere pionieristiche, che possono aprire la strada a nuove forme di studio della letteratura, non più su base nazionale, e quindi anche di insegnamento scolastico.Ricordo che un giorno, in visita a Londra a Carlo Dionisotti, vidi sul suo tavolo alcuni volumi della collana Letteratura. Regioni d’Italia, Storia e testi, pubblicata dalla Scuola di Brescia e diretta da Pietro Gibellini.
Dionisotti, pur pioniere di un’attenzione per la geografia storica dell’Italia, scuoteva la testa. Pensava al suo Bembo, umanista veneziano che abbandonò la sua regione per andare prima a Ferrara e Urbino e poi alla Corte papale e lì proporre una visione accentratrice della lingua e della letteratura del nostro Paese. Forse Dionisotti pensava ai tanti umanisti e letterati che vissero una vita errabonda passando di luogo in luogo, in Italia e all’estero. Pensava, e me lo disse esplicitamente, agli allievi di un nostro liceo figli di qualche funzionario statale, professore o rappresentante di commercio, che si trovassero a studiare in prima liceo a Sassari il volume sulla letteratura sarda (di Giovanni Pirodda), in seconda liceo a Torino quello sulla letteratura piemontese (di Giovanni Tesio) e in terza a Campobasso quello sulla letteratura del Molise (di Sebastiano Martelli e Giambattista Faralli).
Diverso discorso andrebbe fatto per l’impresa recente dell’Atlante della letteratura italiana, a cura di Luzzatto e Pedullà (2010), che si avvale dei più recenti esperimenti di geocritica (Westphal 2009).

Proprio ai metodi e agli esperimenti della geocritica e al rifiuto teorico dell’utilizzo della letteratura per fondare o rafforzare l’identità nazionale dei nostri Paesi si ispirano tre opere importanti, che si rivolgono non certo al pubblico scolastico, ma al più ampio pubblico della divulgazione culturale. Alludo a una storia delle letterature dell’Europa centro-orientale (Cornis-Pope, Neubauer 2004-2010), a una delle letterature della penisola iberica, senza più distinzione fra Spagna, Portogallo, Catalogna, Paese basco e altre aree linguistiche e culturali (Cabo Aseguinolaza, Abuín Gonzales, Domínguez, 2010-) e a una di tutte le letterature dell’America meridionale, considerando insieme le culture degli indios, delle ex-colonie spagnole, di quelle portoghesi.
Ho analizzato queste opere in un saggio apposito (2013a), che uscirà anche in versione più ampia sulla rivista online dell’Associazione italiana di letterature comparate «Between» [il saggio, dal titolo Nuove storie letterarie sovranazionali sulla scena mondiale, è consultabile all’indirizzo http://ojs.unica.it/index.php/between/article/view/1045/810, N.d.R]. Si tratta di opere pionieristiche, che possono aprire la strada a nuove forme di studio della letteratura, non più su base nazionale, e quindi anche di insegnamento scolastico.

A scuola? Programmi, strategie, scelte

A questo punto mi si può muovere un’obiezione: ma come, già abbiamo da fare a scuola, in pochi anni e con poche ore a disposizione, un percorso storico molto lungo, che per la letteratura italiana è più lungo di quello di altri Paesi europei e per di più inizia con le opere di maggiore importanza letteraria, ma anche difficili da leggere per ragioni linguistiche e culturali, e tu mi vieni a proporre un percorso europeo e addirittura mondiale! Come possiamo fare? Provo a rispondere: secondo me è questione di programmazione e strategie conoscitive. Si tratta di fare delle scelte e di farle cercando di dare un senso dell’inquadramento storico generale e poi di fare approfondimenti mirati, su base tematica e su base interculturale. Puntando soprattutto sui confronti con le altre letterature (collegandosi con i professori di lingua straniere, il cui ruolo nella programmazione scolastica va aumentato e fortemente migliorato) e con le altre forme espressive: le arti, il teatro, la musica, il cinema.

Faccio qualche esempio. Prendiamo la Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti (1530) di Luigi Da Porto, come racconto novellistico tipico della società signorile, con precedenti in Boccaccio e altri, e come anticipo tematico dell’amore romantico. Si può istituire con quel testo una serie di confronti significativi, con la Giulietta e Romeo di Shakespeare, con le trascrizioni romantiche e moderne, con le trascrizioni sinfoniche e operistiche, da A suola si tratta di fare delle scelte e di farle cercando di dare un senso dell’inquadramento storico generale, e poi di fare approfondimenti mirati, su base tematica e su base interculturale. Puntando sui confronti con le altre letterature.Čajkovskij a West Side Story di Bernstein, con qualcuno dei film che ne sono stati tratti.
Oppure prendiamo il tema della cospirazione e della congiura (Micali 2001): possiamo partire dal racconto biblico della congiura di Assalonne contro re David, per passare al racconto di Tacito della congiura di Bruto e Cassio contro Cesare, alle pagine di Machiavelli, al Giulio Cesare di Shakespeare e a qualche trascrizione filmica e musicale, alle pagine di storici e tragediografi sulle congiure dei Baroni, dei Fieschi e di altre famose del mondo antico e moderno, al racconto che Riccardo Bacchelli ci ha dato della congiura di Don Giulio d’Este e del coinvolgimento di Ariosto, ai saggi di Hofstadter sulla paranoia cospiratoria come malattia delle democrazie contemporanee (trilaterale, P2 ecc.) ai romanzi postmoderni di Pynchon, DeLillo, Eco.
Oppure ancora prendiamo il tema del naufragio, partendo da quello classico di Ulisse nell’isola dei Feaci, raccontato nell’Odissea e in tanti altri testi, per poi passare alla novella di Landolfo Rufolo nel Decameron, ai romanzi e ai poemi cavallereschi, alla storia di Sindbad nelle Mille e una notte, alla Tempesta di Shakespeare e al Robinson Crusoe di Defoe, tutt’e tre ritrascritte e variate in molte forme, tanto da dare origine alle riflessioni filosofiche di Hans Blumenberg (1979) e un genere letterario, quello delle Robinsonaden (fino al bellissimo Vendredi di Michel Tournier), e perfino a un genere di barzelletta della “Settimana enigmistica”, con l’omino solo su un’isola deserta, una palma e le più diverse situazioni comiche, per poi passare all’Infinito di Leopardi, al Gordon Pym di Poe, al Moby Dick di Melville, al Pinocchio di Collodi, ai Malavoglia di Verga, alle poesie, ai film, alle metafore sul naufragio del Titanic (fra cui un bel poemetto di Enzesberger), al Signore delle mosche di Golding, a qualche romanzo o film di fantascienza.

Se si vogliono fare dei percorsi alternativi, dedicati non ai temi ma ai modi, ai generi e alle forme letterarie, si può, per esempio, mettere a confronto il sistema semantico prodotto dalla rima nelle canzoni, per esempio, di Petrarca, con quello tipico invece della sestina, da Dante allo stesso Petrarca agli imitatori moderni fino a Franco Fortini, o anche fissare le differenze fra i sistemi metrici in uso nelle varie lingue europee e le loro interferenze (sonetti di Petrarca, per esempio, con sonetti di Ronsard, Shakespeare o Góngora), oppure ancora, se si ha sufficiente tempo e impegno, all’uso della prima persona autobiografica da Sant’Agostino a Dante a Montaigne a Rousseau ai moderni e postmoderni, all’uso della terza persona onnisciente nei classici romanzi di Manzoni o Balzac, all’uso della terza persona del narratore nascosto caro a Henry James, ad alcuni curiosi esempi di uso della seconda persona, per esempio nella Modification di Butor, in un racconto di Tabucchi e in parecchie sperimentazioni contemporanee – con tutta una serie di possibili ricadute sulle rappresentazioni della soggettività. Potrei fare molti altri esempi.

Quanto alla questione del canone e al modo in cui esso si è realizzato nei grandi libri o nelle antologie, mi pare chiaro che si tratti di un’operazione, tipica di istituzioni come le Chiese o le scuole, esplicitamente o implicitamente autoritaria, tendente a imporre valori religiosi o morali o estetici ai propri lettori e consumatori.
Il canone? È un’operazione, tipica di istituzioni come le Chiese o le scuole, esplicitamente o implicitamente autoritaria, tendente a imporre valori religiosi o morali o estetici ai propri lettori e consumatori. Ora si deve pensare a scelte più elastiche e più sensate.Ci sono sia canoni rigidi e prescrittivi, sia canoni molto personali e al limite dell’idiosincratico, come quello proposto da Bloom (1996, 2011), sia anticanoni o tradizioni alternative, come per esempio quella dell’«espressionismo linguistico» proposta da Gianfranco Contini (1989), che punta, in alternativa alla linea classica, a quella che va da Dante a Gadda passando per gli irregolari, i dialettali, gli anticonformisti della nostra letteratura, oppure quella che propone, per il periodo della modernità, di declinare la tradizione dello «sternismo», suggerita da Giancarlo Mazzacurati (1987, 1990), che va dal Foscolo didimeo a Pirandello.

Ma se accettiamo l’idea di abbandonare i canoni nazionali più o meno tradizionali, cosa facciamo? Mettiamo su una commissione a Bruxelles o a Strasburgo, che cerchi di stilare la lista degli autori dei 28 Paesi che possano costituire il canone della letteratura europea (lasciando fuori la Svizzera, la Russia e gran parte dei Paesi del Mediterraneo e altri che non ne fanno parte)? È evidente che sarebbe un’operazione suicida.
In ogni caso mi pare che sia finito il periodo dei canoni, che ha avuto il suo ultimo momento glorioso al tempo della modernità solida (come istituzione, appunto, assai solida), e che ora si debba pensare a scelte più elastiche e più sensate.

Per approfondire

• G. Benvenuti, R. Ceserani, La letteratura nell’età globale, Il Mulino, Bologna 2012.

• H. Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, CDE, Milano 1996.

• H. Bloom, Anatomia dell’influenza. La letteratura come stile di vita, Rizzoli, Milano 2011.

• H. Blumenberg, Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, Il Mulino, Bologna 1979.

• F. Cabo Aseguinolaza, A. Abuín Gonzales, C. Domínguez (a cura di), A Comparative History of Literatures in the Iberian Peninsula, Amsterdam, Benjamins, 2010, vol. I.

• P. Casanova, La république mondiale des lettres, Seuil, Paris 1999.

• P. Casanova, Literature as a World, «New Left Review», 2005, 31, pp. 71-90.

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Remo Ceserani

(Soresina, 1933 – Viareggio 2016), allievo di Mario Fubini a Milano, si è perfezionato alla Yale University con René Wellek. Ha insegnato a Bologna, Milano, Pisa, Genova e in università statunitensi e australiane. Si è occupato di teoria della letteratura, di letterature comparate del Rinascimento e dell’età moderna e di storia della critica. Tra i suoi scritti ricordiamo Raccontare la letteratura, Bollati Boringhieri, Torino 1990, Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino 1997, Guida allo studio della letteratura, Laterza, Roma-Bari 1999, Il testo narrativo: istruzioni per la lettura e l’interpretazione, il Mulino, Bologna 2005, con Andrea Bernardelli, Il testo poetico, il Mulino, Bologna 2005, Convergenze: gli strumenti letterari e le altre discipline, Bruno Mondadori, Milano 2010, La letteratura nell’età globale, il Mulino, Bologna 2012, con Giuliana Benvenuti, Treni di carta, Bollati Boringhieri, Torino 2002, L’occhio della medusa: fotografia e letteratura, Bollati Boringhieri, Torino 2011. Ha fatto parte del comitato direttivo de «L’asino d’oro» e ha collaborato al «Giornale storico della letteratura italiana», a «Belfagor», a «L’Indice» e a «il manifesto».

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