Sudari, candele e viole

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Su “I pittori della luce”, spassosa mostra nell’Italia S.p.A.: tra furberie, strizzatine d’occhio e spiritosaggini assortite, una riflessione su mandato e significato di questo tipo di operazioni.

Si apre il catalogo della mostra I pittori della luce. Da Caravaggio a Paolini (Lucca, Ex Cavallerizza, 8 dicembre 2021 – 2 ottobre 2022) e, in apparenza, si sembra tornati al rigore critico degli anni Settanta, quando le mostre d’arte non erano mai disgiunte da un rispettoso senso civico e morale. Nel suo contributo – la scheda del Cavadenti degli Uffizi attribuita a Caravaggio – l’ormai 92enne Mina Gregori, tra le massime studiose del Seicento pittorico, non manca di menzionare i pareri discordanti attorno all’identità dell’autore: in maniera pacata, discorsiva, divulgativa.
Poi però, a ben guardare, ci si accorge che qualcosa non torna. Si ripensa a ciò che si è visto nelle sale dell’esposizione curata da Vittorio Sgarbi e si è portati a chiedersi, con amarezza, quali siano i criteri che hanno guidato le scelte in sede curatoriale.

Pietro Paolini, Cantore (1625 circa; olio su tela, 88 x 69 cm; Roma, Fondazione Boris Christoff)

La mostra si presenta come momento di riscoperta di uno dei protagonisti della pittura barocca lucchese, quel Pietro Paolini su cui latitano monografie e studi di rilievo. Ma se il tema dell’esposizione parla la lingua del territorio locale, il titolo prescelto tutto guarda fuorché alla lucchesia. Ancora, ci si gioca la facile carta di un nome altisonante – quello del Merisi – da usare come specchietto per le allodole per un pubblico che ci si ostina a credere boccalone. In termini di introito, un colpo di pennello del Merisi val tutto un Paolini, direbbe qualcuno. Ma, generalista o boccalone che sia, rimarrà deluso chi pagherà il biglietto attratto dalla prospettiva delle tele caravaggesche. Caravaggio è presente in mostra con sole tre, discutibili e discusse opere.

Il commovente Seppellimento di Santa Lucia, dopo le mirabolanti scorribande al Mart di Rovereto, arriva a Lucca solo nominalmente. Al suo posto, una riproduzione a grandezza originale, che a buon pro preserva l’autografo siracusano ma di cui, allora, l’esposizione temporanea poteva benissimo fare a meno.
A fianco, il soprammenzionato Cavadenti degli Uffizi, che da anni divide il giudizio degli storici dell’arte tra chi lo vuole come lavoro di Caravaggio e chi lo riconduce ad altre mani. Niente di grave in merito, se non che, sia in esposizione che in catalogo, la didascalia reca l’attribuzione a Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio: secca, inappellabile. E quindi disonesta.
Stessa cosa per il Mondafrutto, terzo presunto Caravaggio esposto. Basta una conoscenza minima degli studi caravaggeschi per sapere che il pittore eseguì effettivamente una tela col medesimo soggetto, oggi però perduta e nota solo attraverso copie non d’autore. Una di esse, forse la migliore da un punto di vista qualitativo, è conservata in Fondazione Longhi a Firenze. Quella di Lucca è una copia battuta all’asta nel 2017 e oggi in collezione privata sulla quale, ancora, il giudizio degli esperti rimane sospeso. E come per il Cavadenti, la mostra lucchese si guarda bene dal menzionare la querelle attributiva. Gli attribuito a, i copia da non valgono l’obolo pagato sull’altare del caravaggismo mediatico, che sacrifica in nome di un biglietto la funzione educatrice della mostra temporanea.

La prima sala della mostra.

Come si evince dal catalogo, nella prima sala avrebbe dovuto esserci anche la stupenda Adorazione dei pastori di Rubens, conservata a Fermo. Peccato che la tela sia rimasta in loco solo per quattro mesi, prima di essere sostituita dall’Angelo custode dello Spadarino. Perfino il Cavadenti, rientrato anzitempo a Firenze, è stato rimpiazzato dalla Cleopatra di Artemisia Gentileschi, a pronta disposizione dalla Fondazione Cavallini-Sgarbi. Beninteso che quelli di Spadarino e Artemisia sono pennelli mirabili. Ma se Caravaggio è l’iniziatore e Rubens la “miccia lenta” che permette alla rivoluzione pittorica di deflagrare, gli altri due sono le risultanze di tale rivoluzione. E allora la presenza dell’Angelo e della Cleopatra nella prima sala compromette tutto l’impianto cronologico, precludendo al visitatore poco esperto la possibilità di comprensione del contesto pittorico sul quale si innesta l’opera di Paolini.

Se si è in grado di notare queste piccole ma decisive furberie critiche, si visita il resto della mostra con un certo spasso. Così, tra tele non particolarmente convincenti di Antiveduto Gramatica, quadri del Guerrieri ripartiti per i lidi natii prima della chiusura della mostra e santoni dipinti da Valentin de Boulogne in precarie condizioni conservative, l’esposizione diventa una schidionata di opere che mirano più alla pancia che non all’intelletto del visitatore.

Di certo, non basta un accompagnamento musicale un po’ stentato per coprire le spiritosaggini di un allestimento pensato con ogni evidenza per un pubblico infante, con riproduzioni in formato gigante di oggetti raffigurati nelle attigue tele. Il Concerto a cinque figure e il Cantore di Paolini vengono affiancati da un’imponente scultura a forma di viola, la Fumatrice a lume di candela di Pietro Ricchi da un candelabrone sbilenco, l’Olindo e Sofronia attribuito al Rustichino da un maxi “sudario” di dubbio gusto. Fortuna che in mostra mancavano quasi del tutto tele rappresentanti il mito di Giuditta e Oloferne, tema caro al caravaggismo di ogni latitudine, o lo spettatore si sarebbe ritrovato attorniato da spade sanguinolente e teste mozze riprodotte in larga scala.

Ma se veli, candele e viole possono essere considerati, tutto sommato, un divertissement che strizza l’occhio al pubblico più pigro, grave è la mancanza di qualsivoglia pannello esplicativo. Niente, neppure un riferimento cronologico, neppure una datarella, una scrittina, a sporcare gli immacolati ed enfatici pannelli neri sui quali giace sconsolato tanto Seicento pittorico. Niente a guidare lo spettatore lungo l’arco del predetto secolo, dal fulmine caravaggesco fino al barocco toscano e, appunto, all’arte di Pietro Paolini. Una scelta che dice tutto della volontà di delegare all’audioguida qualsivoglia possibilità di crescita culturale, di espansione delle conoscenze. Un requiem per il sacrosanto diritto del visitatore di tornare sui suoi passi, di rileggere, di soffermarsi sul significato delle parole e, su tutto, di uscire da una mostra con un bagaglio di nozioni e di conoscenze maggiore rispetto a quando vi è entrato.

Così, l’apprendistato romano di Paolini presso il Caroselli, le sue meditazioni su Valentin de Boulogne, l’influsso decisivo su pittori come Simone del Tintore e Girolamo Scaglia rimangono alluse nella successione delle sale, mute purtroppo alle orecchie di chi non dispone di conoscenze pregresse in materia. Non bastano i proclami, titoloni sensazionalistici sui giornali e neppure il patrocinio del Ministero della Cultura per sancire la riuscita di una mostra, quando questa difetta nell’unico scopo che un’esposizione temporanea dovrebbe avere: diffondere, in maniera ecumenica e rigorosa, la cultura attorno a un dato tema.

Questa non è solo materia di storici dell’arte e addetti al settore. Non è una disputa che si gioca tra le sale di un museo e le aule di un’università. Le questioni qui poste riguardano la cittadinanza tutta, nella sua identità e nel suo diritto costituzionale di accesso all’istruzione. È possibile, dopo anni di retorica dell’“industria culturale”, di “Italia S.p.A.”, chiedere mostre che soddisfino quel bruciante bisogno di cultura, con cui tanti si riempiono la bocca? È possibile pretendere eventi culturali all’altezza del loro nome? Che sappiano stimolare la riflessione, favorire il pensiero critico, invece che anestetizzare sguardi e menti pur di batter cassa? O dovremo ancora accontentarci di sudari, candele e viole, che con le loro tronfie presenze né affascinano, né incidono?


“I Pittori della Luce. Da Caravaggio a Paolini”
Cavallerizza di Lucca, Piazzale Verdi
(ingresso da Porta Sant’Anna)

fino al 2 ottobre 2022

Catalogo Casa editrice Contemplazioni, 2021

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Gianmarco Gronchi

è studente magistrale di Storia e critica d’arte, da qualche anno trapiantato a Milano.

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