Se Firenze muore

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Delle migliaia di visitatori che ogni giorno, anche in tempi di Covid, affollano le gallerie degli Uffizi, tutti si soffermano in estasi di fronte alla muta magniloquenza delle Maestà di Giotto e Cimabue, nelle sale riallestite di Michelangelo e Leonardo o davanti al «torpido e assonnato garzone d’osteria romanesca, incoronato a caso da pampini d’ogni colore» del Caravaggio.
Ognissanti Firenze
Il grande affresco dell’Ultima Cena di Domenico Ghirlandaio, (1480) nel Cenacolo di Ognissanti.

In pochi invece sapranno che, attraversato appena Ponte Vecchio, è possibile ammirare, gratuitamente, la Deposizione del Pontormo, vertice del manierismo fiorentino conservato nella chiesa di Santa Felicita. E sempre pochi saranno a conoscenza della chiesa di Ognissanti, a pochi passi dagli Uffizi. Anch’essa gratuita e anch’essa scrigno di tesori inestimabili, dal Crocefisso di Giotto agli affreschi di Botticelli e Ghirlandaio, da Santi di Tito al soffitto settecentesco affrescato da Giuseppe Romei. Per non parlare del refettorio, dove si conserva il Cenacolo del Ghirlandaio. Luoghi, questi, disertati dai turisti e abbandonati dalle amministrazioni, troppo impegnate a fare cassa con i biglietti dei musei o con “mostre” acchiappapubblico. Come spiegare, altrimenti, lo stato di totale abbandono in cui versano il chiostro e il refettorio di Ognissanti?
Si noti, a questo proposito, che l’apertura di tali luoghi, a dispetto di quello che dicono i siti internet, è limitata al sabato e alla domenica mattina, ed è resa possibile solo grazie ai volontari del FAI, costretti a elemosinare qualche offerta dai pochi visitatori che arrivano. Stupendo – e come negarlo? – il Cenacolo del Ghirlandaio, capolavoro su cui dovette meditare il giovane Leonardo, ma quanto sconcerto nel vedere, nel chiostro che dà accesso al refettorio, gli ammalorati affreschi seicenteschi di Jacopo Ligozzi e Giovanni da San Giovanni. Calcine scrostate e colori che vanno spegnendosi e che passano, però, quasi in secondo piano quando ci si accorge che l’androne che immette sulla piazza antistante è diventato luogo in cui vengono accatastati carrelli con lenzuola e federe sporche di un hotel, che ha sede nello stesso complesso.
Uno scenario certo grottesco, ma d’altronde si sa che, nell’Italia in cui si parla di patrimonio artistico solo come miniera sommersa da cui dover ricavare fonti di introito, ciò che non fa soldi non è cultura e quindi non è degno di essere pubblicizzato né, tanto meno, restaurato.

Con questa logica, in cui tutto deve essere monetizzato, in cui tutto deve diventare forma di guadagno, si perde però di vista lo scopo del contesto culturale che ci circonda. È impensabile che un qualsiasi museo o luogo d’arte sopravviva solo grazie alle proprie entrate. È invece doveroso prendere coscienza che la ricchezza che deriva da un sito come quello di Ognissanti, per esempio, non è quantificabile in cifre, poiché l’arricchimento in questo caso è, prima di tutto, culturale.

Il discorso non migliora, anzi, forse si aggrava, laddove si prenda in esame il rapporto che Firenze ha con il contemporaneo. Se il museo del Novecento appare un’istituzione troppo debole nella città di Palazzo Pitti, degli Uffizi o della Galleria dell’Accademia, di certo la bellissima (e privata) collezione Casamonti in Palazzo Salimbeni non basta a (ri)avviare un discorso serio sull’arte contemporanea.
E nonostante qualche bella mostra a Palazzo Strozzi – perlomeno interessanti, ma non esenti da critiche, le retrospettive su Abramovic e Goncharova –, il “mostrificio”, usando parole di Montanari, continua a produrre eventi aberranti come BANKSY. This is not a photo opportunity, andata in scena poco più di un anno fa a palazzo Medici-Riccardi. Mostra raffazzonata e superflua, che sfruttava lo scalpore del quadro autodistruttosi in asta da Sotheby’s e per cui, tra l’altro, era stato istituito un sovrapprezzo obbligatorio sulla normale tariffa d’ingresso all’edificio rinascimentale.
In questo modo, chi si recava a vedere la Cavalcata dei Magi di Benozzo Gozzoli o gli affreschi di Luca Giordano – quelli sì capolavori – si trovava costretto a pagare anche per una mostra, francamente, da evitare.

Grida vendetta la chiesa romanica di Santo Stefano al Ponte, sconsacrata e da anni in mano a privati, costretta a ospitare eventi come Inside Magritte. Emotion exhibition, ancora, purtroppo, visitabile, nel momento in cui si scrive. La retorica che anima questi experience, questi grandi carrozzoni del nulla, come nota Jacopo Stoppa, è quella del “si vede di più”, “così si spiega meglio il quadro”, “vi si entra dentro”.
Ma non bastano schemi retroilluminati o proiezioni immersive per spiegare i valori e i significati di un artista. In questo modo, non solo la comunità perde una delle sue chiese a favore di eventi che nulla aggiungono a una corretta lettura storico-artistica, ma il pubblico, attratto da nomi altisonanti, si ritrova immerso in uno scintillio di luci, di colori e di suoni, ma senza poter capire, senza che gli siano dati gli strumenti per una più profonda comprensione dell’opera d’arte. Che significa, poi, più profonda comprensione di sé stessi e del tempo in cui si vive.

Con questo non si vuol dire che una città come Firenze debba crogiolarsi nell’algida contemplazione del passato, anzi, tutt’altro. Il passato deve invece essere spunto per un rinnovato sguardo sul presente, per una lettura dell’oggi che tenga presente la storia di ieri. Per questo motivo, da un lato i monumenti e le architetture antiche, di cui Firenze è piena, dovrebbero essere non solo preservati, ma restituiti ai cittadini, ponendo le basi per una cultura libera. Dall’altro, l’arte contemporanea dovrebbe prendere coraggiosamente coscienza di essere grande abbastanza per reclamare spazi propri. Il che non vuol dire appropriarsi delle piazze e dei palazzi rinascimentali, ma portare l’arte dove ancora l’arte non c’è: nelle periferie, nelle aree più degradate, per offrire una visione nuova del mondo e un diverso modo di intendere la città e i luoghi in cui si svolge la nostra esistenza. Poi: ben vengano le mostre di Palazzo Strozzi, per esempio, purché fatte con criterio. E ben vengano anche i dialoghi tra passato e presente, i così detti crossover, che devono però essere meditati e motivati. Perché il dialogo sia proficuo in termini culturali, infatti, c’è bisogno di «un confronto consapevole e misurato degli stessi artisti con il patrimonio storico, che porta alla creazione di opere concepite ad hoc», per usare le parole di Vincenzo Trione.
È per questo motivo che la scultura Big Clay #4 di Urs Fischer sembrava più un arredo urbano – per altro di pessimo gusto, a parere di chi scrive – buono solo a oscurare la magnifica veduta di Piazza della Signoria con la Loggia dei Lanzi, che non un’opera d’arte contemporanea. Per questo stesso motivo gela il sangue vedere, proprio in questi giorni, Dario Nardella ed Eike Schmidt cavalcare felicemente i lupi dell’artista cinese Liu Ruowang, che, inseriti in maniera scellerata nel tessuto urbano, hanno sbranato la suggestiva ariosità scenografica di Palazzo Pitti. Nessun dialogo formale, nessun pretesto tematico che possa legittimare simili installazioni. Assenze, queste, che pesavano anche sulle opere di Koons, Fabre e Paresce, pensate per altri contesti e schiaffate arbitrariamente nei luoghi cardine del capoluogo toscano.
Come fa notare anche Montanari, infine, si deve prendere coscienza del fatto che tutte queste operazioni, mascherate col motto di “Firenze non è solo Rinascimento”, celano in sé la strumentalizzazione senza freni di quel passato che invece si dice di voler superare. Un passato che, invece di far dialogare con gli artisti dell’oggi, si relega a cornice di lusso, da riallestire ciclicamente, dando così la legittimazione necessaria a operazioni povere sotto il profilo culturale e discutibili sotto quello morale.

In questo senso, Firenze sta morendo e nel morire sta diventando una città-vetrina, in cui si paga per una ventata d’estetismo, senza che ci venga offerta la possibilità di crescere dal punto di vista culturale e conoscitivo. Perché se il contesto di una città come Firenze viene smembrato, se si preferisce organizzare mostre inutili piuttosto che valorizzare una chiesa o un edificio storico, se si opera nell’ottica di monetizzare il patrimonio che ci è stato consegnato invece di renderlo terreno fertile su cui poter educare le generazioni di domani, allora moriamo anche noi e la nostra capacità di comprendere. Con Firenze, muore la possibilità di essere cittadini e uomini liberi e consapevoli del mondo, nel mondo. Il rischio è quello di passeggiare un giorno nelle gallerie sempre più dorate degli Uffizi, sempre più imbellettate e tirate a lucido per il prossimo selfie (Ferragni docet), e non accorgerci che un Michelangelo, un Leonardo, un Raffaello, avrebbero ancora tanto da dirci, ma non siamo più in grado di ascoltarli.

Sorridere, infine, e non capire più nulla.

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Gianmarco Gronchi

è studente magistrale di Storia e critica d’arte, da qualche anno trapiantato a Milano.

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