Scuola: il pianeta disagio

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La scuola si trova ad affrontare situazioni spesso problematiche e complesse. Tra queste il disagio occupa uno dei primi posti di una ipotetica “graduatoria”; la sua pervasività fa sì che ne siano coinvolti sia gli studenti sia tutti i soggetti che, a vario titolo, offrono il loro contributo allo sviluppo del processo educativo.

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Il pedagogista Bruno Ciari definì la scuola degli anni Settanta “la grande disadattata”; oggi può essere definita “la grande disagiata”, ovvero una scuola che non “vive” e che viene messa in condizione di “non vivere” un’esperienza positiva tale da permetterle di esprimere a pieno le proprie potenzialità al fine di essere un autentico “ambiente per l’apprendimento”. Mancini e Gabrielli (1998) definiscono il disagio come “uno stato emotivo, non correlato significativamente a disturbi di tipo psicopatologico, linguistici o di ritardo cognitivo, che si manifesta attraverso un insieme di comportamenti disfunzionali (scarsa partecipazione, disattenzione, comportamenti prevalenti di rifiuto e di disturbo, cattivo rapporto con i compagni, ma anche assoluta carenza di spirito critico), che non permettono al soggetto di vivere adeguatamente le attività di classe e di apprendere con successo, utilizzando il massimo delle proprie capacità cognitive, affettive e relazionali”. Anche questa definizione chiarisce i motivi per i quali il disagio ha una forte pervasività e, quindi, occorre che i docenti siano molto attenti a osservare i propri alunni al fine d’individuare le cause reali della situazione di disagio nella quale alcuni di essi si trovano.

Può succedere, per esempio, che un alunno poco partecipe alle lezioni non sia svogliato, ma che presenti delle difficoltà o dei disturbi di apprendimento che lo demotivano, che lo scoraggiano; oppure quando l’alunno si rende conto che non riesce a seguire le lezioni, si distrae, partecipa poco e questo comportamento può essere ritenuto dall’insegnante segno di negligenza. Spesso nell’alunno ritenuto genericamente poco adatto all’impegno scolastico (un tempo stigmatizzato con l’espressione “braccia sottratte all’agricoltura”) sono presenti più impedimenti, più disturbi (comorbilità) che gli impediscono di collaborare come e quanto vorrebbe. L’alunno diviene ribelle, contestatore, confusionario; stuzzica continuamente i compagni e spesso è un soggetto che a causa delle difficoltà nel leggere e nello scrivere (soprattutto) reagisce in modo negativo alla situazione di disagio nella quale viene a trovarsi.

Oppure può essere un alunno che tende al silenzio, che si isola, che dice sempre che va tutto bene, ma si confronta poco con il gruppo classe e non ama stare con gli altri anche fuori dal contesto scuola. Questi alunni, spesso, assumono comportamenti particolari: si dondolano sulla sedia, giocherellano con una penna, scarabocchiano un foglio. Chi compie simili gesti mette in atto una sorta di “senso ritmico” che lo aiuta nella concentrazione e nell’attenzione e quindi nel seguire meglio l’attività che sta svolgendo. Le diverse manifestazioni descritte rivelano la marcata eterogeneità dei profili dei DSA tracciabili e ciò comporta significative ricadute sulle indagini diagnostiche.

Secondo il DSM IV, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, la dislessia è un disturbo della lettura che si manifesta in individui in età evolutiva privi di deficit neurologici, cognitivi, sensoriali e relazionali e che hanno usufruito di normali opportunità educative e scolastiche. Più precisamente la dislessia è la difficoltà del controllo del codice scritto, difficoltà che riguarda la capacità di leggere e scrivere in modo corretto e fluente, che può essere notata fin dall’ultimo anno della scuola dell’infanzia (se si svolgono esercizi di prelettura e prescrittura) o nella classe prima della scuola primaria. La difficoltà di lettura può essere più o meno grave e spesso si accompagna a problemi nella scrittura: disortografia (cioè una difficoltà di tipo ortografico) e disgrafia (difficoltà nel movimento finomotorio della scrittura), nel calcolo e, talvolta, anche in altre attività mentali. Tali disturbi non sempre vengono rilevati proprio perché mascherati dall’esuberanza o, al contrario, dal disinteresse per le attività che vengono presentate; a un’attenta osservazione, però, non dovrebbero sfuggire dati significativi che favorirebbero un intervento precoce finalizzato alla riduzione delle lacune individuate.

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Ciò che caratterizza un alunno con disturbo specifico di apprendimento è la presenza di un impaccio considerevole nello svolgimento di tutte quelle attività che richiedono un’integrazione di più competenze di base; è proprio l’intreccio di capacità diverse che mette a dura prova il soggetto nel suo processo di apprendimento scolastico. Le difficoltà potrebbero comparire nel corso dei primi anni della scuola dell’infanzia e persistere negli anni seguenti.Per entrare nel dettaglio, alcuni degli errori caratteristici che denotano la presenza di difficoltà/disturbi della lettura e della scrittura sono: l’inversione di lettere e numeri (legge “al” invece di “la” e “51” anziché “15”); la sostituzione di suoni vicini come m/n (“mano” anziché “nano”), f/v (“foce”anziché “voce”), t/d (“tue” anziché “due”), s/z (“Sara”anziché “Zara”), c/g (“care” anziché “gare”), p/b (“palla” anziché “balla”); la sostituzione di suoni scritti in modo simile come m/n dove la differenza fra i due caratteri è solo una gambetta (“muovo” anziché “nuovo”); n/u dove la lettera è ribaltata (“nova” anziché “uova”); p/q/d/b (“quove” anziché “dove”; “paro” invece di “baro”; “dalla” anziché “palla”).

Questo è solo un breve elenco di errori tipici nei cui confronti si adottano strategie d’intervento mirate che sono il risultato di un’attenta osservazione a seguito della quale il docente curricolare consiglia ai genitori dell’alunno di ricorrere all’équipe di professionisti dell’ASL (neuropsichiatra, psicologo, logopedista e pedagogista) per poter adottare le giuste strategie d’intervento. La diagnosi precisa di DSA (dislessia, disgrafia, disortografia) può essere effettuata al termine della seconda classe della scuola primaria, mentre la diagnosi di discalculia è possibile alla fine della frequenza della terza classe della scuola primaria. La Consensus Conference del dicembre 2010 ha sostenuto che un’anticipazione eccessiva della diagnosi potrebbe aumentare la rilevazione di falsi positivi, ma consentirebbe d’individuare per tempo fattori di rischio e indicatori di ritardo di apprendimento e di approntare le strategie d’intervento.

L’iter diagnostico è costituito da due fasi: 1) l’applicazione del protocollo standard con l’obiettivo di verificare la presenza o meno di patologie neurologiche, di patologie primarie, di deficit uditivi o visivi. 2) valutazione neuropsicologica con prove standardizzate al fine di definire una diagnosi di esclusione/inclusione della sindrome dislessica e tramite l’applicazione del protocollo definire il profilo e il progetto riabilitativo. La diagnosi si basa essenzialmente sul criterio di discrepanza e su quello di esclusione: discrepanza significa che non c’è corrispondenza tra l’intelligenza del bambino e i risultati che ottiene a scuola; esclusione significa che è possibile diagnosticare la presenza di DSA poiché si è esclusa la presenza di altre patologie, ma l’alunno non riesce ugualmente ad apprendere a leggere e scrivere. L’intervento della scuola deve mirare a realizzare le condizioni per consentire all’allievo con dislessia di accedere ai significati del testo e raggiungere gli obiettivi di apprendimento nel modo in cui le sue potenzialità cognitive glielo consentono.

La ricerca del miglioramento della padronanza delle abilità strumentali deve essere condotta nei limiti di ciò che è modificabile attraverso l’insegnamento e l’apprendimento; ciò che non è modificabile va corretto con l’adozione di strumenti e misure di tipo compensativo e dispensativo; l’intervento deve mettere a fuoco le potenzialità, non le difficoltà.Quando l’alunno non è “certificato” (vale a dire esaminato dai componenti l’équipe dell’ASL che certificano la presenza del disturbo), l’intervento metodologico-didattico viene effettuato dai soli insegnanti curricolari i quali, sulla base della loro esperienza e della conoscenza dei problemi legati alla presenza dei disturbi dell’apprendimento, elaborano e applicano le strategie d’intervento adeguate alla soluzione di quel determinato caso. Nel caso sia certificato, invece, l’intervento metodologico-didattico viene realizzato dall’insegnante di sostegno e da quello curricolare sulla base delle indicazioni fornite dallo specialista.

Lo stabilire chi deve gestire in classe l’intervento nei confronti di un alunno con DSA certificato rappresenta un problema molto controverso in quanto molti insegnanti curricolari ritengono che spetti loro tale gestione; altri, invece, ritengono che occorra la compresenza dell’insegnante di sostegno specializzato sui DSA; oppure che sia lo specialista dell’ASL a fornire all’insegnante le indicazioni da seguire per organizzare l’intervento. Questo deve mirare a realizzare le condizioni per consentire all’allievo con dislessia di accedere ai significati del testo e raggiungere gli obiettivi di apprendimento nel modo in cui le sue potenzialità cognitive glielo consentono.

L’intervento precoce favorisce l’instaurarsi delle strategie adeguate; impedisce che si accresca il divario tra le prestazioni dell’alunno con DSA e quelle del gruppo classe; evita la perdita di motivazione; permette l’acquisizione di un’adeguata autostima personale impedendo il manifestarsi di sensi d’inadeguatezza e d’inferiorità. Gli insegnanti rivestono, comunque, un ruolo fondamentale per l’individuazione dei DSA e, quando questi siano riconosciuti, nella costruzione di una didattica che possa favorire lo sviluppo di abilità di compensazione, rispettosa dei diversi stili cognitivi.

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Ugo Avalle

Pedagogista-formatore e docente a contratto presso l’Università degli studi di Torino.

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