Questioni di lingua e di vita in un presente (iper)complesso

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Una riflessione sulla necessità (sia a scuola sia fuori dalla scuola) del pensiero metalinguistico, per gestire le crescenti difficoltà comunicative date dal continuo incontro con le diversità: per una complessificazione della conoscenza, che deve diventare più critica, più argomentata, meno trasmessa “così com’è” e più ragionata. Una “chiamata alle armi” alla quale, da educatori e genitori, dobbiamo rispondere.
Le programmatrici dell’ENIAC, il primo computer della storia, 1946. In quegli anni la programmazione era considerata un’occupazione prettamente femminile.

Da molti anni, confrontandomi con i miei studenti universitari – e con quelli più giovani, incontrati in centinaia di incontri che ho potuto fare nelle scuole d’Italia – ho la percezione che, durante il percorso degli studi obbligatori, si ragioni poco o niente sulla rilevanza della competenza linguistica; in altre parole, a parte alcune eccezioni, solitamente si fa moltissimo esercizio “tecnico” (ortografia, sintassi, morfologia, ecc.) e poca riflessione metalinguistica. Rilevo, ad esempio, una bassa consapevolezza sia dei meccanismi di funzionamento del codice linguistico sia degli scopi della lingua, che possono essere sintetizzati in tre funzioni principali: quella di atto di identità individuale («Io sono le parole che uso»), quello di atto di identità collettivo («Identifico la mia appartenenza a una determinata tribù grazie alla lingua che impieghiamo»), quello di concettualizzazione del mondo («L’essere umano nomina il mondo e, in questo modo, lo comprende meglio ed è in grado di parlarne, senza fermarsi a ciò che è immanente»)[1]. Queste nozioni non dovrebbero essere considerate ancillari al resto, perché solo partendo da una sana e robusta (auto)consapevolezza linguistica si può, a mio avviso, abbracciare la complessità del sapere linguistico, molto spesso limitato a una percezione monolitica, bianca/nera, della propria lingua madre.

Non è un caso se già vent’anni fa Alberto Sobrero si lamentava della scarsa mobilità di registro esibita dalla maggior parte dei suoi studenti: «Quando si fa notare a un ragazzo che menare le mani non è un’espressione adatta a un articolo di giornale o a un verbale di polizia, la sua reazione – se non è di compunzione servile – è di sincero stupore. Per lui – o lei – si dice e si scrive “menare le mani”: sempre, dovunque e con chiunque»[2]. Eppure, ci ricorda Luca Serianni[3], «Ogni parlante madrelingua parla nelle varie situazioni quotidiane con assoluta naturalezza, come quando respira o deglutisce, senza porsi il problema del “come si dice” […] Ma non parliamo sempre in condizioni di spontaneità: possiamo trovarci a sostenere le nostre ragioni in un contesto formale e tendenzialmente ostile (un esame, un colloquio di lavoro, un interrogatorio di polizia). Allora diventa decisivo non solo che cosa diciamo, ma anche come: la strategia espositiva, il lessico scelto, il controllo della gittata periodale, e magari la mimica, la prossemica, l’abbigliamento». Non basta, insomma, saper parlare e scrivere bene, “secondo la norma”; è altrettanto importante sapersi adeguare: al contesto, all’interlocutore, alle finalità comunicative.

Personalmente, ritengo che l’enfasi sulla “tecnica della lingua” fosse necessaria e sufficiente finché il primo scopo era quello di arrivare all’italofonia e, contemporaneamente, la realtà e la società in cui vivevamo era relativamente meno complessa di oggi: in fondo, si poteva vivere tutta una vita senza incontrare mai davvero la diversità, se non in determinati momenti[4]. Al progressivo complessificarsi della realtà corrisponde, invece, anche una complessificazione della conoscenza, che dovrebbe diventare non tanto più vasta in termini di nozioni, quanto più critica, più argomentata, meno perpetuata, meno trasmessa “così com’è” e più ragionata. Questa, a mio avviso, è la grande “chiamata alle armi” alla quale, da educatori e genitori, dobbiamo rispondere[5].

Ci stiamo, credo, accorgendo sempre più di come la scuola sia spesso un passo indietro rispetto al presente e al futuro al quale dovrebbe preparare i propri discenti. Questo, da un lato, è inevitabile, dato che chi oggi insegna si è formato su paradigmi cognitivi di almeno un decennio fa, normalmente anche di più; in aggiunta, la distanza intergenerazionale è sicuramente aumentata a causa delle “nuove tecnologie” (che ormai tanto nuove non sono).
Un modo particolarmente cruento (e scandaloso) tramite il quale emerge questo disallineamento sono le numerose segnalazioni di testi presenti in libri scolastici, che spesso perpetuano – in larga parte involontariamente – stereotipi (etnici, di genere ecc.) creando sconcerto nel largo pubblico, che ovviamente, come da manuale, chiede la testa di qualche “colpevole”, che siano l’autore, la casa editrice o addirittura i docenti che hanno adottato il libro lasciandosi sfuggire una tale “indecenza”: l’“odio dei giusti” è davvero una delle grandi questioni del presente[6]. Ricordo, giusto per fare qualche esempio, il caso della mamma che stira e cucina e del papà che lavora e legge[7] o quello del bambino nero che dice “Quest’anno io vuole imparare italiano bene”[8]. In entrambi i casi, non occorre pensare a misoginia o razzismo espliciti e volontari, quanto piuttosto alla riproposizione di pregiudizi così radicati nella nostra società da passare, agli occhi di molti, come “normalità”. Certo, è particolarmente grave che la stereotipia compaia proprio nei libri su cui studiano le nuove generazioni, la cui coscienza sociale e politica (nel senso ampio di “appartenenza alla polis”) è tutta da formare e rischia, per l’appunto, di plasmarsi su presupposti vetusti.

Uno degli argomenti sicuramente più discussi di questi mesi è quello delle questioni linguistiche di genere; ed è interessante notare che anche in questo caso si possono individuare due “movimenti” apparentemente contrapposti: quello di chi chiede di riservare particolare attenzione a queste istanze, considerate da molti spie (se non addirittura portatrici) di dissimmetrie sociali, e quello di quasi totale disinteresse nei confronti di queste istanze, che spesso vengono ritenute del tutto superate soprattutto dai più giovani, dai discenti stessi. Diciamo che l’uguaglianza di genere viene da molti data come assodata («Ma noi ormai siamo fluidi, prof, non ci importa niente di maschio o femmina o altro»); peccato che tale presupposto è spesso destinato a venire smontato nel momento dell’immissione nel mondo del lavoro, nel quale sopravvivono molte disuguaglianze, non solo in termini retributivi ma soprattutto rispetto alle possibilità aperte a ragazzi e ragazze.

Più nello specifico, l’argomento di cui mi occupo spesso in prima persona, quello dei nomina agentis al femminile (ministra, assessora, questora, ma pure minatrice o agricoltrice) è affetto da tale doppio movimento: molte sono le persone che lo ritengono di importanza capitale, e altrettante sono quelle che invece alzano gli occhi al cielo commentando con una dose di benaltrismo («I problemi delle donne sono ben altri») o sollevando eccezioni molto spesso di rilevanza reale (o meglio, scientifica) assai marginale («Suonano male», «Sono una corruzione dell’italiano», «Storicamente non esistono», «Le cariche sono neutre»).

Se l’argomento fosse solo di natura linguistica, sarebbe semplice e immediato spiegarlo collocandolo correttamente sia in diacronia che in sincronia. Da una parte, infatti, uno sguardo alla storia del latino prima e della nostra lingua poi conferma che i nomi di agente al femminile compaiono in maniera piuttosto regolare tutte le volte che in un dato contesto lavorativo compariva una donna (non a caso, il tanto vituperato ministra non solo esisteva già nel latino classico, ma la sua rilevanza storica è tale da essere lemmatizzato a parte in Treccani[9]). Dall’altra, l’analisi dei meccanismi morfologici della nostra lingua (con la macrodivisione in sostantivi di genere fisso, comune, promiscuo e mobile e con il conseguente diverso comportamento nella creazione dei femminili[10]) e una riflessione sulla necessità di una lingua viva di rispecchiare fedelmente le caratteristiche della società e della cultura in cui è calata (a più donne in ruoli professionali tradizionalmente maschili corrisponde un maggior uso di nomina agentis al femminile) sono ampiamente sufficienti per giustificare e spiegare il funzionamento dei femminili professionali.

Appare evidente che la questione non sia prettamente linguistica, a questo punto, ma principalmente sociale e culturale. Eppure, l’uso dei femminili di professione non è irrilevante. Come ci ricorda Cecilia Robustelli[11], «Un uso più consapevole della lingua contribuisce a una più adeguata rappresentazione pubblica del ruolo della donna nella società, a una sua effettiva presenza nella cittadinanza e a realizzare quel salto di qualità nel modo di vedere la donna che anche la politica chiede oggi alla società italiana. È indispensabile che alle donne sia riconosciuto pienamente il loro ruolo perché possano così far parte a pieno titolo del mondo lavorativo e partecipare ai processi decisionali del paese. E il linguaggio è uno strumento indispensabile per attuare questo processo: quindi, perché tanta resistenza a usarlo in modo più rispettoso e funzionale a valorizzare la soggettività femminile?». Se è vero che ciò che viene nominato si vede meglio, come mai tanta resistenza, davvero?

Le questioni sono varie. Da una parte, sopravvive la convinzione diffusa che le leggi linguistiche siano incise nella pietra, e che i femminili professionali entrerebbero in collisione con tali norme. Accanto a questa, è radicata l’idea che esistano enti come l’Accademia della Crusca preposti a vigilare e legiferare sull’italiano, così come un vocabolario e una grammatica ufficiali della nostra lingua. Al momento non esiste nulla di tutto questo, e la nostra lingua, in un certo senso, si “autoregola”, soprattutto per rimanere aggiornata rispetto alla realtà che deve rispecchiare (pena la decadenza ed eventualmente la morte[12]); del resto, come abbiamo visto, i femminili professionali sono perfettamente in linea con la norma dell’italiano; questo mi spinge addirittura a dire, in maniera un po’ provocatoria, che la vera posizione ideologica è quella di usare il maschile là dove il sistema dell’italiano prevederebbe l’uso del femminile. Allo stesso modo, è fuori strada anche chi teorizza il mito della purezza della lingua italiana, dato che non solo l’italiano è crocevia di influssi esogeni ed endogeni a causa della posizione geografica dello Stivale, ma è anche una lingua particolarmente vitale che ha dimostrato, nel corso degli ultimi sessant’anni (da quando è de facto lingua degli italiani) grandi capacità di adattamento a contesti e mezzi di comunicazione nuovi; non è un caso se Tullio De Mauro amava spesso dire che l’italiano sta benissimo, e che casomai sono gli italiani ad avere una salute “culturale” un po’ cagionevole[13].

Per quanto riguarda il benaltrismo, occorre di certo tenere conto del fatto che i problemi delle donne sono molti; anzi, direi che in una società viziata da caratteristiche patriarcali non sono solo le donne a soffrire, ma anche gli uomini, dai quali ci si aspetta una serie di comportamenti altrettanto stereotipati quanto quelli femminili. In tutto questo, può sembrare davvero superfluo o superficiale occuparsi di parole; se non che, occorre ricordare che le parole non sono quasi mai “solo” parole, ma sono piuttosto dei ganci che si portano dietro veri e propri grappoli di significati, di relazioni, di visioni della realtà e di connotazioni. Quando guardiamo alla lingua, alle parole, da un punto di vista relazionale, si comprende anche più facilmente come queste abbiano una loro effettiva rilevanza nei discorsi vòlti alla parità di genere. E a proposito di “relazionalità” della parola, questo è quanto scrive Robert Bringhurst: «Lascia cadere una parola nell’oceano del significato e si formeranno delle increspature concentriche. Definire una singola parola significa cercare di catturare quelle increspature. Nessuno ha mani così veloci. Ora lascia cadere due o tre parole alla volta. Le increspature interferiscono tra loro, qui rinforzandosi, là cancellandosi a vicenda. Catturare il significato delle parole non vuol dire catturare le increspature che queste provocano; significa catturare l’interazione tra queste increspature. Questo è il significato della parola ascoltare; questo è il significato della parola leggere. È un processo estremamente complesso, eppure gli esseri umani lo compiono quotidianamente e molto spesso, allo stesso tempo, ridono e piangono»[14].

Un altro errore prospettico che si fa spesso è quello di tarare la questione sulla propria esperienza; càpita che sia maschi sia femmine dicano «a me discriminazioni del genere non sono mai capitate» o altre frasi simili. Ora, tentando la strada del ragionamento scientifico, è sempre ingannevole rifarsi al proprio “esperito”; ma del resto, bisogna pur ricordare come sia difficile comprendere per davvero le vittime, soprattutto in casi che per molti non sembrano per nulla degni di attenzione – nei quali, di conseguenza, viene pure negata l’esistenza di un’eventuale vittima. Minimizzare, non ascoltare le istanze di chi si sente ferito da un certo comportamento linguistico è una tendenza alla quale occorre resistere, passando invece all’ascolto attivo. Al di là di ciò che ci può essere successo personalmente, pensiamo allargando il campo agli altri e alle altre[15].

Questo invito non è rivolto solo ai maschi, ma anche alle femmine; a queste chiederei, in prima persona, di fermarsi a riflettere sulle motivazioni che si danno per preferire, nel caso, l’uso del nomen agentis al maschile. Alcune, infatti, affermano cose come «Ho lavorato tanto per avere il titolo di x, adesso non voglio slavarlo con il femminile», dimostrando così di essere le prime a pensare che il femminile sia svilente, in un evidente problema di autopercezione. Altre temono invece di passare da “femministe” qualora insistessero per il femminile, dove “femminista” è ovviamente usato in un’accezione negativa; una connotazione che, ovviamente, non condivido. E non è nemmeno una questione di “politicamente corretto”: da quando in qua può essere definito politicamente corretto chiamare le cose con il loro nome[16]?

Da educatrice e da madre di una giovane donna di tredici anni, vedo una strada preferenziale per il nostro futuro, linguistico e socioculturale: quella della problematizzazione delle nozioni e dell’esercizio argomentativo, nel settore delle questioni di genere come in altri. Lungi dal ritenere buona e giusta l’imposizione di determinati costumi linguistici («Devi dire sindaca altrimenti ti dimostri una vittima del patriarcato introiettato»), consiglio di partire da una serie di scelte personali; una sorta di ecologia della comunicazione esercitata nel quotidiano, nelle piccole questioni che ci tangono giorno dopo giorno, cercando, al contempo, di smontare gli stereotipi e i preconcetti ai quali tutti, inevitabilmente, siamo esposti più o meno consciamente.

In un mondo che vorrebbe certezze, la strada del recupero del valore generativo del dubbio mi pare quella più immediata per iniziare un vero cambiamento, linguistico, cognitivo ed esistenziale. Mi viene da citare, come nume tutelare, Gianni Rodari, grande cantore del cambiamento linguistico “destrutturato”, fuori dalle aule, e della sua poesia Una scuola grande come il mondo. 

C’è una scuola grande come il mondo.

Ci insegnano maestri e professori,

avvocati, muratori,

televisori, giornali,

cartelli stradali,

il sole, i temporali, le stelle.

Ci sono lezioni facili

e lezioni difficili,

brutte, belle e così così…

Si impara a parlare, a giocare,

a dormire, a svegliarsi,

a voler bene e perfino

ad arrabbiarsi.

Ci sono esami tutti i momenti,

ma non ci sono ripetenti:

nessuno può fermarsi a dieci anni,

a quindici, a venti,

e riposare un pochino.

Di imparare non si finisce mai,

e quel che non si sa

è sempre più importante

di quel che si sa già.

Questa scuola è il mondo intero

quanto è grosso:

apri gli occhi e anche tu sarai promosso!

G. Rodari, Il libro degli errori, Einaudi, Torino 1964


Note

[1] Cfr. F. Faloppa, Brevi lezioni sul linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 2018, pp. 16-35.

[2] A. Sobrero, 2003, Nell’era del post-italiano, «Italiano & Oltre», 18, 5, p. 272-277.

[3] Sul sito dell’Accademia della Crusca in un articolo intitolato La norma linguistica, consultabile online all’indirizzo https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/la-norma-linguistica/7384.

[4] V. Gheno, B. Mastroianni, Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello, Longanesi, Milano 2018, pp. 174-175.

[5] Su questo, consiglio la lettura di P. Dominici, Dentro la società interconnessa. La cultura della complessità per abitare i confini e le tensioni della civiltà ipertecnologica, FrancoAngeli, Milano 2019, e di G. Xhaet, #Contaminati: Connessioni tra discipline, saperi e culture, Hoepli, Milano 2020.

[6] Cfr. V. Gheno, Se gli hater siamo (anche) noi: gli errori comuni su social e giornali , su «Agenda Digitale», 16 luglio 2020, consultabile all’indirizzo https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/gli-hater-siamo-anche-noi-la-piaga-del-noivoismo-spiegata-bene/).

[7] Cfr. l’articolo apparso su «La Repubblica» e consultabile all’indirizzo https://www.repubblica.it/scuola/2019/02/26/news/stereotipi_sessisti_libro_scuola_elementare-220214615/).

[8] Cfr. l’articolo apparso su «Il Giornale» e consultabile all’indirizzo https://www.ilgiornale.it/news/cronache/io-vuole-imparare-italiano-vignetta-col-bimbo-nero-sul-bimbo-1892540.html.

[9] Si veda il lemma “ministra” sul vocabolario online Treccani, consultabile all’indirizzo https://www.treccani.it/vocabolario/ministra/; cfr. V. Gheno, Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole, EffeQu, Firenze 2019, pp. 33-48.

[10] Cfr. https://dizionaripiu.zanichelli.it/cultura-e-attualita/le-parole-del-giorno/parola-del-giorno/femminile/.

[11] Cfr. l’articolo apparso sul sito dell’Accademia della Crusca e consultabile all’indirizzo https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/infermiera-si-ingegnera-no/7368.

[12] Cfr. Faloppa, Brevi lezioni sul linguaggio cit., pp. 45-51.

[13] Cfr. ad es. A. Testa, Italia dealfabetizzata, ma l’italiano sta bene. Lo dice Tullio De Mauro, apparso su «Nuovo e Utile» il 6 ottobre 2014, consultabile all’indirizzo https://nuovoeutile.it/italia_dealfabetizzata/.

[14] R. Bringhurst, La forma solida del linguaggio, ed. it. a cura di L. Passerini, Edizioni Sylvestre Bonnard, Milano 2006, originale The Solid Form of Language, Gaspereau Press, Kentiville 2004.

[15] F. Faloppa, #Odio: manuale di resistenza alla violenza delle parole, UTET, Torino 2020, p. 234 e segg.

[16] Sul politicamente corretto, consiglio la lettura di F. Faloppa, PC or not PC? Some reflections upon Political correctness and its influence on the Italian language, in G. Bonsaver, A.Carlucci, M. Reza (a cura di), Cultural Change Through Language and Narrative: Italy and the USA, Legenda, Oxford 2018; per un approfondimento sulla questione linguistica dei nomina agentis e sulle eccezioni sollevate, cfr. V. Gheno, Ministra, portiera, architetta: le ricadute sociali, politiche e culturali dei nomi professionali femminili, «Linguisticamente», prima parte 25 luglio 2020, consultabile all’indirizzo https://www.linguisticamente.org/nomi-femminili/, seconda parte 27 luglio 2020, consultabile all’indirizzo https://www.linguisticamente.org/nomi-femminili-2/).

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Vera Gheno

sociolinguista e traduttrice dall’ungherese, insegna all’Università degli Studi di Firenze. Autrice di varie monografie divulgative su questioni sociolinguistiche.

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