Le sfide di Dante

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A proposito di lingua, di paladini, e anche di scuola. Dall’Agenda Loescher del settecentenario dantesco.

Come tutte le persone andate a scuola in Italia, ho ristudiato Dante a più riprese, mandando a memoria interi brani della Commedia; come molte di loro, non sono riuscita ad apprezzarlo per davvero finché non ha smesso di essere materia di studio. Di certo, già al tempo conoscevo a mente molti versi, dato che in casa mia venivano spesso usati in maniera proverbiale, magari in modo scherzoso, soprattutto da mio padre (l’ora che volge il disio, ma anche E caddi come corpo morto cade o come sa di sale / lo pane altrui); tuttavia, solo molto più avanti ho iniziato ad apprezzare davvero la Commedia, e soprattutto la sua lingua.

Ho imparato ad amare Dante per la sua sfrontata mancanza di remore linguistiche: prendeva senza timore da altre lingue come il latino (primaio), il francese (dottanza)  o il provenzale (giuggiare); dove non trovava una parola adatta a esprimere quello che voleva, inventava (inluiarsi, inleiarsi, imborgarsi, intrearsi, immillarsi, infuturarsi); non aveva paura di risultare volgare (Ed elli avea del cul fatto trombetta) né di inserire un’intera frase in una lingua di sua completa invenzione (Pape Satàn, pape satàn aleppe!); era un esploratore della terra incognita situata ai confini delle mappe linguistiche.

Mi fa sorridere che oggi il Sommo venga sovente evocato come nume tutelare dai conservatori linguistici, da quelli che inorridiscono ascoltando un pezzo trap perché “così si corrompe la lingua” o innanzi a lockdown perché “bisogna parlare sempre e solo italiano”; da chi ancora oggi, a diciott’anni dalla sua prima apparizione, innalza barricate contro l’“orrendo apericena” e ritiene che i social causino la decadenza dell’italiano. Perché per me la lezione di Dante è l’esatto contrario: è un continuo invito alla sperimentazione senza limiti, allo sberleffo alla tradizione; chiaramente, come diceva Tullio De Mauro, occorre partire da basi linguistiche solide, perché solo una pianta dalle radici profonde può innalzare senza paura le fronde al cielo.

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Vera Gheno

sociolinguista e traduttrice dall’ungherese, insegna all’Università degli Studi di Firenze. Autrice di varie monografie divulgative su questioni sociolinguistiche.

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