L’esotismo, come fatto di cultura e di costume, è legato agli imperialismi europei e alla politica di espansione coloniale perseguita dalla Francia e dall’Inghilterra dai primi decenni dell’Ottocento, e dalla Germania circa quarant’anni dopo, fino al primo conflitto mondiale. La visione del mondo come emporio, come sede di culture e di ricchezze, trovò la sua piena realizzazione nelle grandi Esposizioni che ebbero luogo in Europa e in America nella seconda metà del secolo, verso le quali il pubblico fu attratto non, come nelle fiere e nei mercati, dal bisogno di acquistare, ma dal desiderio di essere educato e divertito. Esse costituivano, da un lato, l’occasione per mostrare ciò che era stato raggiunto, dall’altro per aprire lo sguardo sul futuro e su nuove, ambiziose prospettive.
Nel 1862, a South Kensington, vennero esibiti per la prima volta degli oggetti d’arte giapponesi, e da qui prese il primo avvio il gusto per il “giapponismo” che in Inghilterra si manifestò con qualche ritardo ed ebbe un segno diverso rispetto a quello degli impressionisti francesi. A Parigi fu preminente l’interesse per il segno, la forma, la composizione e l’uso del colore.
Tra molti “scampoli” di giapponismo che caratterizzano la letteratura francese di fine secolo, fa spicco un romanzo frutto di «un’esperienza direttamente vissuta, e perciò attendibile nell’impianto narrativo, nell’ambientazione e nella psicologia dei personaggi» (F. Arzeni), un libro che ebbe uno straordinario successo, da quando fu pubblicato nel 1887 a puntate su «Le Figaro» e che fu a lungo considerato dal grande pubblico una sorta di sintesi di ciò che occorre sapere sul Giappone e sui giapponesi.
Se nel 1886 Loti dà, dunque, alle stampe Pêcheur d’Islande, in cui descrive con grande semplicità la vita dei pescatori bretoni tanto varia e avventurosa, malgrado i suoi piccoli inconvenienti, l’anno seguente sorprende il pubblico francese con Madame Chrysanthème, romanzo giapponese che ebbe un immenso successo librario e fu anche adattato alle scene e dato al Théâtre-Lyrique de la Renaissance di Parigi nel 1893.
Madame Chrysanthème ebbe un gran numero di edizioni e traduzioni che contribuirono a diffondere in tutta Europa i primi cliché sul Giappone, con la sua protagonista, anche grazie a Puccini, trasformata nel modello di donna giapponese, in un parossismo di erotismo accentuato dal dramma dell’abbandono. Loti ebbe molti imitatori, in Francia e fuori di Francia, attratti dal successo dell’opera e fiduciosi che la ripetizione del soggetto assicurasse una ripetizione del consenso, ma nessuno aggiunse alcunché alla conoscenza del Giappone o alla gloria letteraria del suo paese.
Loti compie il suo primo viaggio in Giappone nel 1885 a bordo della Triomphante; all’epoca la Francia deteneva il possesso dell’arcipelago delle Pescadores. Raggiunto un accordo di pace i francesi abbandonano le loro postazioni e nel viaggio di ritorno fanno scalo a Nagasaki. Loti è tra loro. Nella città nipponica trascorre tre mesi, durante i quali raccoglie appunti e impressioni confluite in Madame Chrysanthème e Japoneries d’automne.
Quest’ultimo, al di là di ogni rielaborazione romanzesca, restituisce le reali impressioni di Loti autore a contatto con la realtà del Giappone di fine Ottocento; una realtà in trasformazione, che riserba più delusioni che conferme rispetto all’idea che di questi luoghi si era formato da bambino, affascinato dalla storia, trovata in un libro d’avventura non meglio precisato, dei quarantasette rōnin (samurai senza padrone), suicidatisi ritualmente dopo aver vendicato la morte di un principe loro signore (daimyō). Il Giappone visitato da Loti reca i segni del cosiddetto rinnovamento Meiji, in conseguenza del quale il potere ritorna nelle mani dell’imperatore dopo secoli di dominio degli shōgun (i dittatori politici e militari che governarono il Giappone tra il 1192 e il 1868), che comportò un netto cambiamento relativamente alla struttura sociale e politica del paese. Non solo, le politiche di modernizzazione e di industrializzazione avviate in questi anni, cioè tra il 1866 e il 1869, resero il Giappone un paese competitivo sul piano economico e militare (il motto “Ricchezza nazionale e forza militare” nasce proprio in questo frangente); una trasformazione radicale, dunque, peraltro suggellata, nel 1905, dalla vittoriosa guerra contro la Russia.
Loti, osservatore attento e acuto, accumula descrizioni di paesaggi, templi e città in modo slegato, discontinuo, inseguendo impressioni e modi di vivere completamente diversi da quelli che aveva conosciuto in patria. Non sarà quasi per niente soddisfatto in quanto ben altra realtà si troverà a osservare: più prosaica e di certo non esaltante quanto la vicenda dei samurai che aveva acceso la sua fantasia durante l’infanzia – era soprattutto questo Giappone cavalleresco e fiero che egli si aspettava di ritrovare. Si trova di fronte, invece, a una civiltà millenaria fortemente segnata dall’avanzare del processo di modernizzazione, anche se in alcuni angoli nascosti sopravvive il Giappone tradizionale con il suo paesaggio “incantevole e magico”. Loti può così comunque osservare i tradizionali giardini in miniatura, con i loro laghetti e i loro alberi nani, le pagode dal tetto curvo con le loro migliaia di idoli, Buddha e mostri grotteschi in oro o bronzo e le volte decorate in lacca d’oro con una stranezza rara e squisita. E ancora: le casette di carta e legno, basse e annerite, ma dentro pulite, bianche e spoglie, che fiancheggiano strade a volte abbandonate, a volte rumorose e affollate di bazar di bronzo e porcellana. Può ancora trovare case da tè circondate da piccoli giardini che hanno mantenuto la loro pulizia giapponese. Si siede sui cuscini di velluto e gli vengono serviti, in piccoli piatti di porcellana fine, minestra di alghe, pasticcini che imitano paesaggi, caramelle salate, peperoni dolci. Come d’usanza ci sono guéchas e ballerine, che danzano al suono del shamisen, la chitarra giapponese, ed eseguono balli indossando maschere gigaku.
Ma, d’altra parte, Loti scopre che il Giappone è stato preso da un’infatuazione per le cose moderne. Entrando nella baia di Nagasaki, nota che le belle e maestose giunche del passato sono scomparse e al loro posto rimangono mazze di ferro e grandi navi da guerra. Il fumo delle fabbriche ha annerito i tetti delle case e sulle montagne campeggiano pubblicità americane. Sulle banchine ci sono edifici moderni, negozi e cabaret. Il visitatore attraversa quartieri cosmopoliti, nei cabaret e nelle taverne dei quali vengono serviti quelli che, per Loti, sono «poisons» dell’Inghilterra e dell’America. Ci sono sobborghi moderni con alte case in mattoni, lampade a gas, fili telegrafici e tram tipici di alcune città europee. Ufficiali e funzionari pubblici indossano cappelli a bombetta e abiti o uniformi europee, il che è indice di un tentativo generalizzato del governo giapponese di modernizzare il paese. Anche altrove Loti trova prove di questo tentativo: a un ballo europeizzante a Yeddo, dove “comtesses” e “marquises” ballano «des valses, des polkas, des mazurkas en toilettes européennes». Tuttavia, questa presunta artificiosità si tradisce abbastanza facilmente all’occhio attento di Loti, che non esita a definire «automates» i giapponesi intenti a scimmiottare gli europei: «Mais on sent que c’est une chose choisie apprise; qu’elles font cela comme des automates, sans la moindre initiative personnelle».
Ridestatosi da un sonno lungo dieci anni, Loti riappare redivivo nel «roman japonais» Madame Chrsyanthème, quasi che la sua morte in battaglia, annunciata nella pagina conclusiva di Aziyadé, e cioè esattamente un decennio prima, fosse avvenuta solo nella coscienza del protagonista, o si fosse trattato, in quella circostanza, di un accidente reversibile. Così, nel capitolo decimo, può accadere, grazie a questa rottura delle leggi naturali, che una parola pronunciata dalla piccola Chrysanthème – «nidzoumi (les souris!)» – ne rievochi un’altra, di una lingua assai diversa e parlata assai lontano dal Giappone: «setchan!», parola udita in passato, altrove, da una voce di donna giovane, in circostanze uguali, in un momento di spavento notturno. In una delle prime notti passate a Istanbul, sotto il tetto «mystérieux d’Eyub», un rumore sui gradini della scala buia aveva fatto tremare i due, e Aziyadé, «la chère petite Turque», aveva esclamato allo stesso modo di Chrysanthème. A quel ricordo, Loti è percorso da un grande brivido, come se si fosse risvegliato di soprassalto da «un sommeil de dix années»; ma se è vero che l’esclamazione e la circostanza sono le medesime, è altrettanto vero che la relazione di Loti con Chrysanthème altro non è che una contraffazione della passionale e tragica storia con la bella circassa Aziyadé – del resto anche il paese del “Sol Levante” non riuscirà a eguagliare quanto a emozioni e impressioni suscitate in Loti quello della “mezzaluna”. Con la delusione e il disprezzo che suscita ciò che è caricatura di qualcosa che ci sta a cuore, Loti osserva la «poupée» stesa accanto a lui, domandandosi che facesse lì, su quel giaciglio, e si allontana, preso da disgusto e da rimorso.
Si è letto sovente che l’incipit di un romanzo ne preannunci l’identità, sia sintomatico rispetto al suo linguaggio e al suo tema, sia la spia del suo tono e della sua suggestione; e si è riflettuto sulla sua valenza programmatica, quasi che l’inizio di un libro possa racchiudere in sé ciò che l’autore andrà a svolgere in modo analitico nelle pagine a seguire. E Madame Chrysanthème non sembra sottrarsi a questo cliché ponendo da subito il lettore, nell’Avant-Propos, a contatto con la materia del romanzo. Non solo: nelle pagine d’apertura l’autore evoca lo schema circolare e ripetitivo delle sue narrazioni, sintetizzato attraverso l’espressione «accoster, aimer, repartir»: la nave su cui viaggia il protagonista è in procinto di far scalo a Nagasaki e nell’attesa Loti, mentre discorre di mille progetti in compagnia di Yves, si propone prima della ripartenza di prender moglie, ma solo per noia e per troppa solitudine. Il che rivela l’ambiguità del proposito e lascia intendere la dimensione passeggera della relazione: un amore da marinaio, destinato cioè a durare il tempo di uno scalo. Dopodiché l’attenzione si sposta sui vasti spazi del mare e del cielo, e segue una suggestiva immagine astronomica che descrive l’allontanarsi della nave dalle terre australi attraverso il mutare delle costellazioni nel cielo: per cui, scomparsa la Croce del Sud e le altre stelle dell’emisfero australe, l’Orsa Maggiore risale verso lo zenit quasi come nel cielo di Francia. Subito s’insinua una nota di nostalgia quando l’aria, facendosi più fresca, riporta a coscienza le notti “di quarto” sulle coste familiari della Bretagna e la distanza spaventevole che separa i marinai da quei luoghi. La sua penna cesella pagine splendide che commuovono, dopo aver gettato nell’animo del lettore un sentimento di suprema tristezza, di vaga, indefinita meditazione. L’idea della morte gli è costantemente presente, lo assedia, lo circonda da ogni parte, e il pensiero del non essere più un giorno sconvolge estremamente il suo spirito e lo avvolge: lo spaventa terribilmente l’eterna ruota della disgregazione «des existences et des choses, de l’immense effeuillement de tout».
Madame Chrysanthème è, insomma, la storia di un “matrimonio a termine” tra un ufficiale di marina francese e una ragazza giapponese, una mousmè, per usare un’espressione che in Occidente, proprio dai libri di Loti, ha acquisito una valenza equivoca e dispregiativa che non ha nella lingua originale [in giapponese musume, figlia, ragazza]. Questi i punti del contratto di matrimonio: l’europeo verserà una somma di denaro e farà qualche regalo appropriato alla famiglia di Chrysanthème e disporrà in cambio dell’accondiscendenza di lei, fino al momento del suo ritorno in patria, o sin tanto che vorrà. Era un uso, questo, che a Nagasaki si praticava da parecchi secoli, da quando i mercanti portoghesi e olandesi vi approdavano per lunghi soggiorni e cercavano in loco una compagnia alle loro solitudini. Loti sembra generalizzare questa usanza, dandole l’apparenza di una caratteristica nazionale e facendo del Giappone il paese delle evasioni erotiche. Le mousmè, d’altronde, non hanno pensieri, solo comportamenti e abitudini. Il protagonista di Madame Chrysanthème poco si cura di sapere quali siano i sentimenti e i desideri di lei: forse non ne ha nessuno, salvo quello di amarlo e di servirlo. Quanto a lui stesso, non nasconde qualche volta il suo fastidio verso quel giocattolo animato, come non nasconde l’irritazione che gli suscita il contatto con un popolo minuto, cerimonioso e, verosimilmente, bugiardo. La sua visione è quella di un ufficiale di marina francese ai tempi dei grandi conflitti orientali: un misto di razzismo, di maschilismo e di generica superiorità non priva di qualche condiscendenza.
La stessa sensazione gli comunicano le geishe incontrate poco dopo nella casa da tè, per la loro statura ridicolmente piccola, i loro gesti affettati, la loro aria da statuine, accentuata dal trucco innaturale del viso. Anche gli uomini hanno volti «jaunes, épuisées, exsangues», e il padrone ha movenze automatiche, da burattino meccanico. Chrysanthème non si distacca da questo panorama. Al pari delle altre presenze femminili, è un giocattolo grazioso e strano, una bambola come le altre, che sembra animarsi solo quando suona, o canta, o dispone con delicatezza i fiori. Al contrario di Fatou-Gaye, che mostra spesso la sua nudità, Chrysanthème è sempre accuratamente avvolta in eleganti kimono, e non svela il suo corpo nemmeno quando si prepara per la notte. Tutto in lei denota l’alto grado di raffinamento della sua civiltà: dagli oggetti di cui si circonda (di fattura squisita e del tutto futili, come scatoline preziosamente dipinte, ventagli intarsiati, lanterne di carta), al suo incredibile modo di mangiare pezzi piccoli di cibo senza sporcarsi le mani e le labbra, al rituale di accensione della pipa. Come le bambole a cui è paragonata, Chrysanthème è asessuata ed inerte, incapace di suscitare il desiderio dell’europeo. C’è nel suo comportamento una asetticità, una mancanza di naturalità, che blocca ogni attrazione. In altri termini, la figura romanzesca di Chrysanthème è un richiamo continuo all’inanimato e sembra confondersi con le creature da ventaglio a cui era stata accostata fin dal suo apparire nelle pagine del romanzo.
Il rapporto che Loti instaura con il mondo nipponico si presta decisamente ad essere interpretato secondo una prospettiva “imagologica”[1]. Se è vero, dunque, secondo Loti, che l’interesse dei giapponesi verso gli occidentali non va oltre la mera possibilità di guadagno che essi possono ricavare dalla relazione con lo straniero, è altrettanto evidente la mancanza d’interesse di Loti verso i giapponesi e la loro cultura. Loti nutre disprezzo verso il mondo nipponico e instaura un rapporto di superiorità con gli abitanti del posto quasi questi fossero oggetti inanimati o animali.
Mi pare utile evocare, per concludere, un passaggio di un saggio sul Grand Tour in cui Mario Praz, indagando la percezione degli italiani dal punto di vista degli inglesi, osservava come dalla gente presso cui si va per divertirsi ci si aspetta che sia «pittoresca e istruttiva al modo che lo erano gl’iloti ubriachi per gli spartani, ma non che si metta a “talk shop”, a parlare di affari, a rivederti le bucce»[2]. Praz riconduceva la colpa di questa incomprensione in buona parte al rituale del Grand Tour. Il Grand Tour, per lo studioso, diventò
un pericoloso fattore d’isolamento, anziché d’ampliamento di vedute, dal giorno in cui gli stranieri furono considerati [dagli inglesi] non più come creature umane con cui si tratta da pari a pari, ma come macchiette in un paesaggio, come pittoresco spettacolo per gli occhi; dal giorno in cui i giovani patrizi non andarono più a Venezia a studiare le arti, e ad aver dimestichezza coi letterati e i pittori, ma ad ascoltare i gondolieri cantare con melanconica cadenza le ottave della Gerusalemme, e, in genere, a usare gli uomini come strumenti dei loro piaceri; dal giorno in cui non impararono più la lingua degli stranieri, ma impararono dai loro propri poeti a scoprire il raggio verde dei tramonti, gli effetti della luna sulle rovine […] fu allora che l’unico sentimento verso gli uomini d’Italia fu di compassionevole e sollecita cura, come per gatti, cani e uccellini, che’ a saperli schiavi di tiranni tutta l’anima zitellesca s’inteneriva[3].
BIBLIOGRAFIA
P. Loti, Japoneries d’automne, Calmann-Lévy, Paris 1889.
F. Arzeni, L’immagine e il segno. Il giapponismo nella cultura europea tra Ottocento e Novecento, Il Mulino, Bologna 1987.
P. Loti, Madame Chrysanthème, a cura di B. Vercier, GF-Flammarion, Paris 1990
M. G. Porcelli, Femmes japonaises. De Chrysanthème à Butterfly, in Pierre Loti et l’exotisme fin de siècle, a cura di M. Ipotési, Lisi, Taranto 2007.
F. Endo, La vision d’un Japon «saugrenu» chez Pierre Loti, in Les Mondes d’un écrivain-voyageur. Pierre Loti (1850-1923), a cura di A. Quella-Villéger e B. Vercier, “Revue des Sciences Humaines”, Lille 2013.
Note
[1] L’imagologia è uno dei campi di studio della comparatistica letteraria e consiste nello studio delle immagini, dei pregiudizi, dei cliché, degli stereotipi di una determinata cultura vista dalla prospettiva dell’Altro.
[2] M. Praz, Grand Tour, in Id., Bellezza e bizzarria. Saggi scelti, a cura di A. Cane, con un saggio introduttivo di G. Ficara, Mondadori, Milano 2002, pp. 323.
[3] Ivi, p. 324.