La scuola è politica

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La risoluzione dei problemi della scuola dovrebbe passare dal suo coinvolgimento sostanziale con la politica, con la polis, al contempo la città e il suo governo, nel circuito (corto) democratico.

University of Applied Sciences – HFT StuttgartLa scuola non è per il governo italiano una priorità. Come è stato rilevato recentemente, la pandemia lo ha dimostrato. La ministra dell’istruzione Lucia Azzolina è in balìa di due trend topic: da un lato i concorsi per l’insegnamento, straordinario e soprattutto ordinario, tra incertezze, dichiarazioni ambigue, passi in avanti e passi indietro (terza fascia no, terza fascia sì; per titoli, anzi meglio a crocette), per far fronte a una lacuna di, secondo uno studio della Cisl Scuola, ottantacinquemila posti vacanti, che sommati alle supplenze annuali raggiungono i duecentomila; dall’altro lato il problema della ripartenza di settembre, delineata dal Piano Scuola, dopo uno stop della didattica in presenza di quattro mesi (confusionario anch’esso, voti sì, voti no, bocciature sì, bocciature no), con l’emersione fisiologica di problemi ben più complessi, come l’inadeguatezza delle infrastrutture, le classi numerose, il possibile cambio, causa inefficienza, di metodologie didattiche, l’inclusione, eccetera. Tutto questo col fantasma del gattopardismo (cambiare tutto affinché niente cambi), come intuisce Silvana Loiero in un articolo per Treccani.

Dimostrato, si è detto, non scoperto: sono problemi apparentemente contingenti, invece esistono da sempre, riguardando il sistema scolastico ci attraversano, li incarniamo, perché in qualche modo, in quanto studenti o ex-studenti, ne siamo il risultato. Ma qual è l’errore alla base? Per me, riguarda il binomio scuola-politica. Mi spiego.

Il 9 luglio 2018, l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini commentava così la notizia di un gruppo di insegnanti siciliani che, rispondendo all’appello di Don Luigi Ciotti di Libera, indossavano magliette rosse durante gli esami di maturità, in segno di protesta per le persone migranti morte in mare:

Per fortuna gli insegnanti che fanno politica a scuola (guarda caso sempre pro-sinistra e pro-immigrazione) sono sempre di meno, avanti futuro!

Che fanno politica a scuola. Dice, ed è in realtà un Leitmotiv, un concetto trasversalmente ribadito. Altri due esempi, più recenti: il caso della professoressa di Palermo sospesa per “omesso controllo” su un video di alcuni suoi alunni che paragonavano il Decreto Sicurezza del ministro alle leggi razziali del 1938; il caso di una professoressa (precaria) di matematica rimossa dall’incarico perché avrebbe sputato e rivolto degli insulti ad alcuni agenti in divisa durante una manifestazione a Padova, datata 17 luglio. Sono tre casi, molto diversi, a lungo ospitati sui media di tutta Italia. Sono sintomo di cosa?

Ciò che Salvini ha voluto dire (e sono sicuro che da destra a sinistra in realtà, a ruoli ribaltati, il discorso si ripeterebbe), sicuro di collezionare l’approvazione di una buona fetta d’Italia, è che la scuola deve essere apolitica. La bandiera dell’apoliticità della scuola è un esempio palese di retorica negativa, che nasconde la polarità nell’imparzialità: non alimentano forse una posizione politica il rifiuto a pronunciare, a problematizzare un discorso? Non sta proprio nell’assenza di discorso la posizione di una certa fazione politica?

È una strategia intelligente che molti non hanno compreso (evitare l’argomento immigrazione a scuola, per esempio, non è neutrale ma polare). Una delle lotte da portare avanti dovrebbe essere il riconoscimento del ruolo, da un lato, del politico nell’educazione e nella formazione; dall’altro della politica nella e per la scuola, nel e per il sistema scolastico. Non sto parlando di propaganda politica, come piace e conviene banalizzare, ma di consapevolezza di stare al mondo, nella logica della partecipazione e nell’idea di cittadinanza; e di consapevolezza che la politica, come realtà storica e contingente, forma e modella la scuola.

Perché la scuola è politica, come titola l’abbecedario laico, popolare e democratico scritto da Simone Giusti, Federico Batini, Giusi Marchetta e Vanessa Roghi, pubblicato l’anno scorso per effequ [qui l’introduzione, N.d.R.].
Che lo si voglia o meno, aggiungo, volendo approfondire:
1) perché chi decide delle sorti della scuola è un politico o un gruppo di politici, parte di una classe politica, di un partito e guidato o guidati, si spera, da delle idee (quando spesso da una logica competitiva e manicheistica, così che ogni legislazione corrisponde a un ribaltamento); per di più con l’influenza delle linee europee in materia – e lasciamo da parte il paradossale non-coinvolgimento di chi vive la scuola (siano alunni, professori o dirigenti) nelle massime decisioni sulla scuola, per cui alla fine risulta che gli studenti la abitano e basta, senza poterla modificare, imparano «la democrazia dalla sua negazione», con Giusti;
2) perché le indicazioni del ministero in materia scolastica vengono proprio filtrate dalla direzione del singolo istituto e di lì da ogni insegnante, che essendo un individuo interpreta le direttive attraverso un inquadramento o punto di vista, che dir si voglia;
3) perché la scuola non è un mondo a sé, ma è nel mondo.
Ancora Giusti: «L’abusatissima espressione il mondo della scuola è sintomo di una particolare concezione dell’ambiente scolastico, quella che lo vede come un microcosmo a sé stante, regolato da norme speciali, in cui si parla una lingua straniera fatta di acronimi e abbreviazioni comprensibili solo agli iniziati».

La risoluzione dei problemi della scuola dovrebbe passare dal suo coinvolgimento sostanziale con la politica, con la polis, al contempo la città e il suo governo, nel circuito (corto) democratico. Parlare di nuovi soggetti pedagogici, di femminismo, di violenza, di immigrazione, dunque di intercultura, di gender; parlare di crisi ambientale ed economica, di ecologia riguarda la scuola, e nelle fondamenta, in quando consustanziali della stessa umanità che è in classe; non c’è separazione che tenga.

Chi, pur non conoscendo e non volendo conoscere il mondo della scuola, straparla contro l’attuale “decadimento” (è il cosiddetto vanverismo pedagogico), con l’auspicio di un ritorno all’autorità, alla scuola “tradizionale” (Batini, in La scuola è politica, parla di «sano nozionismo» e di «indiscusso primato della lezione frontale»), sa e non vuole conoscere, oppure è in malafede, che la scuola tradizionale non è mai uscita, non del tutto, dalla scuola come-è-adesso; e che la scuola tradizionale è proprio la responsabile di quel decadimento, cioè questo mondo risulta dal mondo che lo precede. Secondo che logica si torna al precedente, se è un punto che non ha portato a nulla? L’idea di scuola reazionaria, diciamolo, si perde in un cortocircuito che vede nel bambino e nel ragazzo esattamente ciò che crede di non vedere: un individuo incapace di far uso personale e sociale delle conoscenze; per questo debole, e soggetto all’ideologia progressista, “manipolante”, quando in realtà la scuola è più spesso il luogo dell’ideologia dominante e di stato, anche perché invecchiata e mai svecchiata, e ignorando che le direzioni della cultura (antropologicamente parlando) spingono verso la valorizzazione della diversità:

“L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”: il significato dell’articolo 33 della Costituzione antifascista è quello di scongiurare una scuola che riproduca immediatamente, attraverso un rispecchiamento, la società della quale è espressione e i suoi valori; garantendo quindi uno spazio di critica.
Filippo Grendene, Non si fa politica in classe.

Credo che cambiare la scuola, e in meglio, sia un atto di consapevolezza: riportare il politico nella scuola, e la scuola al centro della politica (non basta una lettera, che soffia dove il vento va, al presidente della Repubblica). Cioè: far sì che ciò che riguarda la vita al di fuori ricada sulla vita al di dentro, anche perché la medesima; rimettere in discussione il metodo stesso, attraverso una rivalutazione del ruolo della lezione frontale, assoluta dominante, eppure da non portare a capro espiatorio; attraverso un ripensamento del sistema valutativo (perché la motivazione non sia esterna alla scuola, cioè nel voto, ma interna ad essa, e cioè nell’apprendimento); attraverso un’eventuale riconsiderazione delle discipline, con l’introduzione trasversale, perché no, dell’economia, del diritto, della scrittura creativa come forma di accrescimento linguistico – lettura e scrittura sono al centro dello sviluppo dell’idioletto dello studente, della sua lingua propria, del suo sistema, a lungo invece ignorato, come sottolinea Marchetta in tutte le sue voci redatte per l’abbecedario. E riflettere poi sulla didattica, e sui contenuti dell’insegnamento della lingua e della letteratura e sul canone. Attraverso la riconsiderazione dell’insegnante, del suo ruolo e della sua preparazione. Significa pensare concretamente alle infrastrutture, ai trasporti, al lavoro (e non alla alternanza scuola-lavoro), all’orientamento (non come advertising e marketing), ai materiali, alle modalità concorsuali.

Mi si dirà che è utopia. Bene, se per utopia stiamo con Gianni Rodari, citato da Roghi nel suo lemma Fantastica in La scuola è politica (recentissima, per Laterza, l’uscita di Lezioni di fantastica. Storia di Gianni Rodari): «Il senso dell’utopia, un giorno, verrà riconosciuto tra i sensi umani alla pari con la vista, l’udito, l’odorato, ecc». Un senso primario, quindi esperienziale.
John Dewey titolava Esperienza e educazione (ed. eng. 1938) uno dei suoi più famosi saggi di pedagogia, perché si riportasse la pratica nella pratica educativa, le idee nel «mondo effettuale». Tutto ciò che ho detto non può prescindere dalla quotidianità della scuola, dal lavoro degli insegnanti: la pratica, più della teoria, è politica.
Citando Franco Basaglia da Le conferenze brasiliane: «dobbiamo stare attenti a ciò che consideriamo rivoluzionario, che non è creare ideologie ma riflettere sulle cose che in pratica trasformiamo». Utopia come motivazione contingente al miglioramento, non come discorso separato (inspiegabile infatti l’introduzione dei 24 crediti formativi in materie pededagogiche, metodologiche, antropologiche, in luogo del tirocinio – firmato Valeria Fedeli).

Auspico, in questo senso, una scuola rivoluzionata, perché in pace col suo essere, inevitabilmente, politica.

E l’università? Quello è un discorso del tutto diverso (lo è davvero?).

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Demetrio Marra

è laureato in Filologia moderna all’Università di Pavia e ha frequentato il Master “Il lavoro editoriale” della Scuola del Libro. È vicedirettore di «Birdmen Magazine», rivista di Cinema, Serie e Teatro. È direttore editoriale di «lay0ut magazine», rivista di Letteratura, Traduzione e Cultura Visuale. Scrive per la sezione “Lingua Italiana” di Treccani e per Triennale Magazine. Attualmente vive a Milano e insegna alla secondaria di primo grado.

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