La retorica del declino (e altri trucchi pseudoaccademici)

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La malasorte del Paese e la rovina della scuola hanno i giorni contati: basta tornare indietro alla scuola di un tempo, perché si stava meglio (in pochi) quando si stava peggio. O no?

In un suo recente articolo, intitolato La scuola ricomincia dai maestri: il modello progressista va archiviato, la pedagogista Loredana Perla, allo scopo di dare un qualche fondamento storico alle sue Indicazioni nazionali, così tragicamente manchevoli sul piano strettamente pedagogico e didattico, riprende alcuni temi cari al dibattito generalista sulla scuola, temi che hanno ormai una tradizione più che ventennale.

La tesi di fondo di Perla, non supportata da dati, è la seguente: fino agli anni Ottanta in Italia c’è stato un sistema di istruzione efficace ed efficiente, che ha portato il Paese ai vertici dell’economia mondiale; poi è arrivato il declino, effetto di riforme scolastiche sbagliate.

Senza entrare nel merito della qualità dell’approccio storiografico usato, colpisce l’insistenza sulla retorica di un passato glorioso e su una narrazione che, grazie a un prezioso lavoro di Paolo Giovannetti (L’istruzione spiegata ai professori, Ets, Pisa 2006), possiamo ricondurre per grandi linee al «discorso antiriformista» degli anni a cavallo del Duemila, in corrispondenza delle riforme che hanno condotto all’autonomia scolastica e universitaria.

A partire da quel momento, spiega Giovannetti:

… è la stessa distinzione destra/sinistra non solo ad andare in crisi, ma anche a essere sottoposta a forme di rielaborazione confusiva, entro le quali posizioni francamente reazionarie vengono praticamente spacciate per progressiste, e comportamenti intesi a rendere più abitabile la scuola sono oggetto di critica da parte di chi si dice difensore della scuola pubblica (ivi, p. 54).

Sono cinque i punti o i temi fondamentali che, sempre secondo Giovannetti, ricorrono nei testi che in quegli anni si propongono di attaccare – «di solito in chiave ‘progressista’» (ivi, p. 55) – la progettazione della nuova scuola e università.

Il primo è la «sindrome dell’ignoranza», che si manifesta attraverso la preliminare ammissione del polemista di turno di non capire bene quel che sta succedendo. Le riforme, che non sono comprese a fondo nelle loro motivazioni e nelle loro conseguenze, sono attaccate anche perché richiederebbero conoscenze approfondite e letture attente, e dunque, in mancanza di queste, causano confusione.

Il secondo tema ricorrente nel discorso antiriformista è l’antiburocraticismo, che sposta tutta l’attenzione dai contenuti delle riforme al loro modo di realizzarsi, definito, appunto, «burocrazia».

All’accusa di aziendalizzazione, riassunta da Giovannetti nel motto «la scuola sta diventando un’azienda» – rivelatrice anche in questo caso di una sostanziale estraneità dei detrattori delle riforme alla gestione razionale della scuola come organizzazione –, segue quella di voler educare gli studenti al consumo, tradendo la missione originaria della scuola italiana di tramandare la «vera cultura».

A questo argomento si aggancia l’ultimo dei motivi individuati da Giovannetti, quello del degrado culturale: il dilagare dell’ignoranza che sarebbe causato proprio dalle riforme scolastiche e universitarie.

Cascami del discorso antiriformista si possono poi rintracciare nella cosiddetta Lettera dei 600 promossa nel 2017 dal Gruppo di Firenze, un piccolo novero eterogeneo e informale che all’epoca si dichiara «per la scuola del merito e della responsabilità»:

È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare.

Anche in questo caso le affermazioni apodittiche non sono supportate da alcun dato, a dimostrazione del prevalere della narrazione sull’argomentazione, e a conferma di un sostanziale approccio antiscientifico di matrice populista. La sola cosa che conta è diffondere e rafforzare la sensazione diffusa che la scuola sia in declino e il mondo con essa (rinvio a un mio articolo a quattro mani con Christian Raimo per un approfondimento).

Il successo della lettera, sottoscritta all’epoca da docenti universitari e intellettuali riconducibili a diverse aree politiche, da Massimo Cacciari a Paola Mastrocola, rivela il tratto bipartisan della confusione ideologica che caratterizza ancora oggi il discorso pubblico sulla scuola, condensata esemplarmente in un articolo dello storico Piero Bevilacqua uscito sul quotidiano «Il manifesto» alla fine del 2019: qui ricorrono soprattutto i temi della burocratizzazione – «Controllo autoritario e nuove burocrazie soffocano oggi la scuola», – dell’aziendalizzazione – «Non bisogna dimenticarlo: la scuola-azienda reclama controllo dei risultati finali, come accade in qualunque impresa nata per fare profitto», – e del degrado culturale, espresso con frasi che lasciano trasparire un sentimento nostalgico per il passato:

la scuola così come l’abbiamo conosciuta, luogo di formazione culturale, civile, spirituale è quasi andata distrutta. Al suo interno la cultura, l’insieme di discipline in cui si articola il sapere è subordinata a una logica di apprendistato, un campo neutro e frantumato di “competenze”, di cui gli studenti devono appropriarsi per accedere al lavoro.

Da un articolo di costume non si pretendono serietà e metodo, ma l’esempio torna utile perché propone il medesimo schema di storia, contribuendo a radicarlo nell’immaginario collettivo: quella della scuola è una storia che finisce male, anzi che in qualche modo è già finita, poiché il presente è il punto di arrivo, il risultato di una serie di errori compiuti nel recente passato per mano dei “progressisti”. È la storia di un «declino» che ha già compiuto il suo corso e che deve essere ratificato per poter in qualche modo ricominciare daccapo. Tutto l’impianto del libro L’aula vuota di Ernesto Galli della Loggia (Marsilio 2019), per esempio, si fonda su quest’idea (già messa opportunamente in evidenza da Christian Raimo). Si legge a pagina 17:

Il declino del paese è andato di pari passo con quello dell’istruzione. La scuola è diventata sempre di più un organismo burocratizzato, sottoposto a una frenesia inconsulta di riforme, di continui aggiustamenti di quelle già fatte, di proposte strampalate sempre nuove […].

Ed è una storia popolata da personaggi già noti ai lettori di narrativa scolastica, tra cui spiccano gli insegnanti, afflitti da mille disgrazie e tuttavia ancora vivi e vivaci, verso i quali il narratore-opinionista tende a manifestare una sorta di solidarietà compassionevole, assurti al ruolo di vittime:

Oggi essa [la scuola] al più sopravvive – quando riesce a farlo – solo grazie alla buona volontà di un certo numero di insegnanti che poco o nulla possono, però, contro l’insieme impressionante delle forze avverse: ordinamenti sbagliati, adempimenti burocratici soffocanti, cronica mancanza di mezzi, una pervadente demagogia, l’impreparazione e l’infingardaggine di molti loro colleghi, la losca politica dei sindacati interessati solo al mantenimento del proprio rovinoso potere (p. 233).

I dirigenti scolastici, anelli di congiunzione tra la scuola-azienda e lo Stato-burocrate, sono chiamati a recitare la parte dei nemici, mentre gli studenti sono rappresentati come soggetti passivi, vittime a loro volta del cambiamento, di cui portano il marchio indelebile dell’ignoranza (sulla vittimizzazione degli studenti si rinvia, tra i tanti esempi disponibili, agli articoli di Livio Marchese sugli “zombetti” usciti sulla rivista “Gli asini”).

C’è poi Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza (La nave di Teseo, Milano 2021), di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi: ancorandosi a una piattaforma già consolidata, il volume può serenamente proporre la soluzione finale: una maggiore selettività della scuola come argine al suo declino culturale (si rinvia alla bella recensione di Vincenzo Sorella per un approfondimento).

Ecco, in sintesi, come funziona la retorica del declino: il narratore – l’adulto intellettuale, scrittore, giornalista – racconta la storia di un mondo alla deriva, in cui lo Stato (sobillato o costretto dall’Europa), con l’aiuto dei dirigenti, porta alla rovina il sistema d’istruzione. I docenti non asserviti, armati di passione e buon senso, grazie all’aiuto degli intellettuali possono, combattendo lo Stato, rimuovere i suoi effetti malefici e salvare almeno una parte degli studenti. Ovvero tornare, come sintetizza efficacemente Mila Spicola in un commento di pochi giorni fa, alle “belle classette di una volta”, che

erano tali perché tenevano fuori dal sistema scolastico il 50% degli italiani e soprattutto delle italiane non per rigore didattico (per rigore didattico intendo le qualità didattiche dei docenti) ma per autoritarismo disfunzionale. Attenzione, ripeto, non per rigore didattico. Ha più a che fare con il lassismo didattico l’autoritarismo che non la didattica progressista, perché quest’ultima impegna i docenti in fatiche e professionalità decisamente maggiori. Il 50% delle italiane e degli italiani fuori dal sistema d’istruzione prodotto dalla scuola rimpianta da Perla oggi è insostenibile dal punto di vista democratico e da ogni altro punto di vista: sociale, economico e civile, oltre che culturale.

A questo schema di storia possiamo ancora oggi ricondurre buona parte delle opinioni e delle rappresentazioni della scuola che circolano sul web e in quei quotidiani e riviste che tendono a riprodurre stilemi e topoi della chiacchiera sui social: polarizzata, violenta, un po’ ignorante, qualunquista, nemica dei dati e della ricerca, profondamente, e in alcuni casi accanitamente, antipedagogica.

Si tratta di una narrazione capace evidentemente di dare un senso al disagio dei tanti adulti che in quei personaggi e in quelle trasformazioni riconoscono un racconto verosimile e coerente con il proprio sistema di valori, con la propria percezione di sé nel mondo; ma è una retorica che non giova – o almeno così pare a chi scrive – alla crescita e allo sviluppo dello Stato democratico, né tantomeno al lavoro quotidiano di studenti e docenti che a scuola devono trascorrere migliaia di ore ogni anno.

È a questo disagio, a questa radicale incapacità di affrontare i problemi del sistema di istruzione con gli strumenti messi a disposizione dalla ricerca educativa e dalla riflessione pedagogico-didattica, che risponde in modo accondiscendente Loredana Perla. Il suo articolo – antipedagogico anch’esso, incredibilmente – finisce per mettere in grande imbarazzo quanti ancora credono nella necessità di accompagnare le politiche scolastiche con la serietà e il rigore della ricerca scientifica.

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Simone Giusti

insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, ed è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale per il triennio La nuova onesta brigata (2025).

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