La restanza: l’uomo è ciò che abita?

Tempo di lettura stimato: 13 minuti
Nell’ultimo saggio dell’antropologo Vito Teti, “La restanza” (Einaudi), tornano al centro del dibattito culturale i luoghi, le rovine, le case e le nuove strategie economiche, politiche ed etiche per ri-abitare i paesi.

1. La restanza (Einaudi, 2022) è l’ultimo saggio – saggio ibrido, con molti movimenti al suo interno puramente narrativi, memorialistici, ma anche speculativi, e non solo antropologici – di Vito Teti. La restanza è un testo che costringe il lettore, anche non specializzato, a fare i conti con temi e problemi come lo svuotamento dei paesi, l’impoverimento del tessuto culturale, lo scomparire di alcune tradizioni, siano esse religiose, culturali, culinarie, e nello stesso tempo una sempre maggiore attenzione massmediatica ai borghi, al ritorno alle origini, i prodotti a km 0 ecc.

Il saggio di Teti è illuminante perché – appunto – mette in evidenza alcune antinomie e tensioni, mostra le speculazioni e le scelte propagandistiche di una certa pratica culturale che rilancia i borghi per – in realtà – dimenticare i paesi, che parla di radici per dimenticare le tradizioni: insomma, mostra l’inganno di una società che finge di occuparsi di alcune realtà destinate a scomparire e in realtà ne accelera il trapasso (ad esempio la folle idea di ripopolare i paesi abbandonati vendendo le case a 1 euro).

2. La restanza, però, è anche un saggio più intimo, in certi momenti poetico e autobiografico, in cui Teti evoca i propri fantasmi, i propri lari, e li porta davanti a noi: ecco il padre che torna dal Canada, ecco la madre, le sorelle, le zie e le donne del paese che aspettano i loro uomini tornino, e intanto continuano a far vivere le strade e le case, ecco la desolazione del tempo presente, il lento morire delle abitazioni, perché lentamente scompaiono le persone, chi per malattia, chi per fuga verso un futuro migliore, ecco infine la malinconia di chi contempla tutto questo e non sa decidersi se amarlo profondamente o rinnegarlo.

La restanza è, quindi, un libro che interroga personalmente ognuno di noi sul nostro modo di vivere il tempo, di abitare la casa in cui siamo, il paese/città in cui viviamo, la nazione di cui siamo cittadini. E nello stesso tempo travalica tutto questo, perché collega noi, l’ultima propaggine di Sapiens, ai nostri antenati, e vede tra noi e loro qualcosa che ancora incredibilmente ci unisce: la dicotomia tra andare e restare. Il saggio si rivolge a noi che leggiamo, quindi, in prima persona, e soprattutto ci chiede di fare un’operazione semantica, ripensando il significato delle parole che usiamo; Teti ci costringe a calarle in un contesto nuovo e diverso; a riguardare alle nostre esperienze, anche quelle minime, come il possibile tracciamento di una nuova avventura antropologica.

3. Due delle parole più presenti nel lemmario del saggio sono “spazio” e “abitare”: Teti dedica molte pagine a ridefinire questi vocaboli:

Per gli spazi che si abbandonano occorrono pensieri nuovi e “opere […] necessarie sia per rilanciare il valore d’uso di certi patrimoni pubblici e privati, si per rendere possibili le economie dei soggetti che li sceglieranno. […] In altre parole, sceglieranno di riabitarli in modo nuovo”. […] Si può approfittare del vuoto per costruire in maniera nuova luoghi che, però, saranno abitati e collegati in maniera diversa dal passato.

Spazio, luogo, abitare: parole d’uso comune e che Teti cerca di ri-semantizzare; abitare per Teti è una azione decisiva del restare, si abita un sentimento, un paese, un luogo, una prassi; lo spazio non è solamente il luogo in cui avviene, ma la correlazione tra passato e presente, tra ciò che possiamo fare (futuro/probabile) e ciò che è stato fatto (passato/immodificabile). Il luogo è, quindi, una parte dello spazio, fuori dal flusso del tempo, e che vediamo in presente eterno, e mitico: se il luogo è mitico, lo spazio è storico; e così quando abitiamo uno spazio in realtà modifichiamo il luogo e, quindi, ne mutiamo il mito.

Spesso ci troviamo di fronte a riflessioni che hanno a che fare con queste tre parole. Ad esempio, sto scrivendo questo articolo nel dehors di un locale di Torino, i Bagni municipali: ci vengo spesso a mangiare e a leggere. Per molti mesi, entrando, ho trovato davanti a me una cassetta postale in cui era possibile inserire una propria riflessione alla domanda che veniva posta: «Cosa vuol dire per te abitare uno spazio?». Ho provato a ragionarci partendo da quello che Teti scrive nel suo testo.

Cosa vuol dire per te abitare uno spazio?: ogni volta che leggo questa domanda non so che risposta dare, ma so che la soluzione a un interrogativo sta spesso nella definizione delle parole che lo compongono. Non bisogna essere frettolosi nel rispondere; è questo un altro dei temi de La restanza: costruire una durata, un tempo nuovo, meno scandito dai ritmi della produttività 24 ore su 24, un tempo che recuperi la ciclicità delle campagne, ma anche delle commemorazioni religiose, delle sagre e delle processioni, un tempo che si muove in avanti ma ruota su sé stesso.
Per rispondere alla domanda, quindi, è necessario ridefinire i due concetti principali della domanda: che cosa significa abitare? che cosa significa spazio? Esiste uno spazio che può non essere abitato, e si può abitare qualcosa che non sia spazio? Possiamo abitare un sentimento, e in che modo possiamo amare un muro sbrecciato, un sentiero di montagna?

4. La domanda posta dalla cassetta presuppone una tautologia, ovvero che abitare e spazio siano la medesima cosa, siano in un certo senso coincidenti. Tale interrogativo, quindi, perde ogni valore speculativo. Fossi stato in chi ha formulato la domanda, avrei provato a scriverla in modo diverso: «Tu come abiti lo spazio?».
Questo interrogativo ci avrebbe permesso di uscire dal vago che accompagna questi ragionamenti, dove spesso si riflette in termini “lirico patetici”; confesso un certo fastidio per quelle forme di paesologia in cui ogni cosa – la seggiola abbandonata sotto un pergolato, la botte usata dai nonni in disarmo in cantina – diventa scusa per riflessione sui tempi andati, su come era bello quando era tutto semplice.
Una delle caratteristiche della prosa e del ragionare di Teti, invece, risiede appunto nella concretezza degli esempi: inutilmente ricerchiamo ne La restanza compiacimenti lessicali, giochi di parole, Teti suffraga le sue riflessioni con esempi concreti e non con “parabole” (si veda il capitolo 4 Le molliche che riportano a casa in cui si parla dei ragazzi che discutono e decidono di utilizzare le farine autoctone o le sementi per i pani tradizionali).
È vero: la vaghezza, anche stilistica, è molto utile a livello pubblicitario, ma ciò che nel testo si ribadisce è che le parole – abitare e spazio – acquisiscono un senso se e solo se esiste una persona in carne e ossa. Spostando tale riflessione da un piano strettamente antropologico a quello dell’ordine del discorso, potremo dire che grammaticalmente dobbiamo pensare non tanto a un generico “per te”, ma un “io” soggetto che si prende carico dell’azione dell’abitare.

5. Io non so cosa voglia dire abitare uno spazio, posso solo dire come abito il mio spazio, come lo definisco in base alla mia persona, come entro in contatto con le cose che producono i luoghi in cui mi muovo. La preposizione semplice “per”, così vicina al dativo latino, mette in secondo piano l’idea che uno spazio esiste perché qualcuno lo percepisce, cioè nega lo spazio come una relazione, ma l’abitare è una relazione tra le persone; un paese esiste perché esistono le persone che lo abitano, e quando anche fosse deserto, esisterebbe nell’essenza fantasmatica delle persone che lo hanno abitato e che lo abitano nei ricordi di chi sa che quel paese era abitato da quelle persone.
Insomma, se dovessi dare una risposta a questa domanda direi che io non abito uno spazio, ma che mi occupo delle persone che occupano uno spazio e che questa duplice occupazione e cura io la chiamo abitare.

6. L’altra parola fondamentale del saggio di Teti è “paese”. Anche in questo caso Teti non sceglie la via più facile: il concetto di paese è complesso, stratificato, sfuggente, spesso si rischia di non comprenderlo appieno. Non casualmente (le parole non sono mai casuali nel loro uso diffuso), alla parola “paese” si affianca, si sovrappone e si sostituisce la parola “borgo”. Borgo e paese non sono la stessa cosa, non nascono sinonimi e non lo sono: paese ha a che fare con l’apertura, la campagna circostante, con l’essere di passaggio, il borgo ci parla di mura, di fortificazioni, chiusura; metterli sullo stesso piano semantico indica una cattiva coscienza, si vuole fare del paese un borgo, cioè si vuole fare di uno spazio aperto all’andare e venire, alla partenza e al ritorno, uno luogo chiuso, nel quale si sta.
Ne La restanza di Teti il paese ha questa caratteristica duplice di posto in cui arrivare, ma di luogo dal quale si parte: alcune volte sono movimenti da fermo, altri sono spostamenti fisici, alcune volte è il paese stesso che si muove e si sposta, per via di un terremoto o una catastrofe. Il paese, appunto, è un organismo vivente:

Un paese […], è bene ribadirlo, non è un groviglio casuale di abitazioni, al contrario, un paese è un artefatto complesso di architetture, di strade, vicoli, case; una trama di relazioni, vissuti e pratiche sociali interrelate.

Per molti invece

il ritorno al paese viene oggi spesso evocato nell’ambito di una visione estetizzante delle rovine, espressione di una sorta di flânerie contemporanea.

Da questo Teti ci mette in guardia, partendo da un brano di Cesare Pavese contenuto nell’incipit famoso e citatissimo de La luna e i falò, divenuto una sorta di slogan: «Un paese ci vuole». Spesso ci si dimentica che la frase di questo romanzo ha un seguito «non fosse altro per il gusto di andarsene via»: un paese non è mai qualcosa di statico, ma è insito nel suo esistere una sorta di movimento. Vivere in un paese è abitare un luogo che ti spinge ad andartene e a lasciare i tuoi resti per poi tornare a riprenderteli, è un movimento di dis-appartenenza. Si ha un paese solo per poi abbandonarlo, eppure per tornarci ogni volta e sentirsi estranei: il paese è il luogo dove il te “nomade” e il te “stanziale” trovano tregua per pochi momenti: la festa del patrono, il falò per il raccolto, la processione degli ordini, la leva dei coscritti, la visita ai vecchi o ai morti.

7. Ho vissuto la prima parte della vita in un piccolo paese tra Langhe e Monferrato, il cui centro abitato, escluse le frazioni, conta meno abitanti della via in Torino dove attualmente risiedo. Contrariamente a Teti che vive nel paese della sua infanzia, nella sua casa natale, io non tonerò a vivere in quella casa. Eppure è il mio paese, è il luogo dove ho vissuto e dove torno.
Io torno, perché sono andato via, sono andato lontano, perché in un certo senso l’ho rinnegato: nel rinnegarlo e nel cancellarlo dalla mia vita esso si è incistato dentro di me. Così quando torno, so che sono andato via, so che l’ho abbandonato e mi prende lo struggimento per quelle case e viuzze, per il muraglione, per i boschi nella valle. Io torno perché poi me ne vado. La mia vita non è qui, nella piazza davanti alla chiesa, nello sferisterio dove si giocava a tambass; la mia vita è da un’altra parte. Fortunatamente, perché così posso tornare, posso sentire la fortuna dell’appartenenza. I miei coetanei che hanno deciso di rimanere e non di essere restanti hanno perduto lo struggimento, la nostalgia, la paura, il disorientamento, hanno sacrificato alla sicurezza lo stupore di rivedere ogni cosa come se fosse nuova, la strana gioia di riconoscere il campanile tra i tanti che svettano tra le colline, la malinconia che si prova nel veder – camminando per le strade – che piano piano la gente della tua infanzia ha svuotato le case, e riempito i colombari al cimitero.
Se vuoi restare in un paese, te ne devi andare, e te ne devi andare molto lontano, dai suoi costumi, dalle sue leggi non scritte, dalle sue ipocrisie, perché da lontano, quando il velo delle piccolezze umane si disfa, vedi che il paese è meglio dei suoi abitanti; e ci torni e lo senti tuo, e ti appartiene. E ti appartiene proprio perché non è te e non coincide con te, e non coincidendo ti è prossimo. Non tornerò mai a vivere in quel paese, ma quel paese vivrà con me nei miei modi di fare, nelle mie parole e ricerche, nei miei studi, nei miei successi e insuccessi. Io sono altro dal mio paese, ed è per questo che il paese è tutto dentro di me.

8. C’è un ultimo termine su cui vorrei focalizzare l’attenzione ed è il termine che dà il titolo al libro, “restanza”. Questo termine in Teti assume sfumature diverse. In primo luogo farei notare che non è un termine che possa essere sinonimo di “fermo”. Teti mette proprio in contrasto il termine “restare” e “restanza”: se nel primo intravediamo qualcosa di immobile e statico, nel secondo la centralità cade sulla desinenza “anza” che suggerisce al lettore il movimento, un andirivieni. Se “restare” indica qualcosa di passivo e di subìto, restanza indica un movimento attivo, una scelta, una possibilità di qualcosa di nuovo.
Restanza possiede in sé anche i germi del resto, di ciò che rimane, quando ogni cosa è passata e caduta; parlare di restanza quindi significa sapere che infine qualcosa c’è ancora, ovvero che qualcos’altro è andato perduto per sempre; il resto ci consegna l’idea che una parte di quello che è stato è perduto in maniera irrimediabile.
Non esiste nella restanza di Teti nessun compiacimento del bel tempo che fu, non c’è neppure nessuna tentazione di estetizzare l’abbandono, non c’è in Teti nessun compiacimento delle rovine, i paesi abbandonati non sono fonte di poesia, ma sono tristi, morenti, pieni di solitudine, eppure l’antropologo cerca in questa soglia di negativo qualcosa che è il resto di ciò che fu e non potrà più essere: ciò che Teti tratteggia, infine, con questo saggio, è una sfida etica, diversamente da altri, i paesologi, in cui il tema pare più declinato da punto di vista estetico, che è prima di tutto accettare ciò che si è, ciò che resta è la persona che decide.
Il fulcro dell’azione della restanza è il soggetto che la compie, il soggetto/persona è il fulcro del ragionamento di Teti:

Non si resta o si fugge: si resta e si fugge. […] Abito, come ho già detto, nella casa in cui sono nato, dormo nella stanza in cui mia madre mi mise alla luce. Posso dire che, pur con tutti i miei viaggi, con tutte le mie vite altrove, con tutto il mio errare, sono rimasto. Il paese che ho visto pieno adesso è vuoto. Il luogo che volevo cambiare mi ha, forse, cambiato. L’esilio non ho scelto io, mi è arrivato a casa.

Il movimento descritto da Teti nelle pagine finali de La restanza qualcosa degli “Ulisse” che hanno dominato la narrativa novecentesca, c’è qualcosa di Bloom e del suo viaggiare da fermo, del re pescatore di Eliot, della Clarissa Dalloway di Woolf, ma anche di Anguilla, di Milton, e di Primo Levi della Tregua; personaggi letterari che hanno prodotto l’idea di un ritorno che non è mai pacificato, ma sempre inquieto, dove il restare non è stasi, ma movimento, sguardo inquieto di colui che ci ricorda che «viaggio per fuggire altro viaggio».

Condividi:

Demetrio Paolin

vive e lavora Torino. Collabora con il «Corriere della sera». Ha scritto saggi e romanzi. Nel 2016 è stato tra i 12 finalisti del premio Strega con il romanzo “Conforme alla gloria” (Voland). Il suo ultimo libro è “Anatomia di un profeta” (Voland).

Contatti

Loescher Editore
Via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino

laricerca@loescher.it
info.laricerca@loescher.it