La parola padre

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«La parola padre», regia di Gabriele Vacis, ha appena concluso un’intensa tournée in sei città italiane. Nato nel 2013 e prodotto dai Cantieri Teatrali Koreja, una delle più feconde e autentiche realtà teatrali di questi ultimi decenni, è uno spettacolo al femminile che impasta parole, musica e azione per esplorare la relazione con padre, patria, Storia, mortalità.
La parola padre – foto di scena di Alessandro Colazzo.

6 date e 6 città – con partenza il 19 ottobre a Trieste e conclusione il 7 febbraio a Grottaglie, in provincia di Taranto – per La parola padre, uno spettacolo del 2013 che sono finalmente riuscita a vedere, infilandomi in una delle date, quella emiliana di Parma, al teatro al Parco.
6 giovani donne esplorano la parola «padre»: Ola (polacca), Simona (macedone), Irina (bulgara), Alessandra, Anna Chiara, Rosaria (italiane del sud). Parlano la loro lingua (la “lingua madre”) e comunicano in un generico inglese (la “lingua padre”?).

198 bottiglioni di acqua, vuoti: la scenografia. Una scenografia che muta di continuo. Si alzano muri – dolcemente, musicalmente, quasi danzando – si distruggono muri – con rabbia cadendoci sopra, deflagrando – si costruiscono labirinti snervanti – i canali di Venezia, i percorsi del videogioco Pacman – ci si cammina sopra, sulle bocche, come su dolorosi carboni ardenti. Ogni azione scenica è mutevole e vana bellezza – ma la bellezza non è vana, come vano non è il teatro.

La parola padre – foto di scena di Alessandro Colazzo.

Gabriele Vacis è il regista di questo spettacolo, ne è il padre. E se non l’ho detto come prima cosa, ad apertura dell’articolo, non è per caso, ma per conseguenza, perché ho attivato una mia propria esplorazione della parola padre.
Non una storia, ma storie. In un non-luogo, un aeroporto di Cracovia, sei ragazze d’Europa si conoscono, parlano, raccontano, urlano, piangono, soffrono, agiscono e scrivono – con apprensione – a un padre lontano, invecchiato, assente, amato:

…negli aeroporti penso sempre a te… sarà perché la prima volta che sono salita su un aereo eravamo io e te da soli, ti ricordi?

Per le ragazze dell’Est, la parola padre è più violenta, autoritaria, oppressiva, e si confonde con la patria, con il comunismo, con la Storia. Padre e patria non danno spiegazioni:
Questa è una tessera per la carne del giugno 1981… se la perdevi, non mangiavi.
E questa è una vera coda comunista… stavi in fila per ore e quando toccava a te la carne era sempre finita!
Perché? Non lo so… era il comunismo… forse è per questo che sono diventata vegetariana.

Anche per chi, come la macedone Simona, il comunismo titino è invece nostalgia, lo è perché esiste comunque un altro Padre della patria, imposto, a portare avanti una drammatica farsa:

…noi giovani macedoni sappiamo tutto su Alessandro Magno, nella piazza di Scopje abbiamo fatto una statua di Alessandro in groppa a Bucefalo… 25 metri… è più alta dei palazzi che ha intorno. Nella statua Bucefalo non è venuto tanto bene, sembra un unicorno… anche Alessandro non è venuto tanto bene: sembra Gheddafi quando si travestiva da Michael Jackson, ma questo noi giovani macedoni non dobbiamo dirlo.

Per le ragazze italiane la parola padre ha più a che fare con l’inaffidabilità, l’indifferenza, le promesse mancate, l’assenza (quindi anche in questo caso con la patria, con una patria che non c’è, con un’Italia che ha abbandonato a sé stesso il suo meridione? «Questo è un ponte che noi attraversiamo raramente», dice Alessandra durante l’incontro con il pubblico dopo lo spettacolo «per noi la patria è più una madre, è la terra»).

Avrei dovuto poter dire a mio padre: papà, lui mi ha toccata… invece… non gli ho detto niente. Io non mi fido di mio padre.

La parola padre – foto di scena di Alessandro Colazzo.

2 mesi, o quasi, per preparare uno spettacolo che è un po’ documentario teatrale, un po’ drammaturgia collettiva, un po’ performance nel senso dell’arte contemporanea (in una recensione ho letto che le lacrime delle attrici sono a volte vere; mi permetto di correggere: le lacrime delle attrici, in un teatro del genere, sono sempre vere. Così come i sorrisi. Così come gli sguardi. Così come quel camminare insieme in schiera che è profonda percezione dell’altro, ascolto in atto, presenza piena, ardua, sapiente).

2 mesi, o quasi, in cui alle attrici Vacis ha fatto interviste, domande che chiedevano storie, non opinioni («Noi viviamo di opinioni e scarsissima possibilità di entrare in rapporto con la realtà. Stiamo male non perché “non arriviamo alla fine del mese”, ma perché diamo nomi sbagliati alle cose. Più che chiedere opinioni dobbiamo fare domande la cui risposta sia una storia: è questo che permette di lavorare in profondità, di trovare cose che ci riguardino tutti», spiega nell’incontro con il pubblico). 2 mesi, o quasi, di lavoro fisico con Barbara Bonriposi. Di costruzione dello spettacolo con il materiale emerso, le storie personali – scambiandosele, anche; con i video proiettati, i vestiti, gli strumenti di scena, i bottiglioni – «all’inizio erano pochi, 8, 9, 10, poi sono aumentati, a un certo punto erano diventati 200… ci hanno fatto impazzire quei bottiglioni», mi racconterà Anna Chiara davanti a una birra la sera dopo; con la musica – non per niente per il lavoro di Roberto Tarasco si parla di scenofonia.

La parola padre.

5 anni: l’età di questo lavoro. E se le persone che lo rendono possibile vivono in Paesi diversi, incontrarsi significa ogni volta anche ripensare l’Europa e stare nel lavoro in modo diverso, accettare che cambi nel tempo, che alcune parti prendano più spazio, che la rabbia muti bersaglio. Nello spettacolo Simona dice:

In questo spettacolo le ragazze piangono continuamente… perché questo è un momento in cui noi ragazze d’Europa abbiamo voglia di piangere come fontane…

Fuori dallo spettacolo Simona dice: «Ci sono molti motivi per piangere: i rifugiati, per esempio, verso i quali ci rifiutiamo di comportarci da esseri umani».

Sicurezza che volge in oppressione, promessa che diventa parola mendace e inganno, la parola “padre” si fa anche di carne e allora ritorna a noi, toccante, umana. Ci ricorda la nostra origine, di cosa siamo fatti:

Io ho iniziato ad avere i capelli bianchi a sedici anni. Fra tutte le cose che avrei potuto ereditare da mio padre, ho preso proprio i capelli bianchi.
E gli occhi, e il naso, e la bocca. E il sorriso, il modo di camminare, di parlare. Io sono mio padre.

Ritorna come lo specchio della nostra fragilità di creature:

Dai, dimmelo! Voglio sapere a quanti anni non sei più riuscito a fare questo movimento, dai! O questo, perché lo so che a un certo punto non ce la fai più. Ecco… tu a quanti anni non sei più riuscito a fare questo? […] Papà: a quanti anni non sarò più capace di fare questo… e questo… E tra quanto non potrò più fare così… e così… e così… eh, papà? […] Scusa papà, scusa… volevo solo sapere quanto tempo mi rimane… quanto tempo mi rimane da vivere… e quale tempo.

E ombra della nostra finitezza:

Ho messo la tua foto sul desktop […] In questa foto hai 36 anni, la mia età di adesso […] Vederti giovane ogni volta che accendo il computer mi allena all’impermanenza.

Il teatro offre senso, non tesi. Chiedersi cosa significa uno spettacolo porta alla trappola dell’esegesi. Una domanda pedante mi resta, però: quei boccioni. Cosa simboleggeranno mai? Non ho il coraggio di chiederlo a Vacis, sono certa che la parola “simbolo” sia stigmatizzata. Certo, potrei sempre porla in modo ruffiano: qual è la storia di quei boccioni? Mi risponderebbe? Alla fine non lo faccio. Ce lo chiediamo dopo, tra noi, attraversando il parco Ducale. Sappiamo tutti qualcosa di questo modo di lavorare, lo abbiamo assaggiato sul nostro corpo. «Quei boccioni?», chiedo. «Sono strumenti di scena: sono leggeri, permettono di costruire muri alti, sono trasparenti», risponde Simone. «Sì, ma perché dei boccioni?». «Forse perché sono di plastica, perché parlano della nostra società». «Per me hanno a che fare con l’acqua, con la vita», dice Angelica.
Per me sono i giorni tutti uguali, tutti vani, strumenti di bellezza caducità distruzione. «Volevo chiederlo a Vacis…».
Il giorno successivo provo con una delle attrici, Anna Chiara: «Sono strumenti di scena», mi risponde, con la semplicità esatta della gente di teatro. «Tarasco e Vacis li avevano già usati».
Per me sono i giorni tutti uguali, tutti vani, strumenti di bellezza caducità distruzione.

La parola padre è una produzione dei Cantieri Teatrali Koreja, un teatro alla periferia di Lecce, ex fabbrica restaurata vent’anni fa. Un posto dove vivere il teatro tutti i giorni, tutto il giorno, è stato detto.
Le attrici hanno anche dei cognomi, naturalmente, e sono: Irina Andreeva (Bulgaria), Alessandra Crocco (Italia), Aleksandra Gronowska (Polonia), Anna Chiara Ingrosso (Italia), Maria Rosaria Ponzetta (Italia), Simona Spirovska (Macedonia).

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Donata Cucchi

Laureata in filosofia, lavora per la casa editrice Zanichelli dal 2005. In precedenza ha lavorato per la Libri Scheiwiller. Ha inoltre collaborato con diverse case editrici, tra cui Mondadori, Utet, il Mulino. Da alcuni anni si dedica anche alla fotografia e al teatro (inteso come lavoro sulla persona).

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