«Non è per niente delicato e bello»

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Cos’è l’amore? Per Platone, dice Matteo Nucci, è una forza capace di attraversare le parti dell’anima e restituirci la nostra interezza. Purché accettiamo di misurarci con il dolore e la fatica.
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Un’immagine di scena dello spettacolo “Socrate il sopravvissuto/come le foglie”, di Simone Derai, in programma ad aprile al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano (https://www.piccoloteatro.org/it/). Photo © Giulio Favotto.

«Innanzitutto è sempre povero e non è per niente delicato e bello, come crede la maggior parte delle persone, ma è duro e sciatto e scalzo e senza tetto» – Eros, cioè, diciamo, l’amore. Convive con la privazione, perché è figlio di Penia, povertà. Ha preso anche dal padre, Poros, che ha l’intelligenza sveglia e scaltra di trovare la risorsa, il passaggio, l’espediente. E così l’amore – cioè, diciamo, Eros – è anche «sempre occupato a ordire trame, desideroso di saggezza e ricco di risorse, amante della sapienza per tutta la vita, terribile mago e incantatore e sofista».

Questa immagine piena di vividezza, indimenticabile, viene dal Simposio di Platone, tradotto e commentato da Matteo Nucci, ed esce dalla bocca di Diotima, sacerdotessa di Mantinea, donna e straniera, il personaggio (forse solo letterario) che inizia Socrate ai misteri erotici. E così Socrate può affermare, e fa strano sentirglielo dire, «di non conoscere nulla se non le questioni erotiche».

Beh, Socrate, ti dico una cosa: di questioni erotiche siamo esperti anche noi. Che l’amore – volevo dire Eros – sia una fatica l’abbiamo capito tutti da un pezzo, contrariamente a quanto sostiene lo stanco marketing di san Valentino. L’amore è povero e miserabile – poveri e miserabili ci ha fatto sentire – e al tempo stesso, proprio come dice Diotima, ci rende scaltri e ostinati, disposti a tutto, in uno spettro che va dall’abnegazione al crimine, come leggiamo nella cronaca nera e nelle tragedie greche. E anche quando è felice, l’amore odora di perdizione, quantomeno perché tende a non esserlo mai molto a lungo.

Ma questo è il discorso di un cinico!, si potrebbe obiettare. Sì, certo che lo è. E vale assai poco. Se ascoltiamo un po’ più a lungo Diotima, infatti, notiamo un altro aspetto di Eros – «non è nato immortale né mortale, ma nello stesso giorno fiorisce e vive, quando trova la buona risorsa, eppoi muore, e di nuovo torna a vivere» – e la sua natura comincia a chiarirsi. Eros è una forza che mette in comunicazione il divino e l’umano, e in questo senso è forse ciò che di più prezioso siamo portatori. Non è una divinità, è un demone, che mette in comunicazione mortali e immortali, è potenza portatrice di una spinta sintetica. Come sentimento, fa comunicare le parti basse e le parti alte dell’anima, è in grado di attraversarle e di tenerle unite, di aiutare l’anima – si direbbe oggi – a raggiungere un’organicità.

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Carnelutti e Nucci al Festival della Mente di Sarzana, 2017. Photo © Donata Cucchi.

Ho incontrato Nucci, scrittore, reporter e studioso del pensiero antico, all’ultima edizione del Festival della Mente di Sarzana, il cui tema era la Rete: e i suoi tre incontri, incentrati sulla rete di Eros, descrivevano come questi, con la sua forza liquida, riesca, secondo Platone, ad attraversare le tre parti dell’anima, per renderla unita, compatta, per tenerla avvinta in una rete superiore.

Nel Fedro Platone parla della tripartizione dell’anima attraverso l’immagine della biga alata, con un auriga che guida una pariglia di cavalli, uno nero e uno bianco. L’auriga è la parte razionale. Il cavallo nero rappresenta gli appetiti animali – soprattutto sessuali – mentre al cavallo bianco spetta la parte mediana e mediatrice, quella più forte, che ha a che fare con l’amor proprio: orgoglio, collera, coraggio, animosità. Il cavallo nero ha la funzione di avvicinare, con l’impeto dei suoi appetiti, all’amato. È la prima fase dell’amore, l’innamoramento. Eros irretisce con la forza degli aphrodisia, i desideri afrodisiaci, e l’amore si esprime attraverso il sesso ma anche il falso idolo della simbiosi – e qui sta l’insidia. Ogni parte dell’anima sembra infatti tendere alla reiterazione, a una cristallizzazione portatrice di morte.
Nella rete del sesso simbiotico l’amore muore, e Nucci, nel primo incontro del Festival, paragona questa condizione alla trappola che Efesto, fabbro e orafo abilissimo, ha calato per imprigionare durante un amplesso la fedifraga Afrodite e Ares. La dipendenza sessuale – che ha la dinamica della tossicodipendenza, dice Nucci, che riempie e svuota – può diventare asfissia, oppure, ed è il caso di Paride nell’Iliade, bloccare la possibilità di una vera maturazione. L’amore di Paride per Elena è un amore che resta confinato al desiderio carnale e questo fa di Paride un uomo mediocre, che non si confronta con le contraddizioni e con la fatica che Eros, nel suo percorso attraverso l’anima, ci invita a compiere.

Incontro Nucci a ora di pranzo in una Sarzana assolata. È domenica. Il giorno prima ho assistito alla sua lezione numero due, dedicata alla parte mediana dell’anima (e ho ascoltato i testi letti dalla voce straordinaria di Valentina Carnelutti, che lo affianca da sempre in queste lezioni).
Mi ero preparata delle domande che ho dovuto rivedere un po’. Avevo immaginato Eros come la libido freudiana, invece mi rendo conto che stiamo parlando di una forza che si esprime in primo luogo attraverso l’erotismo e l’amore e se giunge – perché giunge – a essere amore per la sapienza (ricordate la definizione di Diotima? Eros è amante della sapienza per tutta la vita), ciò non avviene per sublimazione, ma sempre in una dinamica di relazione.
Nell’incontro del giorno prima Nucci ha parlato di Medea. Eros accede alla parte mediana dell’anima, quella dell’orgoglio, in genere nel momento del tradimento, che è un’occasione di dolorosa riappropriazione di sé. Medea ha una personalità raffinata e complessa, ma più l’anima è grande, maggiori sono i vizi e le virtù di cui è capace, osserva Nucci. Tradita da Giasone, compie il gesto più osceno di uccidere i figli avuti con lui per vendicarsi.
D’altro canto, se Medea è un esempio di anima che soccombe alla rete della collera in cui precipita, Menelao è invece l’esempio di anima temperata, di un uomo orgoglioso che cerca di riconquistare la propria donna con coraggio ma anche con misura. La sua collera non è, come invece quella di Medea, «ira immedicabile».

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Maria Callas è Medea per Pier Paolo Pasolini, che girò il film a Göreme (Cappadocia) nel giugno 1969.

Ci vediamo poche ore prima della sua ultima lezione, dedicata alla parte razionale dell’anima. Gli chiedo se dobbiamo intendere razionale nel senso aristotelico, di razionalità come ragione discorsiva. E se quindi è una parte del percorso erotico affidata alla parola. «Sì, lo è», mi risponde, «ma senza esagerare, o si cade nell’ennesima rete, quella del logos» – e vengono in mente le coppie che parlano, discutono e invece di capirsi si avviluppano su sé stesse.
Mi colpisce che per lui la parola sembra avere a che fare con la possibilità di creare relazione. È indubbio però che esistono altri tipi di relazione – penso al mondo animale, ma anche all’azione scenica – che non sono basate sulla parola e che sono più esatte, meno fraintendibili. «È vero, ma che la parola sia fraintendibile, che ci comprendiamo quindi solo fino a un certo punto, è una cosa positiva, secondo me. Perché la parola non arriva mai a svelare il mistero, lo lascia intatto».

Nell’Odissea, ritroviamo Elena e Menelao insieme, a Sparta, in totale armonia. Come è stato possibile? Omero, che è maestro di omissione, non ce lo dice. Possiamo però fare delle supposizioni. Possiamo supporre che nel viaggio di ritorno da Troia abbiano potuto raccontarsi, che forse Elena, assai abile con le parole, abbia ricucito il rapporto con la tessitura delicata di verbi e nomi. Ma le parole non sarebbero state sufficienti – non lo sono. La ragione discorsiva deve essere accompagnata dalla capacità di vedere la bellezza dell’altro. Non l’eumorphia, la bellezza delle forme, né della giovinezza, né tantomeno la cosiddetta bellezza interiore, espressione vaga per un concetto assai poco convincente. Piuttosto, la bellezza che ha in mente Nucci – cioè Platone – è un’altra, quella, per esempio, di Socrate: è kallos, bellezza dell’interiorità quando si mostra nel corpo, con il modo di fare, lo scintillio dello sguardo, in quelle rughe dov’è tracciata la storia della nostra espressività, della nostra fatica.

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Matteo Nucci. Photo © Lorenzo Pesce.

Siamo arrivati al culmine del percorso erotico: Eros è passato con la sua natura liquida attraverso l’anima, si è liberato dalle reti che esso stesso ha costruito volta per volta. Siamo arrivati all’anima che raggiunge un momento di pienezza, di sintesi. Ma siamo arrivati davvero? Attenzione: il movimento di Eros non è ascensionale, è piuttosto un flusso che sempre ricomincia – e Nucci disegna un cerchio sul tovagliolo di carta del ristorante, accanto ad altri che ha tracciato via via per accompagnare le sue spiegazioni. «L’amore platonico non è per niente platonico! Eros non giunge alla parte razionale dell’anima per fermarsi lì, ma continua ad attraversare tutte le parti, a ricominciare dal desiderio».

Questo è l’amore. E se in esso l’anima trova la sua unità – un’organicità, un miglioramento, una maturazione, per dirla in parole più vicine alla nostra sensibilità – allora non solo l’amore ha un senso etico profondo, ma il suo percorso – trascinante e spesso doloroso, scandito anche dalla paura e dalle lacrime, quelle lacrime e quella paura con cui gli eroi omerici di Nucci, proprio perché esseri umani pieni, hanno il coraggio di misurarsi – pare indicarci che solo la fatica è condizione per una trasformazione interiore.

«Ci sono eccezioni?», chiedo.
«No. Qualsiasi miglioramento è difficoltà».


NOTE: le lezioni che Matteo Nucci ha tenuto al Festival della Mente si possono ascoltare qui; l’edizione del Simposio a cui faccio riferimento è: Platone, Simposio, traduzione e commento di Matteo Nucci, introduzione di Bruno Centrone, Einaudi, Torino 2014.

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Donata Cucchi

Laureata in filosofia, lavora per la casa editrice Zanichelli dal 2005. In precedenza ha lavorato per la Libri Scheiwiller. Ha inoltre collaborato con diverse case editrici, tra cui Mondadori, Utet, il Mulino. Da alcuni anni si dedica anche alla fotografia e al teatro (inteso come lavoro sulla persona).

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