“Giovanissimi”, di Alessio Forgione

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Alessio Forgione, con “Giovanissimi”, ci porta in quota con apparente semplicità e grande tenuta, restituendoci lo straordinario sentire dell’adolescenza e la violenza ordinaria della periferia di Napoli.

Giovanissimi ForgioneSe c’è un romanzo di cui vorrei parlare qui, su una rivista pensata per chi studia e insegna, è Giovanissimi, il secondo romanzo di Alessio Forgione, pubblicato da NNE.
Entrato nei dodici titoli selezionati per il Premio Strega di quest’anno, Giovanissimi è un libro splendido, anche se non perfetto, con un finale crudele che spezza il climax di ardente dolcezza che l’aveva preceduto. Segue di appena due anni il fortunato e notevole esordio dell’autore con Napoli mon amour, uscito sempre con NNE e vincitore del Premio Berto 2019 e del Premio Intersezioni Italia-Russia.

La trama

Giovanissimi racconta in prima persona e al passato remoto un anno della vita di Marocco, un ragazzino di quattordici anni, un giovanissimo – «se agli errori commessi da giovani si può rimediare, ho pensato che a quelli commessi da giovanissimi, forse, no», ha detto l’autore in un’intervista –, un adolescente che vive a Soccavo, quartiere periferico di Napoli, più defilato dalle cronache dei giornali e meno turbolento rispetto ad altri, come Scampia per esempio, silente, dimenticato, senza cinema né teatri, con i mezzi pubblici che dopo una certa ora non passano più. Un quartiere che si chiude sulle persone più per inerzia che per seduzione, in cui la malavita non ha la forma di un animale che ti afferra ma quella di un’opzione come un’altra nel vuoto di entusiasmo e vera gioia, e la violenza è spaventosa soltanto a posteriori, a cosa fatta, prima è niente più che una reazione veloce e irriflessa, per la quale a volte si pagano le conseguenze e a volte no.

Marocco vive con il padre e la mancanza lancinante della madre, che se n’è andata un giorno di luglio di cinque anni prima. Il padre è un uomo onesto e taciturno, di ruvida amorevolezza, uno dei tanti maschi antichi con pochi strumenti per rapportarsi al figlio, e ancora meno per confrontarsi con la moglie; perché, scopriamo poi, la moglie se n’è andata proprio dopo l’ennesima litigata sul modo di tirare su Marocco – lei morbida come acqua che scivola sulle regole, lui rigido e convenzionale, in uno sforzo educativo che è angoscia di proteggere – e non è tornata più. È diventata come uno di quei fantasmi di cui legge Marocco nei giornaletti che parlano di alieni e paranormale, di finti sbarchi sulla luna e della possibilità degli spiriti. (Fantasmi era uno dei titoli papabili per Giovanissimi, pare).

La madre bionda di Marocco è il thanatos che pervade il romanzo, diviso non per niente in cinque parti come le fasi del lutto (Rifiuto, Rabbia, Patteggiamento, Depressione, Accettazione), così come Serena, la ragazza di cui si innamorerà Marocco e che fa la sua comparsa a metà del libro, è l’eros che cura e che al thanatos si contrappone come unica valida, ma non scontata, alternativa – perché l’amore per la madre mancante è prima di tutto amore, con tutte le sue malie, un amore che toglie e che divora ma pur sempre amore, quindi un abisso che chiama, «un vuoto che saltavamo e in cui, altre volte, sprofondavamo», il filo di lama su cui si muove Marocco, su cui si gioca la sua conquista di sé.

Per gran parte del libro, il protagonista si tiene, portato dal caso, sul crinale tra vita e non-vita, tra crescita e regressione, tra scelta di sé e conformismo: gioca a calcio (molto bene) perché giocare a calcio è la normalità per un ragazzino italiano, soprattutto alla fine degli anni novanta; va (molto male) a scuola, perché come tutti ci deve andare; spaccia fumo, perché glielo propone l’amico che ha più vicino, Lunno (Lunno da unno, cioè: “l’unno”; un altro maschio antico, di poche parole, azioni precise e muta affettività, per certi versi simile al padre di Marocco, ma meno in difficoltà, completamente a suo agio nei protocolli arcaici del rione) e lo fa di mala voglia all’inizio, succube dell’amico più grande, per poi scoprirsene ben contento ad attività avviata, perché questo gli dà finalmente un carisma agli occhi dei suoi coetanei.

Quando arriva Serena, Sereni’, le cose cambiano: «così viva, così incontrollabile, piena di energia, così mi appariva. Una bomba piena di chiodi e pezzi di vetro che scoppia e chissà dove arriva tutto quello che c’è all’interno»; l’aggettivazione si infittisce, la luce di Napoli irrompe con l’occasione di una gita al mare, una delle pochissime scene che si svolgono fuori dal quartiere. Serena porta con sé il primo bacio – che lui finge di aver già dato («Bugiardo!», commenta lei dopo) – e il primo sesso con un’altra persona («Chiusi gli occhi e venni e in quel momento, più di morire, mi sembrò che quella era la prima volta che non stava accadendo, che non stavo morendo davvero»).

Con l’arrivo di Serena, Marocco deve scegliere di lasciare andare la madre. «Piansi. Con le lacrime, ma senza fare rumore. Perché non c’era una parola o un mio gesto che l’avrebbe convinta a volermi bene. Perché l’amore non è una misura relativa, poco o molto, ma c’è o non c’è. Perché dovevo vivere, ma senza di lei». E ancora, qualche pagina dopo: «In un angolo della mia testa, mattone dopo mattone, muravo viva mia madre, per lasciare il resto dello spazio al resto della mia vita».

Forgione ritratto Di Pinto
Alessio Forgione ritratto da Manuel Di Pinto. © Manuel Di Pinto

La periferia

Alessio Forgione è un giovane scrittore napoletano nato nel 1986, che ha vissuto per un certo tempo a Londra, come leggo qua e là, ma che molto evidentemente mantiene un rapporto con Napoli tanto intenso quanto ponderato.

L’aspetto più evidente di questo rapporto è nella scelta di ambientare le sue storie a Napoli, anzi nel fare di Napoli un personaggio della storia, la Napoli delle vie del centro nel romanzo primo e la Napoli che si restringe e si svuota e si chiude sulla vita del rione in questo libro secondo – la Napoli che si riduce a Soccavo, dove si svolge la quasi totalità della vicenda di Giovanissimi, un quartiere evocato ma mai chiamato per nome, perché Soccavo è un po’ qualsiasi periferia.

«Con questo romanzo», ha detto l’autore quando alla fine di febbraio è stato ospite a Fahrenheit «volevo parlare di due cose: dell’adolescenza e della vita in periferia». Forgione è cresciuto a Soccavo e non nasconde il fastidio per come sono portate avanti le narrazioni contemporanee della periferia e di Napoli – che non sono la stessa cosa ma che, nel suo parlare, tendono a sovrapporsi –, soprattutto da chi napoletano non è, persone che «prendono, derubano e partono alla ventura».

Questa visione ha come conseguenza che l’autore non scrive in napoletano, nonostante il napoletano sia la sua prima lingua, e Giovanissimi sia un libro che parla napoletano, anche se è scritto in italiano, come parlano napoletano i romanzi in italiano di Anna Maria Ortese, Raffaele La Capria, Ermanno Rea. «Napoli è uno dei pochi brand culturali che l’Italia ha», spiega Forgione. «E quando uno non è molto bravo a fare quello che fa, si aggrappa a quello che trova e il napoletano è una cosa che si trova e che viene saccheggiata».

Per la narrazione della vita in periferia il fastidio è simile. La violenza è in genere resa straordinaria e spettacolarizzata, lo scavo psicologico nei personaggi quasi inesistente (lasciato al romanzo borghese, aggiungo io, con le sue estenuanti paturnie su fedeltà e infedeltà). Forgione invece sceglie di rendere normale lo straordinario, la violenza e l’illegalità, così come riesce a rendere straordinario ciò che è normale: la meraviglia di un bacio, la vertigine di ubriacarsi con una birra dietro l’altra, la bellezza senza fiato di una ragazza che si toglie il reggiseno, ma anche semplicemente la curiosità di assaggiare una sambuca.

Gli episodi di violenza e illegalità ci sono e sono spietati, ma sembrano irradiare tutta la loro carica solo a posteriori. Nel momento in cui accadono sono secchi e semplici, reazioni fisiche a una parola di troppo, l’avversario che in una partita di calcio insulta la madre di Marocco e lui per reazione gli rompe un braccio (ma tanto nessuno, a parte suo padre, lo vede); quello che cerca la rissa con il nuovo fidanzato di una ex, e questo fidanzato è Gioiello, un compagno di squadra di Marocco, e Gioiello non si fa pregare e taglia la gola al rivale (finendo, lui sì, in prigione); c’è Lunno che difende Marocco tirando fuori un coltello e ferendo il ragazzo di un altro quartiere (e per i due, per Marocco e Lunno, si apre un periodo di latitanza dalle strade nel timore di ritorsioni ma poi, anche questa volta, a Marocco non succede niente, come niente gli succederà per lo spaccio di droga); e infine c’è Fusco, un altro compagno di squadra di Marocco, che si fa coinvolgere in un furto d’appartamento (per caso, come gli altri, come molti: «Nessuno fu felice eppure nessuno disse di no. Ne parlarono a bassa voce, poi si videro in un posto isolato e risero e progettarono e scambiarono l’agitazione con l’entusiasmo») e all’arrivo della polizia si butta dalla finestra e muore.

Alessio Forgione © Roberta Basile
Alessio Forgione © Roberta Basile

La lingua

«Non è stato difficile calarmi nei pensieri di un adolescente. La cosa difficile, semmai, è stato trovare una lingua», ha detto Forgione.
La lingua di Giovanissimi è un italiano diretto e immediato, pulito, con una sintassi molto semplice nelle scene di azione, più intensa quando scandaglia l’interiorità e i sentimenti, con un vocabolario contenuto e metafore di grande efficacia.
«Nello spogliatoio parlarono di quanto era accaduto senza alcun pudore, senza la minima tenerezza, come se non lo conoscessero, come se stessero parlando di uno qualsiasi. Mi sembrò che toccassero un cadavere con un bastone, per lo schifo, per la puzza, non pensando che anche quel cadavere, finché era stato in vita, aveva amato ed era stato amato a sua volta».

Ho letto che questa semplicità dello stile riflette la semplicità degli avvenimenti. Ho letto anche che è una lingua convincente per restituire l’italiano di un quattordicenne. Tutto giusto senz’altro, ma per me, soprattutto, questa lingua è la voce di uno sguardo, dello sguardo intatto di un adolescente che è qualsiasi adolescente, non solo questo, questo ragazzino napoletano che va male a scuola, gioca benissimo a calcio, spaccia e vive come un orfano. È anche la mia, che sono una donna e sono stata adolescente dieci anni prima di Marocco, che vengo da una famiglia borghesissima del nord e a scuola andavo bene.

L’adolescenza è per tutti il crinale pericolosissimo dove bisogna scegliere sé stessi, dove prendere le distanze dalla famiglia è la prima affermazione inevitabile («Ok, mi dissi e continuai spiegandomi che non potevo e non volevo evitare di fare le cose che mi andava di fare solo per la paura di ferirlo o di farlo arrabbiare»), e lo è ancora di più, successivamente, trovare un affettuoso distacco dagli amici («Lunno, mio amico e anche la persona a cui avevo scelto di non assomigliare»), perché l’adolescenza è un periodo di grande conformismo e solitudine, e la scelta di Forgione di aver privato il suo protagonista della madre è in fondo un modo per renderlo ancora più solo – ancora più giovane.

La fine

«M’infilai le scarpe e cercai di non guardarla e mi accorsi che nemmeno lei guardava me. Fu così che pensai che nel primo ciao che ci si dice è compreso anche l’addio e che l’inizio è solo l’inizio della fine e che ogni incontro non è altro che un lungo abbandono, centellinato goccia a goccia, lento», riflette Marocco dopo il primo sesso con Serena.

Per tutto il romanzo aleggia un senso sottile di calamità. Ed è giusto, perché l’adolescenza è anche rischio continuo, è «la pistola carica e senza sicura» dell’amore ma anche il pericolo spietato delle conseguenze dei propri errori, e tra queste c’è anche morire.

Il finale di Giovanissimi è estremamente drammatico, per non dire agghiacciante.
La voce narrante perde compostezza e abbandona la messa a fuoco che aveva tenuto fino a quel momento, quell’esatta distanza dal personaggio, per allargarsi al futuro, in un movimento che non è né liberatorio né struggente, ma solo orribile, come se sul volto di un adolescente affiorassero insieme tutti gli anni a venire.


Ringrazio Manuel Di Pinto, per il ritratto ad Alessio Forgione, e Christian Raimo, per le sue idee su come scrivere una recensione e la sua etica della chiarezza e dell’onestà.

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Donata Cucchi

Laureata in filosofia, lavora per la casa editrice Zanichelli dal 2005. In precedenza ha lavorato per la Libri Scheiwiller. Ha inoltre collaborato con diverse case editrici, tra cui Mondadori, Utet, il Mulino. Da alcuni anni si dedica anche alla fotografia e al teatro (inteso come lavoro sulla persona).

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