Il passeggero: McCarthy e il linguaggio

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Nel suo ultimo romanzo, più che raccontare una vicenda o un intreccio di storie, lo scrittore statunitense predilige una sorta di lento inabissarsi nelle parole; un viaggio al limite del silenzio.

 

Confesso, in via iniziale, così che il lettore lo sappia, che questa non è una recensione de Il passeggero di Cormac McCarthy (trad. M. Balmelli, Einaudi 2023), ma una riflessione sulla lettura di questo testo, che esito a chiamare romanzo; anzi, il bisogno di scrivere queste righe nasce proprio da questa riluttanza a parlare de Il passeggero come di un romanzo.

Se dovessi usare una definizione provvisoria di quest’opera, direi che mi trovo davanti alla possibilità di costruire un personaggio adatto per una tragedia. McCarthy fa di tutto per mostrarci una persona alle prese con la necessità e il destino; queste due caratteristiche innervano il tragico e in modo più compiuto e visibile il teatro classico: in questo senso il legame tra fratello e sorella, contrario a ogni legge morale moderna, ma antico, profondo, vietato e, quindi, per questo tragico, produce nel protagonista de Il passeggero una chiusura dell’orizzonte intorno a lui, una riduzione dello spazio di azione, fino al silenzio finale.

C’è da dire che Il passeggero ha un inizio indubbiamente romanzesco. Fermiamoci, ad esempio, al preludio: un suicido (di Alicia) e il buffo apparire, comico e grottesco, del Kid e delle altre “visioni” schizofreniche della protagonista sembrano portare il lettore nel campo e nel territorio del romanzo (lo stesso nome della protagonista appartiene all’ambito della narrativa), anzi, sembrano un grande omaggio al “romanzo”, alla discrasia tra realtà e immaginazione, alla riflessione sull’identità e alla fragilità della stessa che sono tipiche del romanzo moderno: penso in particolare al Don Chisciotte di Cervantes.

Anche quando la narrazione entra nel vivo, McCarthy gioca con l’immaginario romanzesco: l’aereo, il passeggero mancante, l’arrivo dei “sicari”, c’è tutto per costruire una certa narrazione, un certo movimento, che come lettori ci aspettiamo. A questo punto, però, nella costruzione della storia, McCarthy inizia a sabotare la sua stessa immaginazione, fa diventare l’immagine del passeggero mancante non tanto uno spunto per una possibile narrazione picaresca – e dire che c’erano tutte le possibilità, e dire che in parte pareva che lui stesso avesse considerato questa possibilità costruendo una serie di personaggi di contorno, gli amici di Bobby, che con le loro idiosincrasie e le loro originalità erano in un certo senso garanzia del romanzesco – ma come allegoria e simbolo del rapporto tra Alicia e Bobby: quel vuoto, quella mancanza, sono il nucleo irradiante della storia.

Assistiamo così nelle pagine a un progressivo sabotaggio del romanzo come strumento di comprensione del mondo: Bobby e i suoi dialoghi innescati quasi sempre da occasioni, da pretesti, che fungono appunto come tali, non hanno nessuna ragione per far progredire la storia, ma anzi la fanno implodere in sé stessa. Si pensi solo a tutti i possibili sviluppi di trama: i federali e il passeggero mancante, il passato del padre e la bomba atomica, la vita da pilota di Formula 2, la vicenda dei lingotti e del violino di Alicia, le visite alla Stella Maris, lo stesso suicidio di Alicia. Ognuna di queste avrebbe potuto produrre un romanzo diverso se fosse stata seguita sino in fondo, ma nella realtà McCarthy vuole l’esatto contrario: vuole che Bobby, il personaggio che incarna il romanzesco, si svuoti di queste possibilità, e aderisca il più possibile alla realtà, alla cosa in sé che è il mondo, che si faccia in tutto e per tutto non letteratura, ma esistenza, che in qualche modo diventi un nuovo strumento per dire il mondo.

Credo che questo sia perfettamente visibile proprio in quella alternanza che nel corso della storia McCarthy produce: ogni capitolo de Il passeggero è introdotto da un flashback dove a dominare è la figura di Alicia e il dialogo con i suoi daimon casalinghi; anche soltanto per questa meccanicità (ogni lettore sa che il capitolo successivo inizierà con la storia di Alicia, evidenziata dal carattere corsivo), che rende prevedibile il romanzo, ci mostra come a McCarthy interessasse altro – in particolare articolare sempre più profondamente il nesso Alicia e Bobby e il progressivo abbandonarsi di Bobby in Alicia.

Entrambi i fratelli sono definiti in base a una scienza: a rappresentare Bobby è la fisica, mentre a per Alicia è la matematica. Entrambi vogliono, sentono il bisogno di descrivere e di dare del mondo una rappresentazione, ma fisica e matematica mostrano due mondi diversi, descrivono due mondi diversi: la fisica è, se vogliamo, la ricerca di un disegno di relazioni, di un reticolo di leggi che ci permetta di comprendere perché le cose accadono, ma non è un linguaggio, è un racconto, è una narrazione; la matematica invece è essenzialmente un linguaggio, è indipendente dal mondo, ne è in un certo senso il principio, non tanto in senso di nesso causale, ma in senso temporale: di fatto la matematica viene prima nella fisica.

Bobby e Alicia rappresentano, lo vediamo nel corso del romanzo, queste due tensioni, questi due modi di guardare al mondo: e Il passeggero è appunto la scelta di Bobby di recidere piano piano, con lentezza e cura, tutti i suoi legami con il mondo (fisica) e diventare una cosa sola, avere come unico orizzonte di senso e di vita la sorella Alicia (matematica). Simbolicamente assistiamo, quindi, al farsi solo linguaggio di Bobby: il personaggio romanzesco ha perduto il romanzo, ha perduto la strutta del romanzo, non sente il bisogno di camminare per le assolate lande della vita umana, lungo l’orizzonte del mondo in cerca di avventure (e dire che ne avrebbe avute le occasioni) e si ritira in sé stesso, perché «ogni realtà è perdita e ogni perdita è definitiva» (p. 380).

Nelle pagine finali del romanzo leggiamo queste righe: «Si chinò sulla sua grammatica alla luce della lampada. Con il tetto di paglia che sibilava nella campana di tenebre sopra di lui e la sua ombra sulla superficie grezza del muro. Come quegli studiosi dei tempi andati che sgobbavano sui loro rotoli nelle loro fredde stanze di pietra. […]. Alla fine si sporse e raccolte le mani intorno al cilindro di vetro e soffiò sulla fiamma e si stese nel buio. Sapeva che quando sarebbe morto avrebbe visto il suo volto e sperava di portare con sé quella bellezza nelle tenebre, ultimo pagano sulla terra, cantando piano sul suo giaciglio in una lingua sconosciuta» (Il passeggero, p. 385).

Il finale del romanzo è la descrizione della avvenuta trasformazione di Bobby. Egli non è più un personaggio, ma è un canto, una salmo in una lingua sconosciuta; Bobby non è più una persona (per usare la terminologia di Forster in Aspetti del romanzo), ma diviene una sorta di “tropo”, una figura retorica – in particolare, quella della notte che scende e dello scrivere nelle tenebre, che è appunto topos antico: lo scrittore chino a lume di candela, nel suo scriptorium, nella solitudine, la notte che scende, e dice: «[…] questo è compiuto./ I giorni non sono lunghi, ben presto farà notte/scrivere nelle tenebre è un’impresa penosa» (G. de Berceo, Santa Oria, cfr. E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, trad. A. Luzzatto, M. Candela, C. Bologna, a cura di R. Antonelli, Quodlibet, Macerata 2022, p. 133).

Alla fine del suo viaggio Bobby non è più una persona, non né neppure più un personaggio tragico, come avevamo visto inizialmente dominato dalla necessità e dal destino, ma si sfalda nel semplice linguaggio. McCarthy, giunto anche lui al limitare della sua esistenza, smette di fare letteratura, smette di produrre romanzi, affronta in una catabasi spericolata ogni genere letterario, ogni scelta stilistica, ogni struttura narrativa, la smonta, la seziona, trovando infine non la solita opposizione tra letteratura e vita, ma a quella, più vivificante, tra letteratura e linguaggio. Sceglie infine quest’ultimo, perché così come «la matematica non è la fisica. Le scienze fisiche si possono raffrontare l’una con le altre. E con quello che presumiamo essere il mondo. La matematica non può essere raffrontata con niente» (Il passeggero p. 287), allo stesso mondo il linguaggio non è la letteratura, la letteratura può presumere il mondo, il linguaggio invece non può essere raffrontato con niente: esiste in sé.

È lo scacco della letteratura, del romanzo, dell’arte come possibile intuizione (il presumere di prima) del mondo: «Quello che scrivi si fissa. Acquisisce i limiti di qualsiasi entità tangibile […] salvo rare eccezioni non puoi più coltivare l’illusione che racchiuda una qualche comprensione profonda dei fondamenti della realtà. Di fatto, comincia a sembrare uno strumento» (Il passeggero, p. 298).

E così McCarthy racconta il nostro inabissarsi dentro il linguaggio, il nostro diventare solo linguaggio e quindi il nostro farci muti, e consegna al silenzio i suoi personaggi, lui stesso e infine noi.

 

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Demetrio Paolin

vive e lavora Torino. Collabora con il «Corriere della sera». Ha scritto saggi e romanzi. Nel 2016 è stato tra i 12 finalisti del premio Strega con il romanzo “Conforme alla gloria” (Voland). Il suo ultimo libro è “Anatomia di un profeta” (Voland).

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