Il monstrum: un ragionamento sul fantastico

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La pubblicazione del volume “Monstrorum historia” (Moscabianca Edizioni) di Ulisse Aldrovandi riapre una riflessione sul fantastico e sul complesso intreccio tra grottesco, reale, memoria e fantasia all’interno della nostra letteratura.

 

1. Ho tra le mani il bellissimo – per formato, disegni, impaginato – libro di Ulisse Aldrovandi edito da Moscabianca edizioni, Monstrorum historia, tradotto dal latino e curato da Lorenzo Peka. Le molte riproduzioni delle tavole originali e i testi fanno di questa Historia una enciclopedia dello stravagante, dello storto e del queer. Vedere nell’Historia, però, una semplice enciclopedia dei mostri sarebbe un errore: il testo è, anche, un trattato di fisiologia & medicina, un saggio di mitologia, un ricettacolo di leggende, oltre a rappresentare una riflessione sul limite tra ciò che è umano e ciò che non lo è.

Per rendersene conto è sufficiente dare uno sguardo all’indice (ordinis ratio) a p. 310 – va segnalato che l’indice del libro di Aldrovandi e quello dell’edizione curata da Peka non sono corrispondenti – nel quale possiamo notare una progressione dal cap. I: De homine fino al cap XIII: De monstris coelestibus e nel mezzo ecco apparire il “mostro” (cap II) o le anomalie delle singole parti del corpo (cap V).

2. Pur nulla togliendo ai criteri di scientificità che animano il libro, la sua parte più interessante e moderna sta appunto nella riflessione sul concetto di mostruosità. Aldrovandi pone l’accento sull’idea di singolarità e su una sorta di prossemica del gesto; mostro è colui che viene additato: «viene osservato come qualcosa di singolare; e per stupore viene mostrato, cioè indicato con il dito» (p.115). È di certo interessante questa idea di “indicazione”: il mostro segna al suo apparire qualcosa che non riusciamo a comprendere, che mostriamo agli altri per affrettarci a sostenere di non avere nulla a che vedere con esso; allo stesso tempo, nell’atto di indicare il monstrum come altro da noi, nel nostro stupirci della sua alterità, noi lo riconosciamo come nostro prossimo e vicino. Affinché ci sia un mostro, è necessario postulare una “norma”.

Il mostruoso si dà in primo luogo nello sguardo, nel modo con cui si osserva il suo apparire fenomenico e nel tentativo di rendere intellegibile (id est visibile, ed ecco perché le tavole con i disegni) ciò che non lo è. Così, nello scorrere con curiosità queste pagine, pubblicate per la prima volta nel 1642, viene da chiedersi: cosa ne è oggi di questa congerie di mostri, arpie e imbronciati fanciulli dalla testa di elefante? E perché l’aggettivo fantastico indica ormai, quasi esclusivamente, un genere letterario per molto tempo considerato minore?

3. Per risolvere questo dubbio, riprendiamo la definizione/descrizione di mostruoso legata allo sguardo; essa ci riporta a ri-leggere uno dei più bei racconti del nostro primo Novecento: Pesci rossi di Emilio Cecchi. Il testo, posto in apertura dell’omonima raccolta, è una riflessione sull’Oriente e l’Occidente, che parte dall’osservazione di un acquario in un caffè. Il narratore nota come, a seconda del punto di vista, i pesci nell’acquario possano “essere” dei semplici animali, comuni e quotidiani, o dei demoni dell’immaginario orientale: «Di profilo erano piccole triglie e sardelle purpuree. Di faccia erano vecchi mostri arcigni dell’epoca dei Han; draghi imbronciati». In un certo senso, il mostruoso ha a che fare con l’esotico, con ciò che non è qui e ora, con qualcosa che noi percepiamo fuori dalla nostra orbita di normalità; Cecchi, ancora, porta l’esempio di un cavallo di bronzo: «bastava [che] mi spostassi di pochi palmi e questo cavallo si trasformava in una truce chimera». C’è in Cecchi – riguardo al fantastico – una sorta di movimento di identità (che ricorda Aldrovandi e il gesto dell’indicare) tra «l’essere simili a sé stessi» ed «essere fuori da sé stessi»; questo spostamento è ben reso nell’incipit del racconto: «[…] soltanto visti di profilo eran pesci veri e propri. […] Quando davano un colpo di coda, un guizzo, e si mettevano di fronte, la cosa cambiava. La loro faccia dalla grande bocca arcuata diventava sotto la fronte montuosa una maschera rossa di malinconia impersonale e disumana». Di questo brano è utile sottolineare l’aggettivazione, afferente alla sfera del “non-più-umano”: sia il termine impersonale che disumana contengono un riferimento chiaro all’uomo.

Due pagine del volume – © Moscabianca edizioni.

4. Le illustrazioni della Historia sono simili alle sculture che un osservatore può ammirare sui portali delle chiese medievali: chimere, arpie, esseri umani con arti bestiali, bestie con fattezze umane, esseri stravolti, dove la precisione del dettaglio – disegnato/cesellato con cura – si unisce all’anomalia della giuntura: siamo nel regno del grottesco, ovvero la trasformazione dell’uomo in ciò che non è più, o in qualcosa che non è ancora. Uno degli autori che massimamente esperimentano il “grottesco”, capace di produrre mostri o esseri che parodizzano il concetto di normalità, è Dante: pensiamo a Cerbero, ai Centauri, ai Diavoli di Malebolge e a Satana, vero e proprio stravolgimento della natura trinitaria; ma il monstrum dantesco non è materia solo infera, non sta soltanto nell’abisso e nella negazione. All’opposto, è qualcosa per l’appunto di “eccentrico”, esotico alla nostra mente. Non è, difatti, “mostruosa” la descrizione della Vergine Maria in Par. XXXIII?

Vergine madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,

tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.

Si intenda “mostruoso” come qualcosa che è perennemente in ossimoro: vergine/madre, umile/alta, più che creatura/umana natura; essere figlia del proprio figlio, essere colei che crea chi l’ha creata. Il fantastico, quindi, non è mera invenzione di una forma di estravaganza – forse può esserlo nella sua forma più semplice e banale – ma è spingere al limite l’idea di umano, immettere, nella logica della rappresentazione del reale, qualcosa di forzato, qualcosa che produce una tensione; quindi, lungi dall’essere solo una messa in scena del deforme, il fantastico è la riproduzione di un limite, quello tra finito e infinito; che se vogliamo è l’idea stessa della narrazione, ovvero di tenere o trattenere l’infinito della vita in una struttura finita (il testo).

5. L’Historia ci appare quindi come il tentativo enciclopedico di trovare una ratio a ciò che è irrazionale; in tal senso tutta la letteratura, per dirla con Manganelli, è per sua definizione fantastica, avendo a che fare con fantasmi, con simulacri di cose che non sono, con personaggi che si muovono come se fossero reali, ma prodotti di sintassi, parole, suoni.
Il fantastico e il mostruoso corrono sottotraccia nella nostra narrativa: Dante, Pulci, Ariosto, Tasso, Collodi con Pinocchio, Savinio, Palazzeschi, Buzzati, Calvino e Ortese; la lista potrebbe essere lunga, eppure il fantastico, nelle sue diverse declinazioni pare circoscritto a qualcosa di “bizzarro” o di minore.

A conferma di ciò, si pensi a uno dei libri più interessanti degli anni Sessanta: Storie naturali di Primo Levi, che contiene un racconto, Quaestio de Centauris, mosso dal medesimo spirito ibrido, tra il mitologico e lo scientifico, che abbiamo ritracciato nella Historia. Storie naturali ha una storia editoriale illuminante: il libro – nella sua prima edizione – viene pubblicato sotto lo pseudonimo di Damiano Malabalia. Perché questo? Perché questa scelta? In molti saggi sullo scrittore torinese, Alberto Cavaglion ha registrato il disagio dell’ambiente letterario nell’accogliere Levi come scrittore, relegandolo a testimone di un fatto tragico. Levi stesso, forse cosciente di questo pregiudizio, ha ritenuto, nel presentare il suo primo libro “da scrittore”, di mettere tra sé e il lettore un fragile divisorio, un nome di fantasia. Un nome per un altro, una sostituzione: proprio uno sguardo sulle varianti, sulle modificazioni e le riscritture dei testi leviani, e ne vedremo qualche esempio, potrebbe rivelarsi illuminante per lo statuto del fantastico, del mostruoso nella nostra letteratura.

6. Se questo è un uomo è un libro di cui disponiamo più versioni (teatrale, radiofonica, scolastica) e due edizioni differenti, la Da Silva e la Einaudi: tra la scrittura della prima versione e la pubblicazione della seconda passano una decina d’anni, un lasso di tempo che ci consente di scorgere alcune scelte stilistiche di Levi nella fase di riscrittura. In particolare, vorrei soffermarmi su una sostituzione utile al nostro discorso sul fantastico. Nel capitolo I sommersi e i salvati dell’edizione Einaudi leggiamo: «Essi [i Musulmanner] popolano la mia memoria della loro presenza senza volto»; nella edizione Da Silvia leggiamo: «Essi [i Musulmanner] popolano la mia fantasia della loro presenza senza volto». Sostituendo “fantasia” con “memoria”, Levi riconosce una polarizzazione: entrambi i lemmi fanno parte del vocabolario dantesco, in particolar modo al Paradiso, e contengono una tensione verso l’ineffabilità. La domanda da porsi è: se entrambi i lemmi afferiscono a ciò che non può essere detto, perché lo scrittore torinese arriva a compiere una scelta di modifica? Perché l’una invece dell’altra?

Si avverte nella lettura una sorta di sovrapposizione, come se, leggendo la versione Einaudi, si sentisse sotto, recalcitrante e ancora viva, la versione De Silva precedente. L’impressione è che, pur essendo fantasia e memoria in tensione, Levi desiderasse usarle entrambe, ma sentisse una sorta di divieto.

Quindi perché fantasia si trasforma in memoria? In questo caso si può produrre qualche ipotesi più certa: la memoria è ciò che definisce un testimone, la “fantasia” meno. Il lavoro di riscrittura si muove nella scelta del come presentarsi in quanto testimone, così come la scelta dello pseudonimo per la prima raccolta di racconti tradisca la volontà di presentarsi come scrittore di finzioni.

Si potrebbe fare una supposizione: durante la prima stesura di Se questo è un uomo Levi si sente uno scrittore (ci sono alcuni dati documentali in questo senso), tale dato di identità viene messo in secondo piano rispetto al ruolo testimoniale nella seconda edizione, in parte a seguito della decisione dell’editore di pubblicare Se questo è un uomo nei Saggi. Levi, quindi, vede nella fantasia una potenza narrativa, la capacità di produrre una narrazione, mentre la memoria si configura come la facoltà che tiene in qualche modo conto di ciò che è accaduto, e prova dirlo. Anche nell’opera di Dante lo scontro memoria e fantasia possiede una natura proemiale – si pensi all’incipit de La vita nova –; ovviamente, la scelta di riferirsi alla memoria e di obliterare la fantasia può essere vista come una rinuncia al fantastico, come se il fantastico fosse qualcosa di minore, d’importanza secondaria.

7. Leggendo l’Historia, mi sono chiesto quando sia iniziata questa marginalizzazione del fantastico e ho pensato che forse questa lenta deposizione ha avuto iniziato con il passaggio dal Fermo e Lucia ai Promessi sposi; nel suo labor limae Manzoni ha in qualche modo rimosso dall’armamentario del romanzo che andava scrivendo tutto quel senso di “ombra”, “sogno”, “paura”, “irrazionalità” che aveva caratterizzato la tradizione del romanzo fino a quel momento. Questo desiderio normalizzante potrebbe essere la causa di quello strano riserbo che Levi avverte nell’usare la parola “fantasia” all’interno di un testo come Se questo è un uomo.

Che Levi avesse presente i Promessi sposi mentre rivedeva Se questo è uomo potrebbe essere confermato da uno sguardo su altre varianti del testo leviano; in particolare, l’episodio di Emilia e del turpe macchinista nel capitolo Il viaggio: un brano fortemente ispirato alle pagine sulla morte di Cecilia dei Promessi sposi, aggiunto nell’edizione Einaudi. Si potrebbe interpretare la sostituzione tra i termini fantasia/memoria alla luce del magistero di Manzoni e non rispetto a Dante. Leggiamo questo brano famoso di Manzoni:

Ma appena ebbe chiusi gli occhi, cominciò nella sua memoria o nella sua fantasia (il luogo preciso non ve lo saprei dire), cominciò, dico, un andare e un venire di gente, così affollato, così incessante, che addio sonno.

Sono le righe che Manzoni dedica a Renzo nella turbata notte d’attesa, prima di attraversare l’Adda. A ben vedere, il frammento dei Promessi sposi e quello di Se questo è un uomo hanno punti in comune: il tormento, la mancanza di sonno, l’angoscia. Si può notare come il dubbio tra memoria e fantasia sia qui ben rappresentato dalla compresenza di entrambi i termini, e sottolineato dalla forza dubitativa della frase parentetica. Solo successivamente Manzoni scioglie la riserva, prediligendo il termine memoria quando Renzo pensa a Lucia, Fra Cristoforo e Agnese.

La sostituzione fantasia → memoria, alla luce di questo brano, trova quindi una maggiore coerenza narrativa, e getta una nuova luce sullo stato d’animo di Levi riguardo alla dicotomia scrittore/testimone, e sulle motivazioni dietro alla scelta di pubblicare il primo libro di racconti sotto pseudonimo.

8. Eppure il fantastico, che – all’ombra di un accigliato Manzoni – Levi tenta di espungere dal suo testo, ci regala uno dei suoi racconti più belli e significativi della raccolta Storie naturali: Angelica farfalla. Il testo è il resoconto di un esperimento scientifico “faustiano”, la creazione di un uomo nuovo, condotto dal prof. Leeb – uno scienziato pazzo, come da cliché fantascientifico. Il racconto può essere letto come una delle maggiori riflessioni sull’esperienza della deportazione che lo scrittore torinese ci ha lasciato. Nelle pagine di Angelica farfalla convivono le immagini degli esperimenti del dottor Mengele e le immagini degli Musulmanner stravolti e distrutti dalla fatica. Il prof. Leeb vuole creare una nuova umanità – che ricorda il delirio dell’uomo superiore vagheggiato dal Reich – e invece crea dei mostri; vorrebbe creare degli angeli, e invece è il funesto demiurgo di bestie ibride:

Quattro uccelli: sembravano avvoltoi, per quanto io gli avvoltoi li abbia visti al cinematografo. Erano spaventati, e facevano dei versi terrificanti. Sembrava che cercassero di saltare giù dai pali, ma dovevano essere incatenati, […]. Sembrava anche che si sforzassero di prendere il volo, ma con quelle ali… […]. Ali per modo dire, con poche penne rade. […] sembravano ali di polli arrosto. […] Assomigliavano alle teste delle mummie, che si vedono dei musei.

Queste creature, che avrebbero dovuto essere angeli, mescolano al dato fantastico tratti specificamente grotteschi: le teste da mummia, le ali da pollo arrosto. Proprio il riferimento al pollo mostra il collegamento, neppure troppo nascosto, con Se questo è un uomo: «Siamo ridicoli e ripugnanti. […] Abbiamo il collo lungo e nodoso come polli spennati».

Di colpo la memoria del lager, la faccia spelacchiata del deportato, si affacciano alla fantasia e all’invenzione, e il racconto di fantascienza diventa testimonianza di ciò che è stato, del male radicale che l’uomo ha subito.

9. Non sfuggirà che questi esseri del racconto leviano – non più uomini ma esseri mostruosi, tali da suscitare ribrezzo, vergogna e stupore – siano profondamente debitori al monstrum che è indagato e descritto da Aldovrandi nella sua Historia, sogno di un’epoca che iniziava a guardare alla natura con uno sguardo scientifico, la cui razionalità, ben lontana da spiegare l’esistenza, produceva nuove creature fantastiche che popolavano i pensieri di ogni uomo, segno e limite della nostra fragile condizione:

Questi infatti non sono deliri o sogni di autori che vogliano, con argomenti ingannevoli, delineare mostri in maniera arbitraria, dal momento che di essi ogni giorno ci è testimone la vista dei nostri oggi.

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Demetrio Paolin

vive e lavora Torino. Collabora con il «Corriere della sera». Ha scritto saggi e romanzi. Nel 2016 è stato tra i 12 finalisti del premio Strega con il romanzo “Conforme alla gloria” (Voland). Il suo ultimo libro è “Anatomia di un profeta” (Voland).

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