Il divenire-donna della Filosofia

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In margine al recente volume di Gasparrini (“Filosofia maschile singolare”, Tlon, 2024), al successivo articolo di Johnny L. Bertolio su «La ricerca» e a molti altri usciti sul tema nelle ultime settimane, provo anch’io a trarre alcune considerazioni sulla “questione femminile” in Filosofia.

 

Le proposte di cui ho avuto notizia sono molte e diversificate, ma sembra che tutte segnalino la necessità di una radicale rettifica del canone finora invalso che, di fatto, ha comportato l’esclusione del pensiero femminile dall’albo ufficiale della Storia della Filosofia.

C’è, innanzitutto, chi invoca l’inserimento di alcune pensatrici nei vari capitoli che scandiscono, attraverso le epoche, il susseguirsi delle Weltanschauung filosofiche. Questa prospettiva è di difficile realizzazione, dato che sarebbe necessario andare a reperire (al di là delle ormai note Ipazia, Eloisa e Ildegarda e poche altre) svariati nomi femminili da collocare tra le pagine, ben più corpose, riservate agli omologhi maschili. Se questo è fattibile (e auspicabile) per la filosofia contemporanea, ben più ardua è l’operazione nel caso di periodi storici più lontani, e il rischio potrebbe addirittura essere quello di un “effetto boomerang” A causa della scarsità del materiale a disposizione, infatti, saremmo comunque ben lungi dall’arrivare a una “parità di genere” tra filosofi e filosofe e vedere la scheda di approfondimento oppure il profilo striminzito di una pensatrice, rispetto ai fiumi di parole (doverosamente) riservati ai vari Platone, Agostino e Kant potrebbe far apparire posticcia l’operazione, in odore di pink washing. Anche al lettore bendisposto potrebbe in effetti venire da chiedersi: tutto qui? E, più tristemente: ce n’era davvero bisogno?

Leggermente diverso è il caso del pensiero contemporaneo, perché, dal Novecento, le voci femminili si fanno sentire e, anzi, sarebbe assurdo non dare a Weil, De Beauvoir, ma anche Irigaray e molte altre, lo spazio di espressione che spetta loro. L’inconveniente è solo quello, già messo in evidenza, della creazione di una “riserva indiana”, ovvero dell’inserimento di un capitolo contenitore, in cui far confluire le donne in quanto donne, confinando quindi le loro riflessioni all’interno di un’area protetta e dedicata, che finirebbe per neutralizzare l’importanza delle stesse. L’ostacolo però in questo caso è facilmente aggirabile: è sufficiente applicare il solito criterio misto, che procede a slalom tra scansione cronologica e raggruppamenti tematici, e annoverare, per esempio, Hannah Arendt come esponente del pensiero sviluppatosi a cavallo della Seconda guerra mondiale, oppure Donna Haraway tra XX e XXI secolo, nel filone del postumanismo – di cui peraltro ancora si discute troppo poco nei libri di testo.

La marginalizzazione femminile all’interno del canone filosofico occidentale potrebbe, secondo altri, venire risolta accendendo, di volta in volta, i riflettori sulla condizione “di genere” dalla quale parte la riflessione di questo o quel filosofo (maschio), affinché il lettore non trascuri tale fattore nella considerazione di quel determinato pensiero. Si tratta di “posizionarsi”, ovvero di relazionare il fatto, per esempio, di essere un maschio, bianco, eterosessuale, non disabile, con figli,

con l’ambito delle proprie ricerche, con l’influenza sui propri allievi e allieve, in un settore, quello appunto filosofico, che dovrebbe essere il terreno d’elezione per riflettere sui condizionamenti culturali, personali e collettivi, e sulle dinamiche di potere (così Johnny L. Bertolio).

L’intento è ottimo, ma crediamo che anche in questo caso si presti il fianco ad alcuni fraintendimenti, primo tra tutti quello, annoso, relativo al rapporto tra filosofia e individuo, tra il pensiero e la biografia di chi di quel pensiero si fa portavoce. Certo, sono lontani i tempi in cui Eraclito scriveva che meglio era ascoltare il logos piuttosto che lui stesso (B50), che, cioè, il messaggio che egli trasmetteva non era legato alla sua persona, ma aveva un respiro e un afflato universali, assoluti, sciolti dal legame con chi ne era mero veicolo. Oggi è diventato problematico proporre un progetto di ricerca su un gigante della filosofia come Heidegger, a meno di non accettare a priori lo scherno e l’opposizione di chi vede in lui un “nazi” e, d’altro canto, di Arendt e di De Beauvoir, è difficile non sapere innanzitutto di chi è stata amante l’una e compagna l’altra, per non parlare delle preferenze sessuali di Wittgenstein, che sembrano essere divenute un elemento dirimente per la comprensione delle proposizioni del Tractatus.

Non credo che l’avvicinamento tra pensiero e vita incoraggiato da Nietzsche si declini in questi termini; con l’applicazione del metodo bio- e psicografico si corre il rischio di appiattire la riflessione filosofica sulla dimensione esistenziale, che è senza dubbio importante, ma non unica da considerare e nemmeno onnipresente nel panorama dei vari sistemi filosofici. Evidentemente non si tratta di negare che sussiste, inevitabile, un’incorporazione del pensiero nel momento in cui, ad esprimerlo, è per forza di cose un soggetto che ha una certa individualità, un determinato vissuto e specifiche esperienze che lo connotano. Tuttavia, ciò non significa che questi elementi materializzino, nella stanza, l’elefante che non si può trascurare di considerare, altrimenti – esagero – tutta la filosofia diverrebbe filosofia politica e tutti i filosofi (o le filosofe) sarebbero attivisti prima ancora e ancor più che pensatori.

Mettere in luce i punti deboli delle proposte finora avanzate non implica che siano da scartare completamente e nemmeno che il problema della disparità di genere nella Storia della Filosofia non sia davvero tale. C’è però anche un altro orientamento che possiamo mettere alla prova e applicare, e che si basa sulle considerazioni che Deleuze e Guattari dedicano al divenire-donna in Mille piani. A partire dalla celebre affermazione, recuperata dal Secondo sesso di De Beauvoir, secondo cui «Donna non si nasce, si diventa», i due filosofi (benché bianchi, eterosessuali e padri) portano avanti un discorso letteralmente trans-generico: essi ritengono che la metamorfosi verso il femminile debba coinvolgere indistintamente uomini e donne e, più in generale, che sia necessario andare oltre l’opposizione duale che contrappone il genere maschile a quello femminile. Divenire-donna non vuole dire che gli uomini debbano imitare il “gentil sesso”, e nemmeno che le donne si possano identificare con il loro stesso genere, fissandosi con ciò in una forma identitaria rigida perché, sì,

è indispensabile che le donne conducano una politica molare, in funzione della conquista che operano del proprio organismo, della propria storia, della propria soggettività: “noi in quanto donne…” appare allora come soggetto di enunciazione. Ma è pericoloso ripiegarsi su un tale soggetto, che non funziona senza inaridire una sorgente o arrestare un flusso. (Deleuze e Guattari, Mille piani, Orthotes, Salerno 2017, ed. dig.)

La trasformazione verso il maschile non è altrettanto efficace; alla donna non è chiesto di divenire-uomo, perché quest’ultimo è di per sé maggioritario, preminente, generalista, macroscopico (“molare”, utilizzando il lessico degli autori). È dalla micro-femminilità, invece, che si può imparare, dall’intelligenza di un gruppo sociale marginalizzato per millenni e che tuttavia ha saputo escogitare, di volta in volta, il modo di insinuarsi attraverso (talvolta al di sotto) i grandi movimenti della Storia, anche quella della Filosofia. Mi viene in mente il personaggio di Diotima nel Simposio platonico: esclusa, in quanto donna, da un convivio strettamente men only, la sua presenza finisce comunque per risultare imprescindibile per tutti i convenuti (maschi, ma in questo caso non per forza eterosessuali), poiché è citando le sue parole che Socrate propone di definire cos’è l’eros.

Il miglior cambiamento che possiamo attenderci, anche nelle aule scolastiche, va in questa direzione: senza imporre d’ufficio un pensiero femminile, ed evitando di passare l’intera filosofia al setaccio della questione di genere, varrebbe la pena in primo luogo dare alle pensatrici donne (e non “in quanto donne”) il peso che meritano nel panorama filosofico generale, e al contempo valorizzare tutti quei movimenti di micro-femminilità che hanno ambito non tanto ad avvicendare il secondo sesso sullo scranno del pensiero dominante, ma a decostruire, pezzo per pezzo, l’assurdità dell’idea stessa che ci fosse un predominio di pensiero. Affinché si dia una trasvalutazione autentica, non sono semplicemente i valori a dover cambiare, ma il luogo, la scala, il paradigma entro cui collocarli. Divenire (tutti) donna mi pare il migliore degli auspici perché questo cambiamento si possa finalmente concretizzare.


P.S. Mi sia concessa una postilla. Anche sul fatto che sempre e solo di Filosofia occidentale stiamo parlando bisognerebbe, a mio avviso, aprire una discussione. Il femminile non è soltanto un connotato biologico, né tantomeno un elemento geograficamente determinabile, bensì un principio fondamentale che attraversa l’ordine del simbolico, dell’immaginario, del mondo conscio e inconscio della pulsione. Una filosofia del femminile ne studia le forme di manifestazione, dal menadismo greco allo shivaismo tantrico, che considera l’intreccio tra yin e yang nel taoismo e che riconosce alle divinità induiste Parvati e Kali il posto che spetta loro nel pantheon non soltanto religioso, ma anche culturale e più in generale, del pensiero. Certo, un’operazione di questo genere metterebbe radicalmente in questione il concetto occidentale di Filosofia, ma forse anche di questo si comincia a sentire l’urgenza.

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Silvia Capodivacca

ha studiato Filosofia e Storia tra Padova, Bologna e New York. Attualmente svolge attività di ricerca all’università di Udine e collabora con la casa editrice Loescher come autrice e formatrice didattica. Maggiori informazioni e aggiornamenti sulla sua attività sul sito personale, www.silviacapodivacca.com.

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