Philodiffusione #11

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Undicesima puntata della nostra rubrica di recen/riflessioni filosofiche. La verità, vi prego, sul desiderio. Appunti su “Casablanca”.
Un fotogramma di “Casablanca”, film del 1942 diretto da Michael Curtiz e interpretato da Humphrey Bogart e Ingrid Bergman.

Recentemente mi è capitato di partecipare a un cineforum di quartiere dove è stato proiettato “Casablanca”. È evidente che su di esso sia già stato scritto il possibile e l’impossibile, ma proprio per questo, cioè per l’enorme portata storica e culturale di questa strepitosa pellicola faccio fatica, a caldo, a non condividere qualche considerazione.

Un classico della storia del cinema, secondo solo a Citizen Kane di Welles nella prestigiosa classifica dell’American Film Institute, i riconoscimenti che ha ottenuto nel corso dei decenni non si contano: vincitore degli Oscar più significativi (a film, regista e sceneggiatura), nel 1989 è stato inserito nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti, e ancora, nel 1997, incluso nella Hall of Fame della Online Film & Television Association. Oltre ai numerosi premi, vale la pena fornire qualche ulteriore ragguaglio a proposito della produzione della pellicola, che è uscita nelle sale nel 1942 e perciò risulta particolarmente audace nella scelta di schierarsi politicamente, senza troppi giri di parole, contro l’occupazione tedesca della Francia e a favore di una sua liberazione dagli occupanti tedeschi – cosa che poi effettivamente si realizzerà un paio d’anni più tardi. La battaglia a suon di note tra Die Wacht am Rhein tedesco e la marsigliese che Laszlo chiede alla band di suonare non lascia dubbi su quale sia la fazione deputata a suscitare l’accorata partecipazione da parte degli spettatori: difficile, in effetti, rimanere impassibili di fronte alla toccante esecuzione collettiva, improvvisata dagli avventori del Rick’s Café Américain, dell’inno francese.

Un mestiere artigiano

L’ulteriore dettaglio non trascurabile è noto ai cinefili, ma non per questo meno sbalorditivo: nonostante appaia come un capolavoro indiscusso della storia del cinema, il film è il risultato in verità di una serie di incidenti di percorso che, paradossalmente, costituiscono alcuni elementi che ne hanno poi decretato la fortuna immortale. La colonna sonora, per esempio, è stata ultimata quando Ingrid Bergman era già impegnata nella lavorazione di un’altra pellicola, e pertanto non è stato possibile girare nuovamente, come invece si sperava, alcune scene topiche. È così che il brano oggi iconico As time goes by è divenuto il motivo principale di accompagnamento della trama. Perfino il finale, gioiello narrativo che fa retrospettivamente brillare l’intero sviluppo della trama, non era ancora stato determinato a una settimana dalla chiusura delle riprese: ciò significa che gli attori, durante i due mesi che hanno avuto a disposizione per girare gli atti precedenti, sono rimasti all’oscuro del destino dei loro stessi personaggi, ignari di come le cose si sarebbero potute concludere e quindi privati di quella onniscienza che tradizionalmente pone gli interpreti nella posizione privilegiata che permette loro di orientare gli sguardi, armonizzare la prossemica e calibrare l’intonazione vocale sulla base di un futuro ancora imperscrutabile tanto al pubblico quanto al protagonista stesso della vicenda.

Tutto questo ci parla di un’epoca, quella d’oro hollywoodiana, che ultimamente è stata riportata in auge – elettrificata – da Babylon (Damien Chazelle, 2022), nella quale fare un film era innanzitutto un’operazione artigiana, slacciata dal divismo idolatrico che oggi sempre più spesso si coltiva nei confronti dei registi. Al contrario del modus operandi attuale, fino a qualche decennio fa il director il più delle volte disponeva di un tempo molto limitato per produrre il girato sulla base di una sceneggiatura che non poteva scegliere né rimaneggiare, tanto quanto non aveva diritto di parola sul montaggio eseguito in post-produzione e che, ci insegna Ėjzenštejn, svolge un ruolo così cruciale nella determinazione del tutto che è l’opera finale. Questa è d’altronde la ragione per cui il Curtiz di Casablanca compare in veste di regista in un numero di film – 171 – sproporzionato ed esponenziale rispetto a quello dei più prolifici cineasti del XXI secolo.

We’ll always have Paris

Il fatto che Casablanca abbia attraversato indenne il tempo nel frattempo occorso, tuttavia, è dovuto all’immortale storia d’amore ivi narrata, incluso il finale che, pur nella fortuità con la quale è stato scelto tra i vari possibili, condensa in poche sequenze un trattato su cosa siano la passione amorosa e il desiderio. La triangolazione sembra inizialmente delle più tradizionali: lui (Laszlo) è dato per morto in un campo di concentramento, lei (Isla) viene travolta a Parigi in una appassionata storia d’amore con un altro (Rick), fino a quando non scopre che il marito è ancora vivo, ed ella decide pertanto di abbandonare senza spiegazioni colui che, da amato ricambiato, diviene amante sacrificabile per il ripristino di un ordine affettivo che era sembrato per sempre perduto. La vicenda si complica nel momento in cui, espatriati dall’Europa, i tre si ritrovano in Marocco. L’amore di Isla diviene in questo caso impossibile, perché assurdamente ella ama entrambi gli uomini, senza essere davvero in grado di scegliere tra i due e, di conseguenza, tra la partenza con Laszlo per l’America oppure la permanenza a Casablanca con Rick. Ci pensa quest’ultimo a uscire dall’impasse, fornendo i visti ai due coniugi e lasciando andare con ciò per sempre la sua amata.

Rick: Se egli [Laszlo] parte e tu rimani qui un giorno saresti presa dal rimorso.
Ilsa: No!
Rick: Non oggi, forse nemmeno domani, ma presto o tardi e per tutta la vita.

Con queste battute Rick ci dimostra non tanto che non ama abbastanza Ilsa; al contrario, egli appare profondamente attraversato dal desiderio – e soprattutto di averne intuito, o proprio capito, la dinamica.

Se Platone, nel Simposio, ci insegna che ciascuno di noi è alla ricerca della metà dalla quale siamo stati violentemente allontanati per volere di Zeus, un paio di millenni dopo Lacan rincara la dose e ci spiega la differenza tra desiderio e godimento. Secondo lo psicoanalista francese, il desiderio è una forza legata alla ricerca continua di qualcosa che si percepisce come mancante. Strutturalmente insaziabile e sempre in movimento, si lega a qualcosa che è sempre almeno parzialmente fuori portata, qualcosa che non può essere completamente ottenuto o compreso. Il godimento (jouissance), d’altro canto, è un concetto che va oltre il piacere e si riferisce a un’esperienza intensa e spesso dolorosa che può essere distruttiva per il soggetto. Esso si trova al di là del desiderio, costituisce una sorta di eccedenza non strutturata dalla mancanza, ma piuttosto da uno stato di saturazione o sovraccarico.

La generosità di Rick non è nei confronti del suo competitor amoroso; essa si rivolge invece all’amore stesso, condannato a estinguersi nel rimpianto (ma anche nella quotidianità, nelle consuetudini dell’ordinario, nella noia…), qualora esso venisse concretamente goduto. L’unico modo per vincere l’inesorabilità del tempo che «goes by», trascorre e trascina con sé la passione trasformandola in normalità, è quello di rinunciare a quest’ultima, o più precisamente di riconoscere lo statuto perennemente difettoso del desiderio, che è sempre incolmabile, irraggiungibile, irreale, a costo, altrimenti, della sua inequivocabile cessazione. È la regola, dolorosa ma inesorabile, che traspare anche dall’altro motivo musicale (It had to be you) che ricorre nel corso del film, in cui il protagonista si dichiara «addirittura compiaciuto di essere triste, pensando a te» («even be glad just to be sad, thinking of you»). Se esiste un modo di trattenere l’attimo dell’amore, esso ha a che fare, paradossalmente, con l’esercizio del lasciar andare, dell’accettare ciò che non si può declinare al tempo presente.

Di qui la frase forse più citata dell’intero film: rispondendo alla preoccupazione di Ilsa sul fatto che così sarebbe «finito tutto», Rick replica proiettando al futuro qualcosa che per entrambi è passato per sempre e mai potrà dirsi attuale: «We’ll always have Paris».

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Silvia Capodivacca

ha studiato Filosofia e Storia tra Padova, Bologna e New York. Attualmente svolge attività di ricerca all’università di Udine e collabora con la casa editrice Loescher come autrice e formatrice didattica. Maggiori informazioni e aggiornamenti sulla sua attività sul sito personale, www.silviacapodivacca.com.

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