La filosofia, una cosa da maschi?

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È uscito il 21 febbraio il saggio “Filosofia: maschile singolare” di Lorenzo Gasparrini, che invita a rileggere la storia della disciplina in un’ottica «di genere» e invita i colleghi a «posizionarsi».

Se chi a scuola ha studiato filosofia (leggi: storia della filosofia) dovesse ripescare dalla memoria gli argomenti affrontati, ne trarrebbe una serie di concetti e modalità di pensiero apparentemente assolute, oggettive, immortali: le idee, il demiurgo e l’iperuranio di Platone; il motore immobile e il sinolo di Aristotele; cogito ergo sum di Cartesio; le monadi di Leibniz; le tre Critiche di Kant; il rapporto tra soggetto e oggetto e la dialettica servo-padrone in Hegel; il superuomo di Nietzsche. A cavallo di più generazioni, il risultato della pesca rimarrebbe sostanzialmente invariato.

Parte da questa semplice constatazione Filosofia: maschile singolare, nuovo saggio del filosofo Lorenzo Gasparrini, pubblicato nella graziosa collana «Numeri Primi» di Tlon.
Gasparrini draga come una macchina scavatrice secoli di storia della filosofia occidentale per sminare un terreno insidiosissimo perché coltivato come innocuo, puro, neutro. Fin dal suo consapevole fondatore, Aristotele, che già aveva messo al proprio servizio i pensatori (e le pensatrici) greci precedenti, la filosofia ha infatti elaborato e ipostatizzato categorie che avevano un legame profondo con l’esperienza, il genere, il corpo di quanti le avevano immaginate. Non si tratta solo di aver oscurato le donne filosofe – il che comunque ha avuto un peso enorme – ma di aver orientato il pensiero verso una direzione prevalente se non univoca: la metafisica, l’idealismo, cioè il maschio dominatore.

Persino quei pensatori che hanno fatto dell’attenzione alla realtà fisica e sensibile l’oggetto privilegiato delle proprie indagini (Cartesio con la res extensa, Marx con il materialismo storico, Husserl con la fenomenologia) o quelli che hanno celebrato le potenzialità gnoseologiche dell’anatomia e della medicina, non hanno scalfito le mura ciclopiche del canone filosofico cogitante.

C’è dunque «un problema di genere in filosofia», come recita il sottotitolo del volume di Gasparrini, per due motivi: in primo luogo, i filosofi che consideriamo tali si sono sempre sottratti a una riflessione su quanto il corpo maschile, bianco, eterosessuale abbia condizionato l’asserita universalità e indiscutibilità dei loro ragionamenti; in secondo luogo, le filosofe (e anche qualche filosofo) che hanno riletto la storia del pensiero occidentale in un’ottica «di genere», femminista, sono state bandite dal castello degli spiriti magni, considerate estranee alla vera filosofia, marginalizzate nella carriera accademica. Ed è interessante notare come le studiose e pensatrici che si sono opposte alla tinta unita del sapere codificato nei secoli, fino al Novecento inoltrato, lo abbiano fatto elaborando riflessioni sui corpi, al plurale, partendo dal proprio. Precisa Gasparrini: chi si occupa di filosofia

in quanto rappresentante di un preciso genere di essere umano è coinvolto in quello che dice, studia, insegna, ricerca, e dovrebbe dare ragione di questa «oggettività». Quello che andrebbe fatto è rendersi conto di una tradizione «maschia» della filosofia, di quanto questa abbia influenzato lo studio storiografico della stessa tradizione filosofica e la didattica che ne è derivata – e criticare tutt’e tre pesantemente, con o senza uso di propulsione salivare.
Invece del corpo del filosofo se ne è fatto l’unico protagonista ammesso, sia come oggetto che come soggetto. (pp. 77-78)

Al «corpo neutro» elaborato e imposto dal filosofo tradizionale, al logos senza genere, alla dialettica universale, le filosofe hanno tolto il belletto, rivelandone il retroterra maschile (nel senso di frutto di un genere preciso) e/o maschilista (quando espressione di posizioni misogine). Da qui sono nati, per limitarci a qualche esempio, Il secondo sesso (1949) di Simone de Beauvoir, Sputiamo su Hegel (1970) di Carla Lonzi, Speculum. L’altra donna (1974) di Luce Irigaray, Tu che mi guardi, tu che mi racconti (1997) di Adriana Cavarero. A queste opere bisognerebbe aggiungere quelle di molte scrittrici che Gasparrini, da studioso di Estetica quale è, non esita a far rientrare tra le filosofe: La città delle donne di Christine de Pizan; Il merito delle donne di Moderata Fonte; le lettere di Elisabetta di Boemia.

L’accesso alla filosofia è stato di una estrema permeabilità anche per gli uomini: del resto, come si poteva concedere il brevetto di filosofo a chi, per mestiere principale, faceva tutt’altro? Eppure, quello che si è perdonato all’artigiano Spinoza, al fisico Galilei, al sindacalista Marx, ovvero di non dedicarsi a tempo pieno allo studio filosofico, per le donne è diventato un motivo di condanna, di dileggio, di riduzione al silenzio.

L’altra faccia dell’universalizzazione dei concetti è stato quel nodo di pregiudizi misogini che ormai solo i più ingenui possono seriamente attribuire al «contesto» dominante: l’inferiorità femminile è stata sostenuta ininterrottamente dal racconto di Eva cacciata dall’Eden in poi, con argomenti presentati come scientifici e razionali che hanno oscurato il dissenso, cioè il «contesto» alternativo (la storia di Ipazia e delle tante «streghe» ed eretiche perseguitate parla da sé). Se faccio arrostire chi la pensa diversamente da me e bruciarne le carte, la posterità dedurrà che il mio pensiero era l’unico, condiviso da tutti e tutte.


Alfred Seifert, Ipazia, 1901, olio su tavola (collezione privata).

Quelli che consideriamo membri dell’Empireo filosofico occidentale, pagano e cristiano, hanno sostenuto senza alcuna ironia la passività, la scarsa indole contemplatrice, le manchevolezze biologiche della donna o il lavoro sporco ma necessario svolto dalla prostituzione femminile, contribuendo a tenere le filosofe lontane dalla pratica della disciplina. Per questo le scritture filosofiche di mano femminile sono fiorite in generi letterari non canonici: diari, appunti, scambi epistolari, densi racconti di visioni, cioè l’unico modo per avere una voce che fosse un minimo credibile e tollerata. Oppure hanno lavorato «dietro le quinte», come curatrici delle opere dei «maestri» e dei «grandi», per poi venire puntualmente dimenticate: è stato il caso di Edith Stein, sostituita dal nome di Martin Heidegger nella curatela del volume Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo di Husserl, o di Harriet e Helen Taylor, che ebbero un ruolo fondamentale nell’orientamento filogino degli scritti del, rispettivamente, marito e patrigno John Stuart Mill, uno dei rari autori canonici a discettare di questioni di genere con lucidità. Oppure ancora hanno operato al di fuori delle regole sociali, per sottrarsi agli obblighi del silenzio e della segregazione, come Aspasia, che, compagna straniera dello statista ateniese Pericle e forse cortigiana, fece del proprio corpo uno strumento di affermazione culturale. Quando pure ebbero uno spazio tradizionale di espressione, ciò avvenne per circostanze fortuite, come l’assenza di professori durante le Guerre mondiali a causa della leva militare obbligatoria: questo consentì a donne a cui, in condizioni normali, sarebbe stata negata l’abilitazione, di salire in cattedra, coprendo eccezionalmente i posti vacanti.

 

Raffaello Sanzio, La scuola di Atene, 1509-11, affresco (Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura).

Da questo panorama desolante derivano, secondo Gasparrini e le ricerche da lui illustrate, ricadute pesantissime sulla disciplina. Poche oggi risultano in media le studentesse iscritte a facoltà filosofiche che continuino in esse la propria carriera, dalla laurea magistrale in avanti; il sistema italiano non contempla in nessun dipartimento di Filosofia corsi esplicitamente di genere, posti, quando pure ci sono, sotto l’egida di Sociologia, Giurisprudenza o Letteratura. Per non parlare dei concorsi e della vita quotidiana nei dipartimenti: la cronaca, quella aneddotica e quella giudiziaria, sfata il mito del filosofo moralmente integerrimo che, come nella Scuola di Atene di Raffaello, passa il tempo a conversare con i discepoli o con sé stesso trovando così il proprio esclusivo telos.

Gasparrini introduce a questo proposito una modalità scomoda di autoriflessione, che può aiutare a mettersi in discussione: il «posizionamento». Partendo dalle teorie della femminista Adrienne Rich, Gasparrini ricorda come in filosofia riflettere sul «mio corpo» anziché, in assoluto, sul «corpo» sia la necessaria premessa per evitare di cadere nell’equivoco di parlare a nome di tutti, per tutti, dentro tutti:

Immaginarsi fuori da un posizionamento di questo tipo è una pia illusione per chiunque, una pericolosa astrazione per chi fa politica, una presunzione inaccettabile da parte di chi fa filosofia. Assumersi la responsabilità del proprio posizionamento non è «fare quello che dicono le femministe», ma rendersi conto in maniera più sensata della propria condizione di esseri umani. (p. 148)

«Posizionarsi» non significa affiggere sulla porta del proprio ufficio dipartimentale un cartello con scritto: Prof. Mario Rossi, ordinario, maschio, bianco, eterosessuale, 55 anni, con prole, di sana e robusta costituzione. Significa mettere questo elenco in relazione con i frutti del proprio pensiero, con l’ambito delle proprie ricerche, con l’influenza sui propri allievi e allieve, in un settore, quello appunto filosofico, che dovrebbe essere il terreno d’elezione per riflettere sui condizionamenti culturali, personali e collettivi, e sulle dinamiche di potere.

Già di altre discipline sono state indagate le radici tutt’altro che neutre, come nel caso dell’antropologia, che alla fine dell’Ottocento ebbe un ruolo primario nell’alimentare le dottrine razzistiche e antisemite, della storia, che da anni si è aperta a indagini sulla condizione delle donne nei secoli, o della storiografia letteraria, che ha escluso le autrici sulla base dei pregiudizi aristotelici. La filosofia, per la sua pretesa di astrazione e un certo senso di superiorità, si mostra invece più resistente a lasciarsi attraversare da nuove letture; pensatori e pensatrici quali Paul B. Preciado o Judith Butler faticano a essere unanimemente considerati/e filosofi/e e vengono percepiti/e al massimo come attivisti/e (e sull’attivismo Gasparrini dice la sua, difendendone la produzione di pensiero fuori del canone).

Sarà lunga la strada per modificare lo sguardo e movimentare la storia della filosofia, con cui in Italia ancora si identifica la ricerca filosofica. Simonetta Tassinari ha pubblicato Il libro rosa della filosofia (Gribaudo, Milano 2024), che (non ci si lasci ingannare dal titolo à la page) dà al corpo docente uno strumento utile per aggiungere percorsi originali nelle ore dedicate alla disciplina in classe. Ci sono canali social e progetti accademici, tra cui la collana «Re-reading the Canon» (Penn State University Press), che pubblica raccolte di saggi intitolate «Interpretazioni femministe di…», per rileggere da prospettive inedite le opere canoniche della filosofia occidentale. Grazie a questo movimento, che decostruisce il predominio di genere ma anche l’eurocentrismo e l’abilismo, studenti e studentesse potranno finalmente sentirsi parte di un sapere che li/e riguarda e che deve coinvolgerli/e senza passare da molestie o discriminazioni ma attraverso uno scambio intellettuale paritario.

Scrive Jonathan Bazzi a proposito della propria formazione filosofica all’università di Milano, studente in un corso di Laura Boella (filosofa morale), in Corpi minori, parola che di nuovo ritorna:

Se non avessi scoperto le pensatrici, mi dico, vive e morte, lingua materna, avrei lasciato perdere in fretta. Sono le loro parole a tracciare il posto, l’unico possibile, in cui posso restare, le parole delle filosofe che hanno pensato usando forme di scrittura minori, fuori dal canone: lettere, diari, saggi d’occasione e a commento di testi altrui, e che non hanno rinunciato all’uso della propria esperienza diretta. Mettere in campo ciò che abbiamo vissuto per intercettare scritture eidetiche, significati universali. Simone Weil con la condizione operaia, Edith Stein con la clausura, la notte oscura, Hannah Arendt con l’esilio, lo sradicamento, il baratro del nazismo: il corpo come a priori, fondamento primo, irrinunciabile. (p. 75)

Ecco, studiare, laurearsi, non implica per forza affrontare autori e opere in cui poterci serenamente rispecchiare, anzi a volte sono le letture più indigeste e antipatiche a farci crescere e maturare. Però, le letture indigeste e antipatiche non dovrebbero essere le sole disponibili nei programmi universitari ed è ormai francamente inaccettabile che si continui, in buona o cattiva fede, per pigrizia o per malizia, a trascurare una ricchissima polifonia di voci che aiuterebbero a illuminare il nostro presente e a sostenere la formazione dei e delle giovani. E tali voci vanno interpretate e spiegate – ammonisce Gasparrini – con cognizione di causa, non stipate insieme sullo scaffale della «filosofia femminile». Altrimenti, tanto vale.

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Johnny L. Bertolio

Si è diplomato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e ha conseguito il PhD alla University of Toronto, dove ha maturato una variegata esperienza nella didattica dell’italiano. Attualmente collabora con Loescher come autore e redattore nell’ambito umanistico.

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