Europa, romanzo e pericolo

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La pubblicazione di “Un Occidente prigioniero” (Adelphi) di Milan Kundera rappresenta un momento di riflessione e elaborazione di cosa sia la forma romanzo e la sua arte per gli anni a venire.

 

1. Una delle caratteristiche principali dell’arte del romanzo è il suo avere a che fare con il tempo. Il romanzo è sempre alle prese con questo concetto, difficilmente maneggiabile: io scrivo adesso (presente) di un’azione avvenuta pochi attimi prima (passato) che verrà letta (futuro) da un lettore che nell’atto della lettura (presente) rivivrà il momento (presente storico), in cui io ho scritto (passato) qualche cosa che è appena avvenuta (passato), ma che io descrivo come avveniente (presente). Lo sguardo sul romanzo è una profonda interrogazione sul Kronos e Kairos, sul tempo che passa e sul tempo della rivelazione, o meglio: il romanzo è il luogo narrativo dove si passa da una tipologia di tempo all’altra.
Quindi non stupisce che uno dei maggiori romanzieri viventi, Milan Kundera, in Un Occidente prigioniero, la sua ultima pubblicazione, edita da Adelphi (nella traduzione di Giorgio Pinotti), scriva: «La sua vera tragedia non è dunque la Russia, ma l’Europa. L’Europa, quell’Europa per la quale il direttore dell’agenzia ungherese era pronto a morire, ed è morto, tanto rappresentava un valore essenziale. […] non sospettava neppure che i tempi erano cambiati e che in Europa l’Europa non è più sentita come un valore».
Qualcuno ovviamente potrebbe pensare che queste parole siano state scritte oggi, guardando a ciò che accade nel tremendo scontro tra Russia e Ucraina, alle deficienze, agli sbagli, alle diplomazie occidentali che cercano in qualche modo di fermare questa guerra e che nel loro agire e operare si mostrano per quello che sono: miopi e incapaci di leggere ciò che nel mondo avviene.
In realtà le parole di Kundera che abbiamo citato sono tratte da una conferenza che il grande scrittore tenne 1983, un tempo preistorico: c’era ancora la cortina di ferro, l’Europa unita era una semplice idea, la Germania era divisa, i paesi dell’Europa centrale erano tutti satelliti dell’Urss, monolite ancora ben lontano dalla Perestrojka di Gorbaciov. Eppure Kundera, che è un romanziere, che conosce meglio di altri l’arte del romanzo, conclude quella conferenza con quelle frasi che suonano come una profezia, che purtroppo si sta avverando.

2. Non voglio, però, con questo mio articolo riflettere su questo dato geopolitico, che è pure interessante e particolare, quanto sul fatto che entrambe le due conferenze raccolte e pubblicate hanno a che fare con il romanzo e con l’idea di Europa, anzi con una particolare idea di romanzo europeo. Credo che sia necessario, infatti, leggere Un Occidente prigioniero [OP] accompagnandolo, quasi in filigrana, alla rilettura de L’arte del romanzo (Adelphi) [AR], una deliziosa e, quanto mai, profonda raccolta di saggi, intorno a quel genere letterario che è «la denigrata eredità di Cervantes».
Che cosa è il romanzo? E perché il romanzo, per Kundera, ha a che fare con l’Europa? Tolgo subito alcuni dubbi e prevengo alcune possibili critiche o alzate di mano: in questo testo non si sostiene che il romanzo sia essenzialmente europeo, nessuno ignora ad esempio l’interessante parabola di Han Kung scrittrice sudcoreana, o i romanzi di Murakami, ma è altrettanto vero che se guardiamo al romanzo nel suo insieme, nel bene o nel male, con tutti i suoi limiti e trasformazioni, è ancora legato a quella strana insorgenza che è stata registrata tra la fine del ‘500 con appunto Cervantes e Rabelais e Burton, che è ha trovato una prima formulazione Richardson, Fielding e Sterne, con Austen, Balzac e Dickens e Flaubert, che è stato messo in crisi da Proust, Kafka, Joyce, Woolf, che si è trasformato fino ai nostri giorni, ma che appunto è nato in Europa. «Il romanzo è opera dell’Europa; le sue scoperte, pur se realizzate in lingue diverse, appartengono all’Europa intera. La storia del romanzo europeo è la sua successione di scoperte» [AR]. Che rapporto c’è, quindi, tra romanzo e Europa; anzi tra romanzo e le “Europa”?

3. È questa la prima e interessante riflessione che Kundera ci pone davanti nei due saggi di Un Occidente prigioniero: ci sono più “Europa”, ce ne sono diverse; alcune sono legate tra di loro per motivi politici, altre per motivi culturali. Gli Stati che chiamiamo centrali hanno vissuto su di sé una duplice tensione, ovvero culturalmente appartenevano all’Europa, e politicamente appartenevano all’URSS: «Nel dopoguerra si sono quindi delineate in Europa tre situazioni fondamentali: quella dell’Europa occidentale, quella dell’Europa orientale e quella, la più complessa, della parte d’Europa situata geograficamente al centro, culturalmente a Ovest e politicamente a Est» [OP]. Proprio in questa tensione, nel vedere davanti una contraddizione, che noi “occidentali” non cogliamo si annida il segreto del romanzo e il suo rapporto con l’Europa.
Il termine “Europa” in sé ha origini incerte potrebbe derivare, secondo alcuni, da una parola fenicia che indica “occidente” oppure dal greco eurus “ampio, largo” e op “occhio, sguardo” e quindi di “ampio sguardo”, a indicare una zona relativamente pianeggiante che si opponeva al Peloponneso.
Il mito, lo sappiamo, ci racconta che Europa fu rapita da Zeus sotto forma di giovane toro e portata a Creta; dall’unione tra Europa e Zeus nacque Minosse, re cretese, simbolo di saggezza, ma anche padre del Minotauro. Sono tante le tensioni che si annidano in questa parola e concetto, ed è compito del romanziere provare a tenerle insieme, a mostrarne la tensione. Il fatto che Europa contenga in sé il suo finire, l’occidere, il venir meno e lo sparire, e nello stesso tempo l’idea di ampiezza, di grandezza, è qualcosa che produce il movimento di ogni narrazione e di ogni romanzo.
Il primo legame è quindi un legame di orizzonte; il romanzo nascendo ha bisogno di uno spazio che lo allontani dall’idea di morte e che gli permetta un cammino, un iter che ponga un notevole spazio tra l’uomo e il suo “occidere”. «Don Chisciotte partì per un mondo che si spalancava davanti a lui. Poteva entrarvi liberamente e tornare a casa quando voleva. I primi romanzi europei sono viaggi attraverso il mondo, un mondo che sembra illimitato» [AR], un mondo che ha il centro nell’Europa e un futuro che non sembra potere avere fine. Il movimento è il primo motore del romanzo, la peripezia, il susseguirsi di fatti, l’accatastarsi di azioni anche confusamente le une dopo le altre a sancire la complessità, la vastità e molteplicità del mondo che i personaggi del romanzo possono esperire, e che tramite loro noi lettori possiamo vivere.
Sappiamo, però, appunto se il romanzo è l’Europa e l’Europa è il romanzo, che esiste anche un progressivo spegnersi e venire meno di questa esperienza conoscitiva, un continuo chiudersi: l’orizzonte del romanzo si fa più limitato, per quanto recalcitranti gli scrittori debbono piegare le proprie opera a odissee di un giorno, a rammemorazioni durante lunghe conversazioni in salotti borghesi, peripezie mentali mentre si cuce un calzetto marrone. Questa chiusura, una sorta di cappa sull’Europa, come anticipato brillantemente Baudelaire con il suo spleen, ha un corrispettivo “storico”, perché il romanzo è un medium diacronico che ha a che fare con il tempo, che modifica le sue strutture, la sua sintassi in base ad esso. Kundera scrive: «L’Occidente poté assistere alla morte dell’Occidente, o, più precisamente, all’amputazione di una parte di sé, quando Varsavia, Budapest e Praga furono inghiottite dall’impero russo» [AR]. Questo perché «l’Europa centrale voleva essere l’immagine condensata dell’Europa e della sua multiforme ricchezza, una piccola Europa ultraeuropea» [OP]

4. L’ultima citazione di Kundera apre una riflessione centrale sul tema del nostos, del ritorno, che attraversa l’intera struttura e innerva, insieme a quello della peripezia, il motore romanzesco delle storie, che raccontiamo e leggiamo. Non c’è viaggio, nel romanzo, che non presupponga un ritorno, un luogo in cui – infine – appoggiare il proprio cappello. Sia essa la morte, come in Don Chisciotte, o il dormiveglia sognato e stravagante di Molly, ogni romanzo ha bisogno di una fine: se il romanzo è l’Europa, il romanzo deve finire deve chiudersi; il romanzo ha bisogno di un confine a cui apporre almeno un punto fermo (lo stesso Joyce nel lungo monologo di Molly necessita – in assenza di qualsiasi altro segno grafico – di due punti fermi).
In questo si annida la differenza con la grande cultura orale: il racconto orale non vuole finire, non deve finire, non presuppone una fine, è un’esperienza che rinnova sé stessa nel racconto continuo, è la narrazione dell’impresa della caccia che si rigenera ogni sera davanti al fuoco, che non si conclude, perché non può concludersi, è la narrazione del tempo che scorre, che ciclicamente ritorna, che eternamente è uguale a sé stesso; è la narrazione che non ha un occidente, e non ha un ampio spazio, ma è chiusa, paradossalmente, perché sempre ripetuta.
Il romanzo apre una vicenda e la chiude, la cristallizza in quel numero di pagine, e di eventi, toglie le peripezie dal kronos e le consegna al kairos, alla durée, al tempo interiore, che è un tempo che ha che fare con la morte: «Mentre oggi, in vani ancora intatti dalla morte, i borghesi “asciugano le pareti” dell’eternità, e, avviandosi al termine della vita, sono cacciati dagli eredi in sanatori e ospedali. Ma sta di fatto che non solo il sapere o la saggezza dell’uomo, ma soprattutto la sua vita vissuta – che è la materia da cui nascono le storie – assume forma tramandabile solo nel morente».
Così Benjamin nel saggio del 1936 Il narratore (Einaudi, Torino 2011, trad. it. R. Solmi): il morente, che è la forma in cui si può tramandare una storia, è l’Europa, l’Occidente che muore: l’avventura di Don Chisciotte può esistere perché egli morirà, perché è mortale di Shandy, mortale è Pip, mortale è la signora Dalloway ecc. È questo il nostos, il ritorno del romanzo, il punto da cui non torna indietro. Per tali ragioni il primo vero personaggio romanzesco è, certamente, Ulisse, ma non quello omerico, bensì quello dantesco, che vede l’ampio mare aperto, e subito dopo il cielo richiudersi su di lui come altrui piacque. Il destino del romanzo è paradossale, Kafka è in agguato a insegnarcelo, ciò che il personaggio romanzesco era andato fuggendo, durante le diverse pagine che hanno prodotto il romanzo-Europa infine lo ritrova davanti a sé, intatto: era fuggito dalla sua mortalità e dalla sua finitezza e, nel ritornare, ritrova infine mortalità e finitezza.

5. Che questa sia la fine del romanzo? Il «come altrui piacque» potrebbe essere letto come una sorta di metafora della privazione della libertà, che è la prima caratteristica dei personaggi dei romanzi e quindi dell’opera narrativa tout court. Tale spettro si agita in entrambi i testi di Kundera, perché l’arte del romanzo è incompatibile con lo spirito totalitario: «In quanto modello di quel mondo, fondato sulla relatività e l’ambiguità delle umane cose, il romanzo è incompatibile con l’universo totalitario. […]. La Verità totalitaria esclude la relatività, il dubbio, l’interrogativo, ed è quindi inconciliabile con quello che chiamerei lo spirito del romanzo» [AR].
Il totalitarismo a cui fa riferimento Kundera sia nell’Arte del romanzo sia in Un Occidente prigioniero è un moloc ben diverso da ciò che è ora: il totalitarismo attuale è forse più sfumato, ma non meno oppressivo e concreto (quanto e come la nostra esperienza del mondo è mediata dalla rete, dall’economia; quanto e come la nostra vita è il prodotto di una strategia di scelta), così come il nazionalismo – che è solo un volto, più ristretto, del totalitarismo – sta nuovamente prendendo piede in molti stati dell’Europa e non solo, ma ciò non toglie che questi “totalitarismi diffusi” (non più descrivibili geograficamente) hanno una verità – quella della Paranoia e del Complotto, ad esempio – che è incompatibile con la complessità delle domande del romanzo. Il romanzo morirà, quindi, perché muore l’Europa? Perché l’Europa vive fino in fondo la sua stessa etimologia? Ovvero di essere occidente e come tale destinata a tramontare?

È vero, i romanzi continuano a essere pubblicati, così come lo erano nei regimi totalitari – erano quelli, come i molti che vediamo pubblicati oggi, romanzi innocui: «Questi romanzi non fanno progredire la conquista dell’essere. Non scoprono nessuna nuova particella dell’esistenza: si limitano a confermare il già detto; anzi, proprio in questo confermare quello che si dice […] sta la loro ragion d’essere, la loro gloria» [AR]. Una descrizione perfetta per la maggior parte delle opere di consumo, pensati più per intrattenere e elevare, per semplificare che per modificare l’esistente ecc. C’è una via di fuga a questo tremendo scenario?

6. In Un Occidente prigioniero Kundera ci fornisce una possibile soluzione parlando di piccola nazione: «Che cos’è l’Europa centrale? L’incerta zona di piccole nazioni stretta fra Germania e Russia. […] Ma che cos’è una piccola nazione? […]: è una piccola nazione quella che in qualsiasi momento può vedere messa in questione la propria esistenza, che può sparire, e ne è consapevole».
L’idea di piccole nazioni, come l’idea di piccole patrie, si presenta bene a descrivere la grande novità del romanzo nell’Europa Centro Orientale: pensiamo a Cartarescu, Gospodinov, Olga Tokarczuk, per fare solo tre nomi che in questi anni hanno prodotto profondi cambiamenti nel romanzo. Gospodinov ama dire che il romanzo non è “ariano”, ovvero non è puro, ma in un certo senso il romanzo, quello delle piccole nazioni, come possono essere la Bulgaria, la Polonia o la Romania, rifiuta il totalitarismo e il nazionalismo, e può essere descritto come il sismografo di ciò che l’Europa pensa e patisce.
Pensiamo a un romanzo come Cronorifugio (Voland) di Gospodinov: l’immaginazione di un continente alle prese con una pesante sclerotizzazione, una amnesia forzata che ha fa nascere quasi per gioco e, infine, con tragica fatalità, il ritorno dell’idea di nazione e dell’idea di un determinato periodo, sancito da un referendum, fino all’idea che Dio stesso non è morto ma semplicemente soffre di Alzheimer, sono la rappresentazione plastica e immaginativa della fecondità di un arte che trova le sua forza propria nella fragilità, un arte che trova la sua ragione d’essere nel poter sparire da un momento all’altro.
Così come l’Europa, che appunto tiene in sé l’idea del suo finire, anche il romanzo deve nutrirsi di queste piccole nazioni, concentrate su come sopravvivere e sicure della propria sparizione. Kundera, infatti, scrive: «Basta leggere i più grandi romanzi centroeuropei: […] tutta la grande produzione centroeuropea del nostro secolo, fino a oggi, potrebbe essere interpretata come una lunga meditazione sulla possibile fine dell’umanità europea» [OP].

Il romanzo sopravvive solo se ha la determinazione di pensarsi come piccola nazione, perché in questo modo può portare a compimento il destino iscritto nella parola Europa, ovvero occidente, participio presente, come un continuo tramontare, come un esausto cammino, che mai si ferma. Come la piccola e raggrinzita sibilla del Satyricon – «Infatti ho visto la Sibilla con i miei occhi, a Cuma, pendere in un’ampolla, e quando quei ragazzi le chiedevano: “Sibilla, cosa desideri?”, ella rispondeva: “Morire”» – l’Europa e il romanzo si fanno piccoli, fragili e sconfitti: «Ma allora, nel mondo che non è più il suo, il romanzo è destinato a scomparire? Lascerà sprofondare l’Europa nell’oblio dell’essere? […] Credo solo di sapere che il romanzo non può vivere in pace con lo spirito del nostro tempo: se vuole continuare a scoprire quello che ancora non è stato scoperto, se vuole progredire ancora in quanto romanzo, può farlo solo andando contro il progresso del mondo» [AR].
Accettate la morte di Dio, della patria, della nazione, dell’individuo, del popolo, l’Europa e il romanzo esistono a patto di continuare a raccontarsi il mito, il mito della fondazione, un mito dove a contare non è tanto ciò che viene detto, ma il fatto che si continui a raccontare. L’Europa, questa donna morente, sfiancata dalla monta del toro, dai figli nati, dalla lunga vecchia, ormai vicina alla fine, preda di bande di schifosi, di uomini e donne dimentichi di loro stessi, ha un lascito, unico, piccolo ridicolo, una semplice eredità, denigrata dai più, l’eredità di Cervantes, ovvero il romanzo, e lì, in quelle pagine, ancora per un attimo, Europa ci appare bella e giovane che cavalca un toro, ignara del suo destino di gloria e morte, comune a lei e a noi tutti.

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Demetrio Paolin

vive e lavora Torino. Collabora con il «Corriere della sera». Ha scritto saggi e romanzi. Nel 2016 è stato tra i 12 finalisti del premio Strega con il romanzo “Conforme alla gloria” (Voland). Il suo ultimo libro è “Anatomia di un profeta” (Voland).

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