Il conte di Montecristo per lettori suscettibili: come vestire i panni di Edmond Dantès e delle sue numerose incarnazioni e farla franca. Dopo le istruzioni per l’uso, la prima, la seconda, la terza, la quarta, la quinta, la sesta, la settima, l’ottava e la nona puntata, arriviamo all’ultimo appuntamento: rispecchiarsi nel racconto degli altri.
Quando il conte scese lungo la scala buia, quando venne condotto alle segrete che aveva chiesto di visitare, un pallore freddo gli invase la fronte e il sudore gelido gli fu ricacciato fin dentro il cuore…
Montecristo venne scortato nella propria segreta. Rivide il chiarore che filtrava dallo spiraglio, rivide il punto in cui si trovava il letto, che era stato rimosso, e dietro al letto, ostruita ma ancora visibile per via delle pietre più recenti, la galleria scavata dall’abate Faria.
Montecristo sentì le gambe venir meno, prese uno sgabello e si sedette.
Nel centotredicesimo capitolo, intitolato Il passato, Edmond vive una profonda crisi. È arrivato quasi al termine del suo piano, e ormai può dirsi pienamente vendicato, eppure è insoddisfatto. Qualcosa di storto, di sbagliato nel suo progetto, gli fa pensare che sia il caso di fermarsi. Ha bisogno di rivedere il suo passato in modo diverso, e per questo torna al castello d’If, dove vive un’esperienza potente, che produce un cambiamento significativo nel suo progetto di vita.
Mentre si trova nella sua vecchia cella, seduto sullo sgabello, domanda al custode che lo accompagna se per caso non conosca qualche storia sugli avvenimenti più importanti del passato, quando il castello era ancora una prigione. E il custode comincia a narrare:
Questa segreta parecchio tempo fa ospitava un prigioniero assai pericoloso, tanto più pericoloso per quanto era ingegnoso. Un altro uomo abitava questo castello nello stesso periodo. Non era un uomo cattivo, era un povero prete pazzo.
“Ah, pazzo! – ripeté Montecristo – E qual era la sua pazzia?”
“Offriva milioni a chi avesse voluto rendergli la libertà”.
Montecristo alzò gli occhi al cielo, ma senza vederlo; tra sé e il firmamento c’era uno strato di pietra. Uno strato simile a quello che separava i tesori offerti dall’abate Faria e coloro ai quali venivano offerti.
“E i prigionieri potevano incontrarsi?”, chiese Montecristo.
“Oh no signore, era proibito. Tuttavia costoro elusero il divieto scavando una galleria che andava da una cella all’altra”.
“Chi fu dei due a scavare la galleria?”.
“Oh, fu sicuramente il giovane”, disse il custode. Era forte e ingegnoso, mentre il povero abate era vecchio e debole. Inoltre aveva la mente troppo instabile per seguire un’idea”.
“Ciechi…” mormorò il Conte di Montecristo.
“Tanto è vero che il giovane scavò questa galleria”, proseguì il custode, “con che cosa non si sa, ma di fatto la scavò e ancora si può vedere la traccia. Ecco, vedete?”. E accostò la fiaccola alla parete.
“Ah, davvero!” esclamò il conte con la voce affievolita dall’emozione.
“Quindi i due prigionieri comunicarono tra loro. Quanto tempo sia durata questa comunicazione, non si sa. Un giorno il vecchio cadde malato e morì. E indovinate cosa fece il giovanotto?”.
“Dite”.
“Trasportò il defunto, lo mise nel proprio letto col viso rivolto verso il muro, tornò nella cella vuota, tappò l’apertura e s’infilò nella sacca del morto. Avreste mai pensato a un’idea come questa?”.
Montecristo chiuse gli occhi e tornò a sentire tutte le sensazioni provate in quegli istanti, quando la tela grezza, ancora intrisa del gelo del cadavere, gli strofinava il viso.
Il custode continuò:
“Vedete, questo era il suo progetto: pensava che nel castello d’If i morti si seppellissero, e credendo che per i prigionieri non si facessero spese per la bara, prevedeva di sollevare la terra con le spalle. Ma disgraziatamente al castello c’era una consuetudine che intralciava il suo progetto: i morti non si seppellivano, venivano lanciati in mare con una grossa palla di cannone attaccata ai piedi. E così fu fatto. Il nostro uomo fu gettato in acqua dall’alto della galleria. L’indomani il vero morto venne rinvenuto nel letto e si intuì ogni cosa, poiché i becchini dichiararono quanto non avevano osato dire fino a quel momento, cioè che nel momento in cui il corpo era stato lanciato nel vuoto avevano sentito un urlo terribile soffocato nello stesso istante dall’acqua nella quale era sprofondato.
Il conte respirava a fatica, il sudore gli scorreva sulla fronte, l’angoscia gli stringeva il cuore.
“No – mormorò – no! Il dubbio che ho provato era un principio di oblio. Ma ora il cuore si spalanca di nuovo e ritorna affamato di vendetta!”.
“E il prigioniero?”, chiese. “Se n’è mai sentito parlare?”.
“Mai e poi mai. Capite, delle due cose l’una: o è caduto di piatto, e siccome cadeva da una cinquantina di metri sarà morto sul colpo”.
“Avete detto che aveva una palla ai piedi: sarà caduto dritto”.
“Oppure è caduto in piedi – proseguì il custode – e in tal caso il peso della palla l’avrà trascinato sul fondo, dove è rimasto, pover’uomo”.
Il dialogo continua con altri particolari. Edmond viene a sapere di essere creduto morto. E scopre che nessuno si ricorda il suo nome, perché in questa specie di leggenda che si tramanda oralmente egli è chiamato il “numero 34”. La visita alle segrete, poi, prosegue nella cella dell’abate, dove il conte ritrova il manoscritto di Faria.
Ma fermiamoci qui, usciamo dal mondo narrato da Dumas e occupiamoci di noi.
Hai assistito a una scena capitale del romanzo, in cui Edmond, divenuto ormai il conte di Montecristo, rivede i luoghi in cui ha trascorso quattordici anni di prigionia e ascolta dalla voce di un custode il racconto delle sue vicende così come è stato tramandato dai testimoni. È un racconto inesatto, pieno di errori e di interpretazioni sbagliate, tuttavia è ciò che rimane di lui e occorre farci i conti.
Anche a te, lettore, è successo, credo, come è successo a me: ti muovi nel mondo, agisci, fai delle scelte, hai determinati comportamenti, parli, esprimi le tue idee, e nel frattempo gli altri ti osservano, si confrontano con te, ti ascoltano. E così si fanno un’idea di chi sei, del tuo carattere, perfino dei tuoi progetti, delle tue ambizioni, e poi delle tue avventure… In fondo ciascuno di noi, esattamente come un personaggio famoso, deve fare i conti con l’opinione pubblica.
Nessuno di noi può dire di conoscersi veramente se non tenendo conto di ciò che gli altri dicono di lui, di come lo rappresentano. Anche perché le opinioni e i racconti degli altri su di noi ci influenzano profondamente, nel senso che influiscono sui nostri comportamenti e sull’idea che abbiamo di noi stessi. Tanto vale prenderne atto e assumere un maggiore controllo sulla nostra vita.
Per questo, alla fine di quest’esperienza di lettura e di immedesimazione, ti propongo di fare un gioco, in tre parti. Puoi farlo con l’immaginazione oppure per scritto, usando una penna e un foglio.
Comincia da una riflessione su come ti vedono gli altri.
Qual è la tua rappresentazione sociale? Chi sei per gli altri? Quali sono le tue caratteristiche? Che cosa si dice di te?
Quando pensi di aver trovato elementi sufficienti a disegnare il personaggio (perché anche tu, in fondo, puoi essere un personaggio, il protagonista della tua storia) possiamo andare avanti con il secondo passo e riflettere su come vorresti che ti vedessero.
Vorresti essere rappresentato in modo diverso?
Il terzo passo, il più difficile, consiste infine nell’immaginare come ti vedrebbero volentieri. Chi vorrebbero che tu fossi?
[Per approfondire, qui]