E se Leopardi fosse omosessuale?

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“Silvia è un anagramma” è il titolo dell’ultimo libro di Franco Buffoni, uscito da poche settimane, sul rapporto tra studi letterari e studi di genere, tra letteratura e biografia. Perché leggerlo, nell’ottica di una didattica della letteratura consapevole, attenta e rispettosa della vita delle persone che la riguardano e a cui si rivolge.

Il bullismo omofobico è una forma specifica di bullismo motivato dall’omofobia e diretto verso gli studenti e le studentesse che sono o che vengono percepiti come lesbiche, gay, bisessuali o transgender. Si tratta, in estrema sintesi, di una grande varietà di prepotenze – esclusione dal gruppo di pari, diffusione di pregiudizi, diffamazione, danneggiamenti alle proprietà, insulti, violenza fisica – perpetrate in modo intenzionale e persistente nel tempo da parte di uno o più bulli o bulle nei confronti di una vittima.

Da una recente ricerca sul bullismo realizzata da un gruppo di ricerca guidato da Federico Batini per conto dell’Università di Perugia – una ricerca che, va ricordato, è stata ostacolata da un ministro dell’istruzione e ha incontrato forti resistenze da parte di molte scuole –, emerge un quadro piuttosto chiaro del clima che si vive quotidianamente nelle scuole, della frequenza con cui le persone vengano offese, prese in giro o molestate fisicamente per il loro orientamento sessuale (reale o presunto) o per come esprimono la propria femminilità o mascolinità. Un problema sottovalutato da docenti e genitori, che tuttavia è confermato da molte indagini nazionali e internazionali, tutte concordi nell’evidenziare un clima di ostilità verso le persone omosessuali, costrette a fare quotidianamente i conti con la diffusa omofobia.

La presenza di un linguaggio omofobico crea un ambiente ostile e di disagio per tutti gli studenti (per esempio nella presente indagine circa il 60% delle ragazze di I e II grado ha dichiarato di essere molto o abbastanza infastidita dai commenti omofobi, meno i ragazzi: il 38,0% e il 22,4% rispettivamente di I e II grado) ma, ovviamente, a sentirne direttamente le conseguenze sono i ragazzi e le ragazze LGBT. Quando il linguaggio omofobico viene tollerato anche dalla scuola si crea un clima di legittimazione per cui utilizzare determinati termini o espressioni per prendere in giro e denigrare diventa qualcosa di “socialmente accettato”.

È su questo sfondo che va collocato, a mio avviso, l’ultimo libro di Franco Buffoni, Silvia è un anagramma. Per giustizia biografica (Marcos y Marcos, 2020), che si presenta al pubblico con questa quarta di copertina:

Dover nascondere il proprio orientamento sessuale per timore della sanzione della società e della legge ha segnato pesantemente la vicenda umana di molti scrittori del passato.
È stato quasi certamente il caso di Leopardi, e forse anche quello di Pascoli e di Montale.
Ricostruire questo aspetto adesso non cambia ovviamente la valutazione estetica, ma consente un nuovo sguardo, stimolante e libero, su vicende artistiche e di vita, anche per rendere, almeno a posteriori, doverosa giustizia biografica.

Il libro, uscito a inizio agosto, quando il parlamento italiano era impegnato nella discussione sulla legge contro l’omotransfobia, mette a disposizione dell’insegnante di area umanistica alcuni strumenti concettuali fondamentali a prendere sul serio e fronteggiare il fenomeno del bullismo omofobico e, soprattutto, a iniziare un percorso di trasformazione del contesto scolastico, alla cui costruzione contribuiscono in pari misura i comportamenti di docenti e personale non docente, le metodologie didattiche e, anche, le storie che si raccontano, la lingua che si usa e, in definitiva, i contenuti culturali che vengono proposti e sviluppati.

La storia della letteratura che da oltre centocinquant’anni viene raccontata, nella scuola secondaria di primo e di secondo grado, secondo consuetudini radicate al punto da resistere a ogni riforma della scuola e a ogni innovazione didattica, è di per sé un ambiente di apprendimento, un contesto narrativo nel quale le persone in carne ossa – gli autori delle opere letterarie – si muovono come personaggi di un romanzo che narra la formazione della civiltà italiana o, per i più romantici, della nazione. Potremmo addirittura affermare che gli studi umanistici, a scuola, sono i soli a parlare esplicitamente della vita degli uomini – e di alcune donne, pochissime – del passato, generalmente rimossi dall’insegnamento delle materie tecniche e scientifiche.

Insomma, le biografie degli autori sono già oggi pane quotidiano per docenti e studenti, e il loro contributo all’educazione è già un dato di fatto. Ma è sicuro che le vite degli altri vengano raccontate e usate didatticamente in modo consapevole e, soprattutto, al fine di costruire un ambiente di apprendimento sempre più democratico e inclusivo?

Tenuto conto della scarsa penetrazione degli studi culturali nell’università italiana – soprattutto nel settore dell’italianistica – e visto che ancora sembra non essere stata recepita, dall’intera società, la delibera dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 17 maggio 1990 che definisce l’omosessualità «una variante naturale della sessualità umana», Franco Buffoni, poeta e accademico, già professore ordinario di letteratura inglese e di letterature comparate, ha deciso di fornire uno stimolo alla riflessione e al cambiamento con questo suo libro, a tratti provocatorio, e sempre gentile e inclusivo, perché capace di parlare a tutte e a tutti con un linguaggio chiaro, pacato e concreto.

Questo, per esempio, è un brano in cui si ragiona di un concetto utilissimo: il «neutro accademico eterosessuale».

In Italia non sono ancora penetrate in profondità nel tessuto critico-accademico istanze di studi di genere e di cultura omosessuale. E ancora appaiono nella loro stolidità i valori di sopravvivenza del neutro accademico eterosessuale, spacciato per universale, secondo la sapida definizione di Eleonora Pinzuti. Me ne resi conto nel 2012 in occasione del centenario pascoliano, quando tentai di includere l’omosessualità nel paradigma delle ‘possibilità’ di lettura della biografia e dell’opera del poeta dei Canti di Castelvecchio. Ma l’eguale potrebbe accadere con Cesare Pavese. E potrei continuare con Clemente Rebora, Marino Moretti o Libero De Libero. Quante biografie di autori italiani appaiono irrisolte per via del pervicace rifiuto a rompere il velo di quell’indistinto grigiore.
E che non ci si permetta di speculare sull’esistenza di un’ipotetica ‘letteratura omosessuale’!
Perché la radicata presenza nelle coscienze di un disvalore intrinseco al termine omosessuale ancora provoca un senso di svilimento e di ghettizzazione: lo stigma sociale. Con conseguenti censure, autocensure, necessità di mascheramenti e mistificazioni.

Nel 2002, in occasione del ritrovamento di una delle lettere d’amore di Giacomo Leopardi ad Antonio Ranieri, sul quotidiano «La Repubblica» usciva un articolo intitolato Leopardi gay? Vietato dirlo nel quale si legge che

il Centro nazionale di studi leopardiani sta valutando l’ipotesi di querelare tutti quelli che ogni volta che possono mettono in discussione i gusti sessuali del tenero Giacomo.

E non si capisce se sia più grave l’ipotesi di ricorrere alla giustizia o il linguaggio usato dal giornalista, velatamente omofobo, che di fatto relega al rango di pettegolezzi pruriginosi le speculazioni sull’omosessualità del poeta.
D’altronde, ancora a fine Ottocento l’accusa di omosessualità era usata per insultare i poeti e i critici vicini alle poetiche del decadentismo europeo. Ne fa fede il duello – minacciato, organizzato e poi non combattuto – tra Girolamo Ragusa Moleti, primo traduttore italiano delle poesie in prosa di Baudelaire e fustigatore dei decadenti, e Enrico Corradini, all’epoca direttore della rivista «Il Marzocco».
Scriveva il palermitano Ragusa Moleti ai redattori del «Marzocco»:

A me l’oblio; a voi la gloria. Divertitevi pure in piaceri difficili, in amori alla rovescia; ma abbiate la pietà di tollerare che, in arte e nella vita, io continui nei vecchi sistemi d’Adamo, non riveduti e corretti dal vostro celebre compagno di raffinatezze Oscar Wilde.

E ancora – in pieno Novecento – il critico Luigi Russo, che dopo la seconda guerra mondiale fu direttore della Normale di Pisa e fondatore della rivista «Belfagor», rivolge nei confronti dei critici ermetici queste parole:

un linguaggio così ambiguo mi tradisce un non so che di sessualmente incerto negli esemplatori e propalatori di quelle formule. Linguaggio da frequentatori di carceri giudiziarie, e da benvoglienti, sia pure in senso metafisico, dei costumi alcibiadei. Nei più deboli fra questi inventori, e i meno noti e però quasi inediti, io sento per l’appunto una forma di androginismo mentale… (L. Russo, La critica letteraria contemporanea, Laterza, Bari 1954, vol. III, p. 247).

Un linguaggio così diretto ed esplicito, viene da pensare oggi leggendo le parole di Russo, che impegna o, quasi, obbliga, i più giovani aspiranti letterati a dichiararsi e a sentirsi maschi eterosessuali, e a manifestare pubblicamente il loro disprezzo per l’omosessualità.

Scrive Gino Tellini in uno dei capitoli più preziosi di un recente manuale di didattica della letteratura italiana, dedicato proprio al problema delle biografie degli autori nell’insegnamento letterario, a proposito del poeta Aldo Palazzeschi:

Quando si scopre omosessuale, avverte forte anche il rifiuto delle norme convenute, l’inadattabilità al sentire comune. L’affetto profondo che lo lega ai genitori inasprisce il conflitto familiare e rende più tesa, più acuminata, più tagliente, più sofferta la sua ansia d’indipendenza e di autonomia. L’omosessualità acuisce il senso dell’isolamento e dell’esclusione. Questi della primissima giovinezza, sono anni tragici e Aldo pensa addirittura al suicidio, per un’angosciosa condizione di disadattamento all’ambiente familiare e alla vita. (La biografia degli autori in Didattica della letteratura italiana, Le Monnier Università, Firenze 2020, pp. 83-84).

È possibile leggere Palazzeschi, confrontarsi con la sua opera, senza tener conto dei fattori socio-culturali e del vissuto biografico che sono alla base dell’anticonformismo, dell’ironia, dell’esaltazione della diversità e della varietà, della complessità e anche della bellezza della vita? «Palazzeschi – continua Tellini – allena i suoi lettori a un esercizio di agilità mentale che trasmette energia interiore; addestra a guardare in controluce i pregiudizi diffusi e le imposizioni delle mode, come invito alla consapevolezza di sé e alla libertà di pensiero» (p. 84).

Chissà che non sia un caso che Palazzeschi sia rimasto sempre un autore da retrovie della didattica della letteratura, dietro a Ungaretti, Montale e Saba. Di un autore per il quale l’omosessualità è divenuta un elemento innegabile e imprescindibile alla comprensione della sua opera, forse è meglio limitarsi ad antologizzarne una poesia, senza dedicargli un profilo biografico-critico.

E che dire invece della lettura di Umberto Saba? Cosa accadrebbe se il percorso critico sull’autore cominciasse, come sarebbe opportuno, da questo brano tratto dal suo ultimo e fondamentale romanzo autobiografico?

Voleva far contento, dar piacere al suo amico, e provare egli stesso una sensazione nuova, desiderata appunto per la sua novità e stranezza. Al tempo stesso temeva di sentir male. Non aveva, in quel momento, altre preoccupazioni.
– Xe tanto bel? – disse.
– La più bela roba del mondo.
– Per lei forse, non per mi…
– Anca per lei… No la ga mai fato con un omo?
– Mi? Mai… E lei, con altri ragazzi?
– Tanti. Ma nissun bel come lei –. E cercò di fare una carezza a Ernesto, che il ragazzo schivò, voltando appena la faccia.
– E lori cossa i diseva?
– Niente i diseva. I iera contenti. Qualchidun anca me pregava –. Lo sguardo di Ernesto cadde su una parte della persona dell’uomo visibilmente eccitata.
– El lo fazi veder, – disse.
– Volentieri, – disse l’uomo. E si accingeva ad accontentare sé ed il ragazzo, quando questi lo fermò.
– Ghe lo cavo fora mi, – disse. – Posso?
– Certo che el pol.
(U. Saba, Ernesto, Einaudi, Torino 1975, pp. 15-16.

Sarebbe una scuola migliore, io credo. Sarebbe un buon inizio per cambiare uno stato di cose inaccettabile, perché non possiamo far finta che certe cose non accadano, perché se gli studenti vivono in un ambiente scolastico linguisticamente tossico e potenzialmente pericoloso, in cui ancora oggi è possibile essere discriminati, insultati e offesi sulla base dell’orientamento sessuale (vero o presunto) o più in generale dell’identità di genere, è una precisa responsabilità di chi insegna ricorrere a tutte le risorse disponibili per cambiare la visione del mondo, agendo sul linguaggio interpersonale e, anche, attraverso la scelta delle storie da condividere.

Una scuola in cui non ci si scandalizza se qualcuno, dopo aver letto una lettera come questa – «Ranieri mio. Oggi non ho tue nuove. Ti ripeto ch’io ho scritto due volte a Francesco Pane. Ti ripeto ch’io t’amo quanto si può amare in questa vita, e che ogni giorno, ogni ora ti sospiro» – ipotizza che Giacomo amasse effettivamente Antonio, al punto da non separarsi da lui per lunghi anni, da scrivergli appassionate dichiarazioni d’amore e da pagargli i debiti, pur non disponendo di molte risorse finanziarie. Non perché sia più facile, in questo modo, capire le sue prose e poesie, ma per rendere giustizia a una vita che, come tante altre, è stata probabilmente funestata da un ambiente bigotto e omofobo anche quando si diceva liberale e progressista. E anche, e sarebbe già una grande conquista, per farla una buona volta finita con la storia del gobbo respinto dalle donne o, peggio, del poeta che insegue le sue muse (e lascio a chi leggerà Silvia è un anagramma il gusto di scoprire il Montale omofobo raccontato da Buffoni).

Il 2 di settembre, intervistato da Guido Barbieri a Radio Tre Suite, Franco Buffoni è stato molto chiaro nel manifestare la sua intenzione propriamente civile e politica: perseguire la verità storica e rivelare aspetti della vita intima di autori che non hanno bisogno di essere consacrati – né tantomeno sconsacrati, visto il loro riconosciuto valore artistico – ha lo scopo di fornire diverse chiavi di lettura ad alcuni particolari della loro opera, e, soprattutto, di aiutare qualche lettore o lettrice a trarre conforto dall’incontro con certi testi.

Alla fine del suo libro, mostrando un grande senso di civilità e di rispetto umano, Buffoni racconta due casi di cronaca: quello del ventunenne Simone che si è ucciso gettandosi dal tetto dell’ex pastificio Pantanella in via Casilina perché omosessuale, e poi dell’omicidio di due ragazzi gettati dal tetto di un hotel di Palmira da un improvvisato tribunale sedicente islamico. Sono «colpi di coda della fase uno», spiega Buffoni, alludendo alla prima fase della storia dell’omosessualità, che a partire dal quarto-quinto secolo diventa peccato e poi crimine. A questa lunghissima epoca, che in Italia si chiude alla fine dell’Ottocento, segue la fase della medicalizzazione dell’omosessualità, considerata una malattia da curare: con l’internamento in manicomio, con terapie chimiche o, nel migliore dei casi, con la psicoterapia. Solo dagli anni Sessanta e, in Italia, dagli anni Settanta del Novecento, è nato un movimento in grado di rivendicare la parità di diritti da parte di gay e lesbiche, e dal 1990 si può considerare superata – almeno a livello scientifico e legislativo, e non in tutto il mondo – l’idea che l’omossessualità vada curata. La quarta fase, quella delle cosiddette società post-gay, nelle quali «l’adolescente non percepisce più alcuno stigma sociale se si innamora del compagno di banco invece che della compagna», è già in corso in alcune zone metropolitane del Canada e del Nord Europa e, aggiungo io, si affaccia anche in alcune delle scuole italiane che frequento e conosco.

È una fase a cui dobbiamo aspirare di arrivare presto, per il benessere e la sicurezza di alunne e alunni. La didattica della letteratura trovi il modo di dare il suo contributo, superando le polemiche e sforzandosi di superare resistenze che parlano soprattutto della cultura in cui siamo cresciuti, dei critici che abbiamo letto e anche imitato: uomini – soprattutto uomini, maschi bianchi europei – e donne che hanno vissuto in un altro mondo, in una fase storica che dobbiamo assolutamente oltrepassare.

Gli studi letterari, che ormai da tempo stanno dialogando con altre discipline per cercare di capire quale sia il reale impatto della lettura di determinate opere sulla costruzione dell’immaginario delle persone e delle loro comunità, hanno compreso quanto sia grande la responsabilità di chi deve scegliere quali storie tramandare e di chi deve raccontarle durante le ore scolastiche: storie di persone in carne e ossa – individui che scrivono, dipingono, scolpiscono, compongono – e storie di personaggi che agiscono nei mondi narrati. Pare sia arrivato il momento di aggiornare quelle storie alla luce della ricerca storica e antropologica, ma anche di scegliere storie diverse. Non all’insegna del politicamente corretto ma, una volta tanto, sotto l’egida della verità storica e dell’autenticità, in difesa e a sostegno della complessità e della varietà della vita umana sulla Terra.

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Simone Giusti

ricercatore, insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale L’onesta brigata. Per una letteratura delle competenze, per il triennio delle secondarie di secondo grado.

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