Per il resto un consumo sovrabbondante, ma molto passivo, di musica di tutti i tipi, prevalentemente popolar-rockettara, che arriva tramite i moderni strumenti di diffusione (iPhone, iTunes, ecc.) e accompagna con ritmi melensi le canzoncine dell’Antoniano o con ritmi martellanti le feste assordanti e i ritrovi dei giovani. Poche eccezioni come, per esempio, quelle di alcuni gruppetti che si riuniscono in un garage per imitare speranzosi i Beatles, provando a metter su la loro piccola band.
Fra gli argomenti in discussione c’è la questione se la musica abbia o meno una funzione positiva nel render intellettualmente più agili e vivaci coloro che la praticano come esecutori o ascoltatori, e se questa sia una ragione forte per inserirla degnamente e ampiamente nella formazione complessiva dei nostri ragazzi e non solo nei licei musicali. Io sono abbastanza scettico nel valutare i risultati di tipo statistico e tendenzialmente superficiale di molti esperimenti e raccolte dati che vanno sempre più di moda negli ambienti scientifici dei cognitivisti e neuroscienziati americani.
Sono tuttavia rimasto abbastanza colpito dalle conclusioni di alcune ricerche di cui ha riferito, sulla rivista «PLoS One», un gruppo di scienziati del Laboratory for Developmental Studies dell’università di Harvard, capeggiati da Samuel Mehr. Secondo gli estensori dell’articolo i loro esperimenti smentiscono l’idea abbastanza diffusa secondo cui i bambini che hanno avuto esperienza e educazione musicale hanno risultati migliori in altre aree dell’apprendimento (matematica, logica, memoria) e molti degli adulti che hanno imparato da piccoli a suonare uno strumento musicale hanno avuto più di altri successo nella loro vita professionale. È possibile che i dati riguardanti il successo siano dovuti semplicemente a un fattore sociologico: quei bambini e quegli adulti con risultati positivi provengono dalla media e alta borghesia e hanno avuto, oltre a una educazione musicale, un ambiente familiare favorevole a tutte le forme di apprendimento: lettura di libri anziché consumo passivo dei programmi televisivi, viaggi di istruzione, visite ai musei, ecc.
I ricercatori di Harvard hanno sottoposto gruppi di bambini in età prescolare a esperimenti abbastanza raffinati (RCT, cioè randomized controlled trials) per stabilire se ci fosse un legame chiaro fra l’esposizione alla musica dei soggetti testati (o, a confronto, l’esposizione a oggetti d’arte) e sviluppo delle loro capacità cognitive. Dopo sei settimane di esperimenti i bambini sono stati sottoposti a controllo di quattro diverse aree cognitive: capacità di navigazione spaziale, abilità nell’eseguire analisi visiva, discriminazione numerica e ricettività verbale. I risultati sono stati negativi sia per l’educazione musicale che per quella artistica. Gli studiosi di Harvard si mostrano cauti nel trarre conclusioni affrettate dai loro esperimenti e si ripromettono di impostarne di nuovi. Essi si guardano bene dal prendere posizione contro l’utilità dell’educazione artistica e musicale, i cui meriti, secondo loro, non vanno cercati semplicemente nell’area delle capacità cognitive: un ragionamento questo che ricorda le discussioni che si sono fatte per anni da noi sull’importanza e l’utilità dell’insegnamento del latino per incrementare le capacità logiche (allora non si diceva cognitive) dei nostri ragazzi.
Commentando sulle pagine del «New York Times» i risultati della ricerca, il leader del gruppo Samuel Mehr ha usato toni comunque positivi e ottimistici, in favore sia dell’educazione musicale sia di quella artistica. Secondo lui le autorità scolastiche e di governo vanno incoraggiate a inserire l’esperienza musicale nella scuola e nella vita dei giovani, non solo per le abilità specifiche che essa promuove, ma per il patrimonio culturale che trasmette e, soprattutto, per la gioia che può suscitare. Citando Aristotele, Mehr conclude: «la musica rende lieto il cuore degli uomini».
L’episodio suggerisce qualche dubbio sulle tendenze riduzionistiche e semplificatorie presenti fra i cultori del cognitivismo e delle neuroscienze, almeno in quelli che si riallacciano senza incertezze alla tradizione americana del pragmatismo e del behaviourismo e alla fede inconcussa nei rilevamenti statistici.
C’è, a me pare, una chiara tendenza al riduzionismo quando i ricercatori di Harvard si sforzano di porre in rapporto l’esperienza di un ascolto, o anche di un’esecuzione, musicale con alcune abilità (si direbbe gli «skills» o, con una parola di moda, le «competenze») della mente umana: la navigazione spaziale, l’abilità nell’eseguire analisi visiva, la discriminazione numerica e la ricettività verbale. Il saggio pedagogista Howard Gardner, che opera pure lui a Harvard, nei suoi scritti sull’intelligenza multipla, in chiara polemica con le posizioni pragmatiste, assegna a quella che lui chiama «l’intelligenza musicale» un posto a sé, distinto da quello occupato da altre intelligenze: logico-matematica, linguistica, spaziale, cinestetica, interpersonale, intrapersonale, naturalistica e forse esistenziale (la gioia di Aristotele).
Mi sembra evidente che gli aspetti peculiari dell’esperienza musicale, soprattutto gli elementi del ritmo, della melodia e dell’armonia, non possano essere collegati meccanicamente con le singole abilità di cui parlano i ricercatori capitanati da Mehr: le possibili interconnessioni sono più ampie (il ritmo ha rapporti con l’intelligenza cinestetica, l’armonia con quella logico-matematica e spaziale, la melodia forse con l‘intelligenza esistenziale) e le misurazioni dell’incremento che ciascuna esperienza dà alle altre non possono essere ridotte a puro calcolo statistico.