Le correnti dominanti oggi nella psicologia, nella psichiatria e in molte altre scienze, ispirate in gran parte a behaviorismo e cognitivismo, hanno invece dimostrato una grande diffidenza sia verso le teorie psicoanalitiche e altre con essa connesse (l’antropologia, la storia e mitologia della natura umana), sia verso le pratiche dell’analisi individuale, basata sulla ricostruzione di una narrazione nascosta nell’inconscio e sulla rivelazione di censure e rimozioni. Esse hanno introdotto, per la cura delle nevrosi e delle psicosi, o anche semplicemente della depressione o di altre forme postmoderne di disagio, pratiche psicoeducative di tipo comportamentale e uso di farmaci e altri supporti dalle qualità terapeutiche. Questa situazione, tipica dell’attuale congiuntura culturale, fa da sfondo a un libro molto interessante che sostiene le ragioni della psicoanalisi e rivisita proprio quella parte del lavoro di Freud, avviato dopo la svolta degli anni successivi alla prima guerra mondiale, che affronta i grandi problemi della storia culturale dell’umanità, in opere problematiche e suggestive come Al di là del principio del piacere (1920), Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), Il disagio nella civiltà (1929) e L’uomo Mosè e la religione monoteista (1934-38). (Totem e tabù era già stato scritto nel 1913). Il libro di cui parlo, a cura della giornalista del «Manifesto» Francesca Borrelli, si intitola Nuovi disagi nella civiltà: Un dialogo a quattro voci (Torino, Einaudi, 2013) e contiene un dialogo fitto e aperto tra lo psicoanalista freudiano Francesco Napolitano, il lacaniano Massimo Recalcati e il filosofo Massimo De Carolis. Sono frequenti nel libro gli attacchi alle neuroscienze, di cui viene denunciato il riduzionismo, «la cui ingenuità sarebbe pari alla sua protervia», e al cognitivismo, «che riconosce nelle attività del pensiero e della volontà semplici procedure di calcolo predeterminate nel cervello», anche se varie volte e da vari degli interlocutori traspare la volontà di un confronto con i rappresentanti meno rozzi del fronte neuroscientifico e la proposta di un dialogo fra neuroscienze (fortemente radicate nella cultura americana) e filosofie della conoscenza (di solito collegate con quella che viene definita la «tradizione continentale», europea). Questa posizione di reciproco interesse affiora nella proposta di Francesco Napolitano, quando sostiene che i due poli andrebbero mantenuti in tensione per evitare di ricadere, di volta in volta, nei fraintendimenti degli psicoanalisti affiliati alla neurobiologia, per i quali l’uomo altro non sarebbe se non «un conglomerato di neuroni», o nelle estremizzazioni di quelli fanatici dell’ermeneutica, per i quali l’uomo si risolverebbe in «una antologia di narrazioni». De Carolis, a sua volta, afferma: «psicoanalisi e neuroscienze, se condotte con rigore, non sono affatto prospettive incompatibili ma possono, anzi, contribuire a illuminare, a livelli diversi, un quadro clinico sostanzialmente identico». Le differenze di impostazione e giudizio fra i quattro interlocutori sono rilevanti, così come la non concorde disponibilità a rivedere anche radicalmente le posizioni di Freud, soprattutto rispetto alla diagnosi da lui tentata a suo tempo sulla società e la «civiltà» contemporanee (io alla parola «civiltà» preferirei la parola «cultura», proprio riferendomi al grande dibattito nella Germania del primo Novecento tra «Zivilisation» e «Kultur»). Fra il tempo del libro di Freud sui disagi nella sua civiltà e quello odierno sui nuovi e diversi disagi nella nostra civiltà, c’è stato il passaggio dalla modernità alla postmodernità (o l’ipermodernità, o la «modernità liquida») e tutti e quattro gli interlocutori sono perfettamente consapevoli del cambiamento, e tutti e quattro tendono a giudicarlo a tinte fosche (trasformandosi spesso nei Quattro cavalieri dell’Apocalisse). Tuttavia sulla portata e la radicalità del cambiamento i pareri non sono allineati: se per Napolitano la creatura umana, nella sua sostanza biologica e psichica, nonostante i cambiamenti e i condizionamenti sociali e culturali molto estesi e incisivi, rimane sostanzialmente uguale a se stessa, condizionata dalla vicenda storica dell’Edipo secondo la ricostruzione freudiana, per gli altri partecipanti al dialogo, e in particolare per De Carolis e Recalcati, il salto epocale ha profondamente trasformato l’uomo ipermoderno, rendendo inapplicabili molto analisi di Freud. Recalcati, sulla scia di pensatori francesi come Sartre e Lacan, arriva a rivedere radicalmente anche la nozione di «inconscio». Esso non può essere considerato un oggetto esterno al soggetto, «non occupa uno spazio, non ha estensione, non può essere misurato con gli strumenti della scienza. E tuttavia non è nemmeno un oggetto interno come può esserlo una lesione o una connessione neuronale: non occupa un posto del cervello, non è strutturato come una serie di sinapsi». Ma allora, che cos’è? Risponde Recalcati: «La mia proposta è quella di pensare l’inconscio come un incontro, come un evento». La descrizione, minuta e articolata, nel libro, dei cambiamenti sconvolgenti che si sono verificati nel nostro mondo, credo che possa essere di grande utilità anche per gli studiosi della letteratura e anche per gli insegnanti della scuola, impegnati a trasmettere cultura in una situazione che è assolutamente nuova e anche minacciosamente tale. I soggetti che producono oggi i testi letterari, o i giovani che frequentano le nostre scuole, sono gli stessi di cui parlano gli autori di questo libro: molto fragili, portati, come vuole De Carolis, più alla vergogna che alla colpa, molto condizionati dalla mancanza di un senso del passato e del futuro e dall’appiattimento e svuotamento di senso del presente, dai velocissimi cambiamenti tecnici e sociali, dal nuovo capitalismo finanziario (che alla prospettiva del futuro ha sostituito quei pericolosi strumenti di investimento che sono i derivati e i «futures»). I nuovi soggetti sono immersi in un tempo che non è più quello rituale delle società antiche, ma neppure quello mercantile delle società premoderne e moderne (che era ancora anche il tempo di Freud e della seduta psicoanalitica, con i riti e gli orari del suo setting), ma è quello che Napolitano chiama «il tempo finanziario» (anziché l’acquisto-vendita di oggetti, l’acquisto-vendita di denaro), un tempo che «si contrae così fino a guadagnare gli infinitesimi degli scambi borsistici in tempo reale, un tempuscolo vicino a quella quasi-nullità che i fisici indicano come particella elementare del tempo e chiamano cronone». Come può impostare la propria missione educativa un insegnante che si trova davanti a una scolaresca che, condizionata dalla cultura dominante, preferisce agire anziché pensare, ripetere anziché ricordare? O, secondo la formulazione di Heidegger, obbedisce alla dittatura del pronome impersonale: «ciascun singolo trova bello ciò che si trova bello, va in vacanza dove si va in vacanza, e così via»?