Convergenze # 16 – Letteratura ed economia: progresso?

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Ho colto un’interessante convergenza nelle mie letture. Sul Domenicale del «Sole 24 Ore» di un paio di settimane fa, è comparso un articolo di Claudio Giunta, uno studioso della letteratura italiana medioevale, intitolato “Dante dopo l’apocalisse”. Siamo nell’anno centenario e dobbiamo aspettarci molte pubblicazioni, convegni, progetti editoriali su Dante. 
Gustave Doré, copertina di E. A. Poe, The Raven, 1884

Giunta si immagina che Dante «si sarebbe molto meravigliato se gli avessero detto che nel 2015 gli italiani avrebbero festeggiato il suo settecentocinquantesimo compleanno»: seppur «convinto che i suoi libri sarebbero stati letti per molto tempo dopo la sua morte», certo non avrebbe immaginato che «un discreto numero di esseri umani si sarebbero fatti chiamare dantisti, cioè specialisti di… lui, e che questa bizzarra specialità avrebbe permesso a molti di loro di campare più che dignitosamente». Dante aveva una visione apocalittica della storia e certamente «non pensava che il mondo sarebbe durato fino all’anno 2015».

E invece? L’articolo si conclude con questa visione ottimistica e anti-apocalittica: «Invece, a tre quarti di millennio dall’anno 1265, il mondo è ancora in piedi, gli esseri umani se la passano infinitamente meglio di come se la passavano al tempo di Dante… Chi ha detto che il progresso non esiste?» (corsivo mio).

Gustave Doré, Dante e Virgilio all’inferno, 1857-1867

Nel libro di uno storico americano dell’economia, che ho letto contemporaneamente, ho trovato una dichiarazione molto simile. Il libro si intitola The Great Escape, l’autore è Angus Deaton ed è stato pubblicato dalla Princeton University Press (2013; in Italia tradotto da Paola Palminiello in La grande fuga. Salute, ricchezza e le origini della disuguaglianza, il Mulino, Bologna 2015). La tesi di base del libro di Deaton è che la vita dell’umanità è oggi molto migliore che in qualsiasi altro momento della storia.
Egli racconta una storia, che molti di noi potremmo a nostra volta raccontare in termini analoghi, anche se in circostanze diverse.
Siamo in Inghilterra, nel distretto minerario dello Yorkshire. I suoi bisnonni paterni, Alice e Thomas Deaton, all’inizio del Novecento avevano abbandonato la campagna nella speranza di migliorare la loro condizione di vita andando a lavorare in miniera (come aveva fatto, negli stessi anni, il padre di D. H. Lawrence). Il loro figlio, nonno dell’autore, aveva combattuto nella prima guerra mondiale, poi era tornato in miniera, diventando sovraintendente. Gli sarebbe piaciuto risalire dalla miniera e trovare un lavoro in superficie. Non ce la fece mai.
Il figlio di Thomas (e padre dell’autore), Leslie Harold, nato nel 1918, non aveva potuto ricevere una grande educazione, per i problemi economici della famiglia: in quegli anni pochissimi privilegiati frequentavano le scuole superiori; ma fece comunque dei notevoli progressi. Nel 1939 fu inviato in guerra sul fronte francese, nell’unità speciale britannica che fu travolta dall’esercito tedesco. Scampato e rientrato in Inghilterra, fu arruolato in un’unità speciale e inviato in Scozia ad addestrarsi per i commandos. Lì conobbe la futura moglie Lily, figlia di un carpentiere, ed ebbe la «fortuna» di essere trovato affetto da TBC.
Nel 1942 sposò Lily; nel frattempo cominciò a frequentare le scuole serali e dopo dieci anni di dura applicazione divenne ingegnere ed ebbe un lavoro nelle costruzioni civili. Era, per la famiglia, un netto passo avanti: una casetta in campagna, fra colline e torrenti pieni di trote. Lì nacque Angus Deaton nel 1945, dopo un’altra guerra mondiale. I genitori fecero ogni sforzo per dare ai figli una buona educazione ed essi fecero la loro parte per incrementare l’ascesa sociale.
Ai figli di Dante non era stato concesso di frequentare l’università. (Nemmeno al padre, se è per questo, che forse ebbe solo l’occasione di sentire alcune lezioni come uditore a Bologna, ma in ogni caso l’Università medioevale era una cosa diversa da quella più tardi disegnata da Humboldt e dalla tradizione dei collegi anglosassoni). Angus riuscì, con i risultati eccellenti e le borse di studio, a frequentare l’università di Edimburgo e poi quella di Cambridge (in quegli anni la tassa per frequentare Cambridge era superiore allo stipendio annuale del padre di Angus).

È inutile seguire ulteriormente la carriera di Angus, che lo ha portato da Cambridge alla prestigiosa cattedra di economia a Princeton. Emigrato in America, la situazione della sua famiglia ha conosciuto cambiamenti radicali: nel giro di due generazioni si è realizzato il sogno americano. Il nonno, nonostante la TBC giovanile, ha superato anche l’attesa media di vita che era destinata alla sua generazione ed è vissuto fino a 90 anni. I figli di Angus stanno affrontando un mondo completamente diverso, affluente, lontanissimo dalla povertà, anzi a contatto diretto con la grande ricchezza: hanno studiato entrambi a Princeton; la figlia ha una consistente partecipazione in una società finanziaria di Chicago, il figlio è socio di una compagnia di investimenti bancari a New York.

Géricault, La zattera della Medusa, 1818–1819, Parigi, Museo del Louvre

Al di là delle statistiche che misurano i livelli medi, le differenze fra gli esseri umani persistono e anzi in molti casi sono aumentate. Le statistiche che il professor Deaton fornisce vanno tutte a sostegno della sua tesi ottimistica e riguardano in gran parte il binomio wealth-health (ricchezza-salute). Egli allinea, in grafici chiari ed eloquenti, le curve del prodotto interno lordo dei diversi paesi, l’impatto del welfare e dei sistemi di sanità pubblica; offre le misure medie a confronto del progresso delle diverse nazioni e del loro benessere (salute, felicità, educazione, partecipazione democratica, legalità).
Dalle statistiche risulta che nel mondo sono più numerose le persone ricche di quelle che vivono in povertà; le vite degli esseri umani sono più lunghe e i genitori non assistono più alla inevitabile morte precoce di un quarto dei loro figli. Su ogni mille bambini nati in Inghilterra nel 1918, più di cento non raggiungevano il quinto anno di vita. I bambini che nascono oggi nell’Africa sub-sahariana hanno maggiori probabilità di sopravvivere dei bambini inglesi del 1918. Se il nonno dei ragazzi Deaton ha raggiunto i 90 anni, loro potranno tranquillamente sperare di giungere a 100.
La vita oggi è migliore di quella che hanno avuto gli esseri umani in qualsiasi altra epoca della storia.

Un Barcone di migranti, foto di Massimo Sestini

Tutto bene, dunque? Deaton, con onestà, ammette che, al di là delle statistiche che misurano i livelli medi, le differenze fra gli esseri umani persistono e anzi in molti casi sono aumentate. Ci sono nel mondo milioni di persone che ancor oggi conoscono gli orrori della privazione, della miseria e della morte prematura. Deaton non ne parla molto, ma andrebbero aggiunti, al quadro negativo e alla sua denuncia di troppe sperequazioni fra chi ha molto e chi ha poco o niente, altre pessime tendenze e altri orrori: i razzismi, i fondamentalismi religiosi, le guerre, le stragi, le decapitazioni, gli stupri, i fenomeni terroristici, le dittature, le minacce di usare le bombe atomiche e l’uso effettivo e continuo di strumenti militari come i bombardamenti dei civili e i droni che violano ampiamente gli accordi di Ginevra; e anche le violente crisi dei sistemi economici e finanziari che improvvisamente portano intere popolazioni sotto il livello di sussistenza.

Un osservatore acuto e pessimista come Daniele Giglioli, in un saggio recente, intitolato Stato di minorità (Laterza, 2015) traccia un quadro ancor più drammatico non tanto della situazione materiale (salute, benessere) quanto della situazione culturale e psicologica, addirittura dello stato mentale, delle nuove generazioni nell’epoca della società liquida. Rovesciando le analisi di Bauman, egli denuncia una nuova epidemia: l’individuo nelle nostre società ha perso la capacità di intervento (di agency), cioè la volontà e capacità dell’agire politico, la possibilità di cambiare la situazione.

Forse c’è bisogno di qualche altra convergenza.

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Remo Ceserani

(Soresina, 1933 – Viareggio 2016), allievo di Mario Fubini a Milano, si è perfezionato alla Yale University con René Wellek. Ha insegnato a Bologna, Milano, Pisa, Genova e in università statunitensi e australiane. Si è occupato di teoria della letteratura, di letterature comparate del Rinascimento e dell’età moderna e di storia della critica. Tra i suoi scritti ricordiamo Raccontare la letteratura, Bollati Boringhieri, Torino 1990, Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino 1997, Guida allo studio della letteratura, Laterza, Roma-Bari 1999, Il testo narrativo: istruzioni per la lettura e l’interpretazione, il Mulino, Bologna 2005, con Andrea Bernardelli, Il testo poetico, il Mulino, Bologna 2005, Convergenze: gli strumenti letterari e le altre discipline, Bruno Mondadori, Milano 2010, La letteratura nell’età globale, il Mulino, Bologna 2012, con Giuliana Benvenuti, Treni di carta, Bollati Boringhieri, Torino 2002, L’occhio della medusa: fotografia e letteratura, Bollati Boringhieri, Torino 2011. Ha fatto parte del comitato direttivo de «L’asino d’oro» e ha collaborato al «Giornale storico della letteratura italiana», a «Belfagor», a «L’Indice» e a «il manifesto».

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