Nella lotta che i diversi strumenti di comunicazione (libri, riviste cartacee, riviste elettroniche, panel, blog ecc.) hanno ingaggiato per conquistare fette del mercato dell’informazione accademica, e in particolare di quella scientifica, Darnton osserva malinconicamente che, dopo gli entusiasmi iniziali per le possibilità offerte dalla rivoluzione elettronica, c’è stato, negli Stati Uniti, un solo grande perdente: l’interesse pubblico. Egli fa notare che lo squilibro fra esigenze commerciali e democratizzazione dei saperi è divenuto sempre più grande, nonostante i numerosi episodi in controtendenza. Negli Stati Uniti il costo dei periodici scientifici, la gran parte dei quali è disponibile soltanto online, è cresciuto quattro volte il tasso dell’inflazione. Il mercato delle riviste scientifiche online è dominato da tre giganti: Reed Elsevier, Wiley-Blackwell e Springer, che pubblicano il 42 per cento di tutti gli articoli prodotti dalle università americane.
L’abbonamento annuo a una rivista online di chimica è passato da 33 dollari a più di 4.000. Il «Journal of Comparative Neurology» ha chiesto nel 2012 per una sottoscrizione annua 30.800 dollari. Si tratta di costi altissimi, che smentiscono quanto è stato detto, imprudentemente, al tempo dell’arrivo delle nuove tecnologie, che esse avrebbero incrementato l’uso democratico e pubblico della conoscenza.
L’aumento dei costi di abbonamento alle riviste (veicolo fondamentale di comunicazione per gli scienziati) ha finito per tagliare i fondi per l’acquisto di libri e monografie (veicolo principale di comunicazione per gli studiosi di scienze umane). In tutti gli Stati Uniti le università di ricerca, prese nella tagliola fra costi crescenti delle riviste e riduzioni statali e private degli stanziamenti per le biblioteche, stanno cancellando abbonamenti. Gli editori, per tutta risposta, aumentano il prezzo degli abbonamenti. Quando, nel 2010, il gruppo «Nature» comunicò all’Università della California che avrebbe aumentato del 400 per cento il prezzo dell’abbonamento alle sue 67 riviste, le biblioteche rifiutarono di accettare il diktat e i professori, forti del fatto di aver fornito in passato 5.300 articoli a quelle riviste, minacciarono un boicottaggio. Alla fine si arrivò a un compromesso. All’Università di Harvard, dove l’abbonamento alle riviste online costa al sistema bibliotecario quasi 10 milioni di dollari all’anno, il comitato di consulenza composto dai rappresentanti delle facoltà ha denunciato la situazione come ormai insostenibile.
La logica degli equilibri di bilancio, che condiziona i comportamenti delle biblioteche e la politica degli abbonamenti, è in conflitto con un’altra logica, il cui principio di base è così definito da Darnton: «il pubblico dovrebbe avere accesso alle conoscenze prodotte con denaro pubblico». Egli ricorda che nel 2008 il Congresso americano ha discusso una proposta secondo cui «gli articoli basati su ricerche finanziate dall’Istituto nazionale della sanità dovrebbero essere disponibili a tutti, gratuitamente, tramite un archivio appositamente costituito e di libera consultazione, chiamato PubMed Central». I lobbisti delle case editrici intervennero in difesa dei loro interessi e riuscirono a limitare gli effetti della proposta, introducendo un periodo di dodici mesi di uso riservato degli articoli, prima della loro accessibilità aperta, per consentire agli editori delle riviste di fare i loro guadagni. Non contenti, i lobbisti tornarono all’attacco e nel novembre 2011 fu presentata una proposta di legge, su iniziativa di Elsevier, che aboliva totalmente la proposta del 2008. Seguirono scontri e proteste e i lobbisti sono ora al lavoro per cercare di bloccare una proposta di legge molto più avanzata, il «Fair Access to Science and Technology Research Act» (FASTR), che consentirebbe il libero accesso a dati e risultati di ricerche finanziate da agenzie federali con un investimento pubblico superiore ai 100 milioni. La situazione è bloccata, ma nel frattempo c’è stata una direttiva della Casa Bianca, che dovrebbe avere effetto alla fine del 2014, la quale sostiene con convinzione questo principio: i risultati delle ricerche condotte con i soldi di chi paga le tasse devono essere resi disponibili, almeno in un primo tempo, a chi paga le tasse. Nessuno sa come finirà questo scontro.
Ci sono vie d’uscita? Darnton pensa di sì. La soluzione secondo lui starebbe nel creare riviste on-line di Open Access (libero accesso), senza passare attraverso gli editori. Il sistema in America si chiama flipping. Le riviste flipped fanno pagare i costi di produzione a università e istituzioni varie prima della pubblicazione e poi rendono i prodotti accessibili a chiunque. L’autore americano, abituato ad avere il sostegno di editori che pubblicano gli articoli attraverso un severo processo di peer-review e dopo un editing molto attento, potrebbe essere indotto a chiedersi: «perché mai dobbiamo noi o chi per noi pagare per essere pubblicati?». Darnton ricorda a chi avanza questa obiezione che è interesse di ogni autore avere il maggior numero possibile di lettori e che è un circolo vizioso quello che prevede, da parte degli studiosi (e delle loro università) che essi forniscano gratis il loro lavoro agli editori delle riviste e che poi comprino, se non personalmente, attraverso la comunità scientifica a cui appartengono, i risultati del loro stesso lavoro.
A sostegno di questa soluzione Darnton porta l’esempio di alcune interessanti iniziative. Egli ricorda, per esempio, che a Harvard è stato lanciato un programma chiamato HOPE (Harvard Open-Access Publishing Equity) che finanzia i processi di preparazione e pubblicazione di articoli scientifici, senza passare attraverso le forche caudine dei grandi editori e che un programma simile chiamato COPE (Compact for Open-Access Publishing Equity) collega fra loro ventuno università. L’ostacolo maggiore al successo di questi programmi è legato a problemi di prestigio. Gli scienziati preferiscono pubblicare le loro ricerche su riviste come «Nature» perché pensano che il poter citare articoli usciti su simili riviste accresca la loro fama e aiuti la loro carriera. Darnton non ne parla esplicitamente, ma bisogna aggiungere che, soprattutto per le riviste scientifiche, c’è da tener conto degli effetti, sulle carriere dei professori, che ha la classifica che delle riviste e del loro impact factor ha l’ISI («Institute for Scientific Information»). Il carattere monopolistico dell’ISIS ha conseguenze anche sulle politiche degli acquisti delle biblioteche, perché nessuna biblioteca importante può permettersi di non abbonarsi alle riviste che hanno, nella classifica ISI, un impact factor molto rilevante.
Ci sono tuttavia, secondo Darnton, segnali interessanti. Harold Varmus, premio Nobel per la medicina, ha ottenuto grande successo lanciando la «Public Library of Science», che pubblica riviste e altri materiali di libera consultazione. Un’iniziativa simile l’ha presa il premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, fondando la rete «Atmospheric Chemistry and Physics». Nel frattempo parecchie università americane hanno chiesto ai loro docenti di depositare gli articoli scritti per le riviste scientifiche in archivi speciali aperti alla consultazione generale (un esempio è a Harvard l’archivio DASH: «Digital Access to Scholarship at Harvard», Si tratta di un’iniziativa per ora non molto diffusa, che però tende a intaccare alla radice il potere delle grandi case editrici di riviste on-line. DASH al momento raccoglie 17.000 articoli e ha registrato tre milioni di downloads da studiosi di tutti i continenti.
E in Europa? E in Italia? Va tenuto conto, per capire le differenze tra situazione americana e situazione europea, delle caratteristiche specifiche dei due sistemi istituzionali e culturali: prevalentemente statali le università e le biblioteche europee, prevalentemente private le università americane; più forte cultura della solidarietà e dell’uguaglianza sociale in Europa rispetto agli Stati Uniti. A confronto con i pochi, almeno per ora, casi interessanti di apertura e di distribuzione democratica dei saperi segnalati da Darnton, in Europa ci sono stati movimenti molto più decisi e diffusi, anche a livello istituzionale e politico, per l’utilizzazione delle tecnologie Open Access nelle riviste scientifiche. Risale al 2001 un’importante dichiarazione internazionale europea, nota come il «Budapest Open Access Initiative» e considerata come mossa di fondazione del sistema europeo. È seguita, nel 2003, la «Dichiarazione di Berlino per l’accesso aperto alla letteratura di ricerca», a cui hanno aderito nel 2004, in occasione di un convegno a Messina, gli «Atenei italiani per l’Open Access».
I problemi, naturalmente, non sono tutti risolti. Continuano a essere presenti, e anche influenti, in tutta Europa, molte riviste di tipo tradizionale, che contribuiscono, come le consorelle americane, a creare squilibri, a praticare prezzi elevati, a farsi forti della presenza, ormai diffusa anche in Europa, di sistemi di valutazione e classificazione di libri, riviste, dipartimenti, università, singoli studiosi sulla base dell’impact factor (in Italia la valutazione è affidata all’ANVUR: «Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca»). Tra le riviste Open Access, che nel frattempo sono state lanciate, sono decisamente più numerose quelle che operano nell’ambito delle discipline umanistiche, per la semplice ragione che la gran parte degli scienziati italiani frequentano regolarmente la comunità internazionale e pubblicano sulle riviste tipo «Nature» e simili.
Da noi la maggiore potenza di pubblicazione di riviste accademiche, cartacee e online, è Libraweb, che ha assorbito vari marchi editoriali, fra cui Accademia editoriale (Pisa), Giardini (Pisa) e Edizioni dell’Ateneo (Roma). Ci sono altri editori (il Mulino, Olschki, Dedalo, ecc.), ma il gruppo più forte fa capo a Libraweb. Va detto che moltissimi dei saggi e articoli che compaiono sulle riviste cartacee e on-line di Libraweb sono il risultato di studi e ricerche condotti con il sostegno finanziario dei fondi di ricerca delle singole università, del ministero della ricerca e di altre istituzioni (fondi regionali, enti locali, ecc.). Se si applicasse la logica delle leggi in discussione presso il Congresso americano, andrebbe naturalmente rivisto tutto l’impianto finanziario che tiene in piedi l’attività anche degli editori italiani. Al momento essi si reggono soprattutto tramite gli abbonamenti, che sono salatissimi, specialmente quelli stipulati dalle biblioteche straniere, in particolare americane. Per esempio la riviste annuale «Storiografia», pubblicata da Libraweb, richiede per un abbonamento privato 225 euro in Italia, 345 all’estero; la rivista di paleografia «Scriptor», anch’essa annuale e di Libraweb, ne richiede 145 ai privati in Italia, 225 ai privati all’estero, 495 a istituzioni in Italia o all’estero; il quadrimestrale «Italianistica» chiede ai privati in Italia 345 euro, all’estero 645, alle biblioteche parecchio di più; il semestrale «Theoretical Biology Forum», pubblicato solo on-line dallo stesso editore, viene a costare 75 euro al fascicolo. È evidente che i tagli minacciati e quelli in corso nei budgets di quelle biblioteche sono un pericolo reale per la sopravvivenza anche delle imprese editoriali italiane. È altrettanto evidente che se le grandi biblioteche universitarie americane fossero davvero costrette a tagliare gli abbonamenti le prime a farne le spese sarebbero riviste culturalmente periferiche come quelle italiane.
La situazione dei rapporti fra pubblico e privato continua a essere, anche in Italia, abbastanza confusa. Quasi sempre su libri e riviste pubblicati a condizioni di mercato dagli editori compare la scritta: «pubblicato con il contributo di…»: può essere un dipartimento, un ente di ricerca, un ente locale. Molte di queste pubblicazioni si reggono a monte, per la produzione, con il sostegno di risorse statali (finanziamenti, lavoro delle redazioni con personale delle università) e a valle, per la diffusione, di risorse delle biblioteche italiane, e anche di molte biblioteche straniere (gli abbonamenti privati immagino che siano pochissimi). Va anche osservato che, a differenza di quanto avviene, per esempio, per le riviste pubblicate dai gruppi «Nature» o «Elsevier», gli editori italiani non forniscono quasi mai un vero servizio centralizzato di peer review, editing e counseling, ma affidano tutto il lavoro di controllo e preparazione dei manoscritti alla buona volontà dei direttori e delle redazioni delle riviste sparsi nei dipartimenti delle università italiane (con l’inevitabile conseguenza di minore autorevolezza degli articoli e spesso di una minore chiarezza e scorrevolezza dei linguaggi).
La minaccia maggiore alla sopravvivenza commerciale degli editori di riviste tipo Libraweb viene dalla straordinaria fioritura, avvenuta a seguito delle «Dichiarazioni» di Budapest, Berlino e Messina, di riviste Open Access prodotte da università italiane e libere associazioni, quasi tutte consultabili gratuitamente da qualsiasi lettore di tutto il mondo. Molte università italiane hanno scelto di utilizzare per le loro riviste (in qualche caso, come per la «RomaTre Press», anche i loro libri) l’applicativo «Cineca Scholarly Publishing» (SP) e il software «Open Source OJS», che gestisce tutto il processo di produzione ed editing, compreso la peer review. Lo stesso stanno cominciando a fare anche istituzioni pubbliche e private: per esempio l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha usato la piattaforma Cineca per lanciare la «Italian Antitrust Review».
Al momento risultano attive, secondo il DOAJ («Directory of Open Access Journal», pubblicato dall’Università di Lund in Svezia) 292 riviste italiane (cui andrebbero aggiunte «Transpostcross», pubblicata a Bologna e «Oblio», pubblicata da Vecchiarelli). Quasi tutte sono posteriori alla data del 2002 e sono particolarmente numerose dal 2009 in avanti. Sono in minoranza le riviste scientifiche, con l’eccezione di non poche riviste mediche e farmaceutiche, fra cui alcune, pochissime, che pretendono un abbonamento a pagamento. Per il resto ci sono riviste di filosofia («Comunicazione filosofica», della Società filosofica italiana; «Esercizi filosofici», Università di Trieste; «Nóema», Università di Milano), biblioteconomia, diritto, psicoanalisi, arte («Intrecci d’arte», Università di Bologna; «Palinsesti», Università di Udine), archeologia, economia, geografia, estetica («Aesthesis», Università di Firenze), sociologia, architettura, musicologia, studi culturali («Il capitale culturale», Università di Macerata; «MediAzioni», Università di Bologna); storia antica, storia medievale («Reti medievali», Università di Firenze), storia moderna, storia contemporanea, storia d’Europa («Cromhos», Università di Firenze), storia delle donne («Storia delle donne», Università di Firenze), linguistica («Le Simplegadi», Università di Udine, «Linguistica e filologia», Università di Bergamo), matematica, danza, pedagogia, scienze della comunicazione, scienze politiche, studi germanici, austriaci, italianistici («La Libellula»), anglistici, francesistici, slavistici, iberici, ibero-americani e di ampie aree linguistiche («LEA- lingue e letterature d’Oriente e d’Occidente», Università di Firenze), studi di filologia romanza («Carte romanze», Università di Milano), studi dell’immaginario («Elephant and Castle», Università di Bergamo); studi di teoria letteraria e letterature comparate («Between», Università di Cagliari; «Torre di Babele», Università di Parma; «Enthymema», Università di Milano; «Altre modernità», Università di Milano), ecc. ecc.
Il panorama, come si vede, è molto vario e sembra indicare che è in corso un ampio cambiamento di sistema, un vero «accesso aperto» a forme nuove e più democratiche di diffusione della cultura accademica.
[N.d.R. citiamo le due riviste scientifiche di Loescher editore: il «Giornale storico della letteratura italiana», fondato nel 1883 da Arturo Graf, Francesco Novati e Rodolfo Renier (è la più antica rivista di Italianistica esistente), e la «Rivista di filologia e istruzione classica», fondata nel 1872]