Certo i ricercatori che lavorano nel campo delle scienze fisiche-naturali privilegiano i libri recenti, possibilmente i preprints, per conoscere quel che viene prodotto nei laboratori e informarsi sul lavoro dei loro colleghi di altri laboratori, mentre quelli che lavorano nel campo delle scienze umane rivolgono la loro attenzione, oltre che ai libri recenti, ai grandi depositi del sapere del passato. Tutti, comunque, sono interessati a conoscere e utilizzare le nuove possibilità di comunicazione e trasmissione delle conoscenze offerte dalla rivoluzione digitale. Parlerò in un secondo intervento di quanto succede nel mondo delle riviste.
Per ora invece mi soffermo sui cambiamenti nel mondo delle biblioteche. Mi baso su due articoli molto importanti pubblicati dallo studioso americano dell’illuminismo e della storia del libro, della scrittura e della lettura Robert Darnton, che è stato professore a Princeton, ha acquisito fama mondiale con i suoi libri, alcuni tradotti anche in italiano (come Il grande massacro dei gatti e altri episodi della storia culturale francese, Adelphi 1988, a cura di R. Pasta), e poi è divenuto direttore della Biblioteca universitaria di Harvard, promotore del Gutenberg-e program, pioniere e promotore dei programmi di digitalizzazione del patrimonio librario americano.
In vari articoli pubblicati sulla «New York Review of Books», Darnton ha dato informazioni e delineato prospettive che sono preziose per tutti noi, sia che lavoriamo in settori scientifici o in settori umanistici nelle Università, sia che operiamo nel sistema scolastico pre-universitario.
Ricordo in particolare l’articolo che ha annunciato nell’aprile 2013 il lancio della «National Digital Public Library of America» (DPLA) e quello recente che dava conto dei problemi incontrati e dello stato di avanzamento, molto soddisfacente, dei lavori, pubblicato il 4 giugno 2014 e intitolato «A World Digital Library is Coming True (Una biblioteca digitale del mondo si sta avverando).
Darnton, fedele alla sua formazione di storico della cultura illuminista, sottolinea che due caratteristiche della società americana, nata dalla rivoluzione di fine Settecento, e cioè la vocazione utopica e la filosofia pragmatista, possano spiegare perché questa nuova rivoluzione, nel campo della trasmissione culturale, abbia trovato terreno fertile fra i suoi concittadini e in particolare gli addetti alle migliaia di grandi e piccole biblioteche che fioriscono nel paese. L’altra caratteristica specifica della società americana e cioè il culto dell’imprenditorialità liberale e del capitalismo monopolista (strenuamente frenato dalle leggi anti-trust) spiegano, a mio parere, lo scontro che c’è stato negli ultimi anni tra le forze in gioco in questo settore. Negli anni attorno al 2010 (proprio quando è partito il progetto della DPLA, per iniziativa di alcuni direttori di grandi biblioteche pubbliche e universitarie, fra cui la Widener, la Haughton e le altre biblioteche di Harvard sotto la direzione di Darnton), Google ha lanciato il più ambizioso progetto privato per la raccolta e commercializzazione dell’informazione bibliografica: Google Book Search. La DPLA fin dall’inizio si presentava come alternativa al grande progetto Google e guardava come modelli al progetto francese di digitalizzazione di tutto il patrimonio librario della nazione avviato dalla Bibliothèque nationale di Parigi, che è molto avanzato, e a quello avviato dalla Comunità europea a Bruxelles [Europeana, di cui abbiamo parlato su La ricerca, n.d.r.] che già raccoglie molto materiale non solo dalle biblioteche di tutta Europa, ma anche da archivi, musei, mostre d’arte, esposizioni tematiche organizzate qua e là.
Google aveva creato un enorme archivio di testi digitalizzati forniti dalle biblioteche di tutto il mondo. All’inizio lo aveva presentato come un servizio di ricerca, che forniva solo piccoli frammenti dal testo dei libri; ma siccome molti libri erano coperti dal diritto d’autore Google venne sfidata in tribunale da un gruppo di autori ed editori e dopo lunghe trattative la casa di Cupertino e gli sfidanti firmarono un accordo, che trasformò il servizio di ricerca in una gigantesca biblioteca commerciale finanziata attraverso abbonamenti. Siccome però quell’accordo doveva essere approvato da un tribunale, il 22 marzo 2011 una corte distrettuale federale di New York lo respinse con la motivazione, fra le altre, che minacciava di costituire un monopolio limitativo della concorrenza. Quella decisione mise fine al grande progetto di Google (che ora funzione con molte limitazioni) e aperse la strada al lancio del DPLA, che si è presentato come progetto di digitalizzazione dell’intero patrimonio libraio d’America, fratello quindi di quello europeo, con esclusione tassativa dei testi coperti da diritto d’autore (tutto il pubblicato dopo il 1965, molte opere pubblicate dopo il 1923 e alcune che risalgono addirittura agli anni fra il 1873 e il 1923).
Oltre a essere una organizzazione not-for-profit, la DPLA differisce dal progetto Google in un aspetto cruciale: non è un’organizzazione verticale che si avvale di un proprio enorme database, ma un sistema orizzontale che collega tutte le biblioteche e gli archivi che partecipano al progetto grazie a un’infrastruttura tecnologica che rende immediatamente accessibile all’utente il materiale digitalizzato con la semplice pressione di un tasto. È quindi fondamentalmente orizzontale, sia nella forma organizzativa sia nello spirito, proprio come il progetto Europeana. Come spiega Darnton: «Invece di operare dall’alto verso il basso, il DPLA si avvale di ‘centri di servizio’, piccoli nuclei amministrativi, che promuovono localmente la raccolta dei dati e li raccolgono insieme al livello dei singoli Stati».
Il nucleo iniziale e di base della nuova biblioteca digitale d’America è fornito da «centri» che posseggono almeno 250.000 dati informatici (libri, manoscritti, articoli, documenti, immagini, ecc.), come per esempio la Public Library di New York, lo Smithsonian Institute di Washington, la grande raccolta digitale della fondazione HathyTrust che offre una notevole quantità di materiale.
L’aspetto più innovativo, secondo Darnton, è offerto proprio dalla riproduzione digitale di manoscritti; per esempio quelli delle poesie di Emily Dickinson, non pubblicate in vita, ricavati dall’archivio di recente costituito a Harvard. Studiosi e studenti possono così vedere da vicino le pagine della Dickinson, con le sue correzioni, i suoi ripensamenti. O possono vedere i codici di Leonardo e innumerevoli altri documenti.
Se il progetto Gallica era partito con una sua forte impronta franco-centrica (poi corretto dall’intenso rapporto collaborativo della Bibliothèque nationale con Europeana), il DPLA, a sua volta collegato con Europeana, ha un’impronta al tempo stesso più federale e più internazionale. La sua raccolta al momento contiene opere in più di 400 lingue e più del 30% per cento di coloro che la visitano e utilizzano sono studiosi che si collegano da paesi stranieri. Fra una decina di anni, profetizza Darnton: «questo primo anno dell’attività del DPLA apparirà come l’inizio di un sistema bibliotecario internazionale». Conclude lo studioso americano: «Sarebbe ingenuo immaginare un futuro libero dai gruppi di interesse che hanno bloccato i flussi d’informazione nel passato. Le lobby che agiscono a Washington sono attive anche a Bruxelles e il parlamento europeo appena eletto dovrà presto occuparsi delle stesse questioni che restano ancora da risolvere davanti al Congresso americano. La commercializzazione e la democratizzazione operano su scala mondiale e numerosi varchi d’accesso dovranno essere aperti prima che il World Wide Web possa accogliere nel suo seno una biblioteca mondiale».