Qualcuno probabilmente ricorderà che Remo Ceserani, insieme a Lidia De Federicis, ha firmato anni fa un «laboratorio per lo studio della letteratura italiana» tanto fortunato quanto “clamoroso”. Il materiale e l’immaginario, edito da Loescher, si impose infatti all’attenzione del mondo scolastico e accademico perché scardinava, tra gli altri, uno dei pilastri portanti (e fondanti) di tutta la didattica disciplinare nazionale, da Croce in poi: l’idea che il letterato si dovesse occupare prevalentemente (se non esclusivamente) di letteratura, perché quello era il suo specifico e naturale (ma dovrei forse dire spirituale) campo di azione e interesse. Idea sbagliata – secondo gli autori – e povera, perché negava dignità di studio e di ricerca a tutte le occasioni di convergenza e contaminazione, senza le quali spesso poco si può capire della letteratura stessa («da che materiale scaturisce quell’immaginario che chiamiamo poesia?» ci si chiedeva in Casa editrice allora). Per questo, quando ha accettato di scrivere per «La ricerca», dicendo che gli sarebbe piaciuto occuparsi delle convergenze, appunto, «fra la letteratura e le altre discipline (matematica, fisica, biologia, neuro-scienze, medicina, giurisprudenza, ecc.), viste di volta in volta non dal punto di vista della situazione universitaria e culturale in senso ampio, ma da quello concreto delle discipline insegnate a scuola» abbiamo capito che ci stava proponendo di riprendere un discorso interrotto, non troncato, tanti anni fa. «È il nostro Autore che torna!», ci siamo detti in Redazione, con un po’ di retorica e un malcelato senso di orgogliosa appartenenza. |
Carlo Alberto Parmeggiani è un immaginoso (da Edmondo Berselli definito «sulfureo») scrittore di romanzi e saggi, gran giramondo, praticante dei più diversi mestieri, dal bookmaker al professore di matematica in Svizzera, allievo a suo tempo di Luciano Anceschi, molto emiliano nei gusti e nella capacità estrosa, bizzarra, lucida della scrittura (siamo nella terra di Ariosto, Cavazzoni, Celati e, appunto, Berselli).
In un libretto arguto e di piacevole lettura, intitolato Le parole e i numeri (Mimesis, 2013), Parmeggiani ha cercato di scoprire se ci sono buone ragioni per stabilire convergenze (di interessi, di atteggiamenti mentali, di bizzarrie caratteriali) tra matematici e letterati, tra forme di sapere e conoscenza a prima vista molto distanti fra loro. Naturalmente le divergenze sono nette e ben chiare a tutti noi. Come spiega Parmeggiani all’inizio del suo libro «lo scrittore lavora una materia composta di fatti, di esperienza, di emozioni, sentimenti e di parole che diventano i mattoni in bella vista di periodi e di singole frasi che innalzano un’umile soffitta o una cattedrale a una propria visione delle cose, mentre il matematico lavora una materia folle e schizoide di figure, di grandezze, di classi, di astrazioni, più che non di numeri, misure, identità e di equazioni, benché di questi non ne possa fare a meno nella formulazione di un linguaggio universale in cui numeri e algoritmi la fanno da padrone in luogo delle solite parole, di periodi o di singole frasi». E però, e però. Quante sono davvero le differenze, o le somiglianze, fra chi conta e chi racconta, chi immagina algoritmi e chi scrive romanzi o poemi in versi?
Parmeggiani non è il primo che si pone questo problema, basta ricordare gli studi severi di Carlo Ferdinando Russo e le brillanti divulgazioni di Piergiorgio Odifreddi, ma egli questa volta lo affronta con un’ampiezza di riferimenti e una verve di scrittura davvero invidiabili. Parmeggiani può citare con disinvoltura le pagine di Ariosto, Kleist, Dumas, Carrol, Proust, Svevo, Kafka, Borges, Lem, Pizzuto, Calvino o Kawabata (magari lasciando sullo sfondo il fin troppo ovvio riferimento alla bottega matematica dell’Oulipo di Queneau e Perec) e confrontarle con le formule e teorie di Eulero, Mahavira, Desargues, Spinoza, Leibniz, Bolyai, Dedekind, Cesaro, Kronecker, Kovalevskaya, Cantor, Thom e moltissimi altri. Può soffermarsi sui problemi posti dall’infinito, dall’irrazionale, dallo zero, dal vuoto (il vuoto matematico e il senso del vuoto esistenziale del letterato), o sull’invenzione fantastica e fantascientifica dei mondi paralleli (come nell’inquietante romanzo Tempo fuor di sesta di Philip Dick), o sulla logica imperterrita e drammatica di
Carlo Michelstaedter, o sui complicati, torrentizi deliri di David Foster Wallace, portato, lui come altri postmoderni, a pensare con angoscia il mondo in cui viviamo «come un grande punto morto, ovvero un punto di accumulazione di abbrutimenti» (altro che euforie nevrotiche!). Può soffermarsi pietosamente sul tragico destino parallelo del matematico Évariste Galois e del grande poeta e narratore russo Alexander Puškin. Può, con facilità, scrivere pagine «sulfuree» su una sfilza infinta di matematici e letterati più o meno grandi.
Il libro di Parmeggiani, oltre a offrire a tutti noi una lettura molto piacevole, serve a smentire pregiudizi troppo diffusi nelle nostre scuole e fra i nostri ragazzi, per cui alcuni sarebbero portati alla scienza dura della matematica e altri, in netta controtendenza, al libero esercizio della parola e dell’immaginazione. Pare proprio che non sia così.