Breve storia dell’Ucraina #3

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In quest’ultimo capitolo della storia ucraina vedremo i principali eventi che hanno interessato il paese nel secolo scorso, arrivando fino ai giorni nostri. Se è vero che per capire l’oggi dobbiamo guardare agli accadimenti del passato, possiamo forse cercare nel Novecento una chiave di lettura del terribile conflitto che si sta consumando sotto i nostri occhi.
La colossale statua della Madre Patria a Kyiv.

Il Novecento: secolo di guerre

A seguito della Rivoluzione d’ottobre, l’Ucraina è sconquassata per alcuni anni da aspri scontri interni e da una grande instabilità politica. In questo periodo il paese viene suddiviso in diverse entità statali: nei territori dell’ex impero austroungarico ma di lingua ucraina nasce la Repubblica Nazionale dell’Ucraina Occidentale, mentre ciò che resta dell’ex impero zarista ospita sia la Repubblica popolare ucraina (con capitale a Kyiv) sia la Repubblica socialista sovietica ucraina (con Charkiv capitale).

Le lunghe e sanguinose lotte fra le varie fazioni, con ucraini, polacchi e bolscevichi russi che si contendono il potere, hanno fine nel 1921 con la pace di Riga che assegna le regioni occidentali di Galizia e Volinia alla Polonia e il resto del paese all’URSS. E così nel 1922 viene istituita la Repubblica Socialista Sovietica Ucraina con capitale Charkiv, che proprio oggi è teatro di una furiosa battaglia.

Negli anni Trenta, la popolazione ucraina subisce gli effetti nefasti delle carestie e delle politiche attuate da Stalin: fra il 1932 e il 1933 l’intero paese soffre terribilmente per quello che viene chiamato Holodomor. Nelle città, il pane e altri prodotti alimentari vengono distribuiti ai lavoratori in razioni decise giorno per giorno, ma le quantità sono molto limitate e la gente sta in coda anche tutta la notte per averle. Si tratta di un periodo storico di grande sofferenza e ancora oggi fonte di tensioni fra Russia e Ucraina, per le controversie legate soprattutto al numero dei morti per fame (alcune fonti ne contano diversi milioni) e a quanto le carestie fossero pianificate da Stalin e dalle autorità sovietiche.

Nel 1934 la capitale della Repubblica viene spostata a Kyiv, e l’aspetto della città subisce grandi cambiamenti architettonici. Per far posto alle mastodontiche costruzioni razionaliste vengono demoliti alcuni edifici antichissimi, come il convento medievale di San Giovanni dalle cupole dorate, che sarà ricostruito solo nel 1999.

Negli stessi anni la popolazione subisce repressioni e purghe per soffocare ogni tipo di dissenso e in generale di libertà politica o religiosa. Questa caccia alle streghe si accanisce contro ipotetici “nazionalisti ucraini”, “spie dell’occidente” e oppositori di Stalin all’interno del partito: in pratica migliaia di intellettuali e attivisti vengono arrestati, spesso di notte, condannati a morte con processi sommari, giustiziati e sepolti in fosse comuni. Chi è più “fortunato” viene spedito nei gulag: le persone internate in questi campi si conteranno a decine di migliaia.

Arriviamo così alla Seconda guerra mondiale, che nella storiografia russo/sovietica è chiamata Grande guerra patriottica, il cui inizio per l’Ucraina coincide con l’invasione di Kyiv da parte delle truppe naziste. È il settembre del 1941 e la tremenda battaglia che infuria in città e nei dintorni per circa un mese è un disastro per l’esercito sovietico, ma almeno serve a rallentare l’avanzata tedesca. Questo ritardo permette di evacuare gran parte delle industrie spostandole verso altre parti dell’URSS, più a est, lontane dalle ostilità. Prima dell’evacuazione, però, l’Armata Rossa piazza in tutta la capitale migliaia di mine controllate da detonatori azionabili a distanza. Il 24 settembre, quando gli invasori nazisti si stabiliscono in città, le mine vengono fatte esplodere causando il crollo di gran parte degli edifici principali e innescando un incendio che si protrae per cinque giorni.

Un altro tragico episodio avviene a Babyn Jar, una gola naturale vicino a Kyiv, in cui i nazisti compiono uno dei più terribili massacri in Ucraina. Tra il 29 e il 30 settembre 1941, secondo gli stessi dettagliati rapporti stilati dalle SS, 33.771 ebrei kievani vengono portati qui e uccisi. Nei due anni successivi questo stesso luogo diventa la tomba di altri prigionieri di guerra, partigiani e rom, per una cifra totale che potrebbe superare le 60.000 vittime.

Più o meno nello stesso periodo, a fine ottobre del 1941, anche a Odessa gran parte della sua nutrita comunità ebraica viene massacrata, come rappresaglia per un attentato contro le truppe di occupazione. In pochi giorni circa 30.000 persone perdono la vita per mano degli occupanti, e ben presto si arriverà allo sterminio degli oltre 100.000 ebrei residenti nell’intera Ucraina meridionale.

Durante l’occupazione tedesca però, a Kyiv e non solo, si organizza rapidamente un movimento di resistenza che svolge le sue attività clandestine fino alla liberazione del paese, nonostante i pesanti bombardamenti che colpiscono le principali città. C’è però anche un’altra realtà: migliaia di ucraini si arruolano nell’esercito nazista in funzione antibolscevica e antirussa, per un mai sopito desiderio di indipendenza in chiave nazionalista.

La guerra in Ucraina finisce nell’inverno 1943-’44, quando il paese viene liberato dalla vittoriosa Armata Rossa. Come gran parte dell’Europa, Kyiv esce dalla guerra quasi completamente distrutta, ma si riprende molto velocemente diventando nel giro di pochi anni la terza città dell’Unione Sovietica e capitale della seconda repubblica più popolosa.

Un monumento che commemora il massacro di Babyn Jar.

 

Durante il conflitto mondiale anche la Crimea, che era una repubblica socialista sovietica autonoma, viene occupata dalle truppe naziste, e per questo nel dopoguerra Stalin ordina di deportare in massa la popolazione tatara con l’accusa di aver collaborato con i tedeschi. Molti tatari di Crimea moriranno in esilio in Uzbekistan e solo poche migliaia di sopravvissuti faranno ritorno a casa negli anni Novanta.

Dopo la conferenza di pace tenutasi a Jalta (nel sud della Crimea), un altro cambio di bandiera avviene nel 1954 quando Nikita Chruščëv, successore di Stalin alla guida dell’URSS, cede la penisola all’Ucraina per festeggiare il trecentesimo anniversario del trattato di Perejaslav.

Il secondo dopoguerra è un periodo di ricostruzione e rapida crescita socio-economica per tutta l’Ucraina: la richiesta di forza lavoro richiama nelle città una grande quantità di immigrati dalle zone rurali e anche della Russia. Vengono così costruiti ampi sobborghi nelle periferie e un’estesa rete di trasporti per accogliere la popolazione in continua crescita.

Purtroppo negli anni Settanta una nuova stagione di russificazione si abbatte sul paese, con l’oppressione sistematica di molti intellettuali che vengono definiti “nazionalisti borghesi” e per questo costituirebbero una minaccia per lo stile di vita sovietico. Anche in ambito accademico le scuole e le università sono sempre più incoraggiate a usare la lingua russa, così numerosi scienziati e artisti preferiscono lasciare l’Ucraina e spostarsi a Mosca, dove ci sono più possibilità di carriera.

Facciamo ora un balzo in avanti, e arriviamo al 26 aprile 1986, quando presso la centrale nucleare V.I. Lenin, situata vicino alla città di Pryp’jať, avviene uno dei peggiori incidenti della storia dell’energia atomica: è il disastro di Černobyl’. Nonostante Kyiv disti circa 110 chilometri, la vita nella capitale ucraina viene fortemente influenzata da questo evento, sia dal punto di vista ambientale sia da quello socio-politico. Infatti, alcune aree vicino alla città vengono contaminate dalle polveri radioattive fuoriuscite dal reattore esploso, ma la popolazione non viene informata dei reali pericoli che corre. Inoltre, pochi giorni dopo l’incidente, i capi del partito comunista locale ordinano ai cittadini della capitale di prendere parte alla parata del primo maggio che si svolge nelle vie del centro, ufficialmente per evitare che si diffonda il panico. In seguito, migliaia di persone che devono lasciare le zone più vicine alla centrale nucleare vengono sfollate e distribuite in tutto il paese.

Secondo alcuni storici, questo tremendo incidente (causato da un fatale mix di errori umani) e la pessima gestione delle sue conseguenze avrebbero accelerato lo sgretolamento dell’Unione Sovietica.

Il “sarcofago” che custodisce il reattore 4 della centrale nucleare di Černobyl’ (©Sara Urbani, 2018).

Con il crollo dell’URSS, nel 1990 in Ucraina si tengono le prime elezioni parlamentari e successivamente viene dichiarata l’indipendenza: è il 24 agosto 1991. Seguono poi le elezioni presidenziali e un referendum, che conferma la scelta indipendente: ancora oggi il 24 agosto si celebra la festa nazionale.

Nel giro di pochi anni viene approvata la nuova Costituzione, e l’Ucraina firma un trattato di amicizia con la Russia e uno di partenariato con la NATO, collocandosi così a metà strada fra le sfere d’influenza dell’occidente e di ciò che resta dell’ex blocco sovietico. Tutto questo processo di transizione sembra avvenire in modo piuttosto tranquillo, ma la strada non è priva di ostacoli…

Nel novembre 2004, infatti, Kyiv diviene teatro di enormi proteste, che portano nelle strade una marea di persone a seguito delle elezioni presidenziali: è la cosiddetta “rivoluzione arancione”, per il colore dominante fra i vestiti dei manifestanti. I sostenitori del candidato dell’opposizione Viktor Juščenko manifestano contro Viktor Janukovyč, delfino del presidente uscente, che avrebbe vinto in modo fraudolento. Dopo l’annullamento delle elezioni da parte della corte suprema, a dicembre si va di nuovo alle urne, e il gennaio successivo Juščenko si insedia come presidente.

Un’altra ondata di manifestazioni riempie la piazza principale della capitale a novembre 2013: è la volta delle proteste che prendono il nome di “Euromaidan”, innescate dalla decisione del governo di sospendere un accordo di libero scambio tra Ucraina e Unione Europea. In quest’occasione si verificano degli scontri molto violenti tra forze dell’ordine e manifestanti, che causano circa un centinaio di morti. La protesta si allarga e porta in piazza centinaia di migliaia di persone per circa tre mesi, concludendosi con la fuga e l’incriminazione del presidente Janukovyč (che nel frattempo era tornato al potere), la scarcerazione dell’ex prima ministra Julija Tymošenko e nuove elezioni.

Nel frattempo i venti di crisi con la Russia di Vladimir Putin soffiano sempre più forti, fino al climax del 2014 con l’annessione della Crimea e con il conflitto nel Donbas. Ma per qualche anno permane tra i due paesi una sorta di equilibrio, anche se la situazione sembra sempre sul punto di degenerare. E queste tensioni politiche hanno una conseguenza anche religiosa: nel dicembre 2018, infatti, nasce ufficialmente la Chiesa ucraina autocefala (cioè indipendente), in aperto contrasto con il patriarcato di Mosca.

Un grosso colpo di scena nella politica ucraina viene poi dalle elezioni del 2019, quando l’ex attore comico Volodymyr Zelensky stravince sbaragliando alcune figure politiche di lungo corso, come Tymošenko e il presidente uscente Petro Porošenko.

Siamo ormai arrivati ai giorni nostri, e la storia cede il passo alla cronaca, che purtroppo ci restituisce immagini atroci di un paese ferito che cerca di resistere di fronte all’aggressione di una potenza ben più forte. Non sappiamo come evolverà la situazione, ma possiamo solo augurarci che i timidi negoziati da poco avviati portino almeno a un cessate il fuoco, primo passo per costruire un cammino verso la pace.

(fine)

Leggi qui la prima parte e qui la seconda.

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Sara Urbani

Laureata in scienze naturali con un master in comunicazione della scienza, lavora per la casa editrice Zanichelli. Scrive anche per Odòs – libreria editrice e per i magazine online La Falla e Meridiano 13.

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