Benessere e malessere
 nelle aule di Roma antica

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Se nel numero precedente della rivista, “Professione prof”, raccontavamo il mondo della scuola visto dal punto di vista degli insegnanti, e approfondivamo in particolare le insoddisfazioni (molte) e le gratificazioni (poche) dei docenti di Roma imperiale1, qui ci chiediamo come se la passavano i loro studenti. Un’anticipazione: non bene.
Un magister romano con tre allievi. Bassorilievo rinvenuto a Neumagen- Dhron, presso Treviri (foto Wikicommons).

Il verbo latino valeo sintetizza l’idea di forza fisica e buona salute con quella di benessere spirituale e intellettuale: il suo imperativo vale – consueta formula di saluto – è dunque traducibile con «stammi bene», in tutti i sensi. Mi ha sempre colpito il suo uso da parte del poeta di età flavia Marziale (40-104 d.C.) in questo epigramma (10, 62) relativo alla vita scolastica:

Maestro di scuola, abbi pietà dei tuoi alunni ignoranti: / lascia che ti ascolti una folta schiera di giovani capelloni, / che la bella classe goda delle tue cattedratiche lezioni, / così che né il maestro di calcolo né quello di stenografia / siano attorniati da un circolo più numeroso. / Le albe pallide sono scaldate dalle fiamme del Leone, / il torrido luglio cuoce le messi bruciate. / Basta con le odiate fruste attorcigliate al cuoio scita, / che hanno frustato il satiro frigio Marsia, / basta con le tristi verghe, gli scettri dei pedagoghi: / lasciale dormire fino alla metà di ottobre: d’estate, / per i ragazzi, è una lezione sufficiente aver buona salute2.

Il verbo in questione compare proprio all’ultimo verso, che in latino è aestate pueri si valent, satis discunt (letteralmente: «d’estate, i bambini se stanno bene imparano abbastanza»). Marziale, dunque, sembra opporre il valēre, cioè il «benessere», al tempo della frequenza della scuola, e riservarlo solo alle vacanze. Ma di che scuola si trattava? Emerge un contesto fatto di studenti distratti (o impauriti?), descritti come “capelloni” di buona famiglia, tenuti a bada dal maestro – soggetto che Henri-Irénée Marrou non esita a definire un «povero diavolo»3 – grazie al terrore dei suoi strumenti repressivi anziché al fascino delle sue lezioni. Una scuola, insomma, nelle cui aule era davvero difficile «star bene», poiché si viveva sotto costante minaccia della frusta (scutina, virga) o del bastone (ferula).

Malessere e punizioni corporali

Maestro e allievo. Rilievo dal sarcofago di Marco Cornelio Stazio, da Ostia, Parigi, Museo del Louvre.

Causa non secondaria del malessere degli studenti era dunque il fatto che, per citare Stanley F. Bonner, «le punizioni corporali costituissero una caratteristica costante della vita scolastica»4. Ciò soprattutto nelle due prime fasi, il ludus (più o meno l’attuale scuola primaria) e la schola grammatici (sempre a spanne, l’attuale secondaria di primo grado). E proprio a un ludi magister si rivolgeva Marziale nel componimento che abbiamo visto; e della fama del manesco grammaticus Orbilio (114-14 a.C.) – le cui sferzate il poeta Orazio provò da giovane sulla propria pelle – già ho parlato nel numero scorso de «La ricerca»5. Ma anche chi scrive, oggi sessantenne, ha sperimentato robuste tirate d’orecchie e sonori ceffoni dalla sua pur amata maestra elementare, ed era terrorizzato quando in caso di assenza di quest’ultima veniva “smistato” nella classe dove c’era un maestro noto per la sadica abilità nel colpire i polpastrelli dei bambini con un flessuoso righello in legno. Se fosse ancora in vita – cosa che ignoro – potrebbe istruire a dovere i docenti di un distretto dello Stato del Missouri, dove recentemente queste punizioni sono state ripristinate: infatti (lo apprendo con sgomento) in USA la Corte Suprema ha stabilito già nel 1977 la loro legittimità, demandandone il reale utilizzo alla legislazione dei singoli Stati6.

In realtà, le punizioni violente – familiari o scolastiche – erano già sconsigliate nella stessa antichità da più di una voce liberal. Tra queste mi piace ricordare le tesi sostenute nel trattatello dello Pseudo-Plutarco De liberis educandis7, scritto in greco ma di età imperiale romana, che si rivolge ai padri; e soprattutto le parole di Quintiliano (35 ca. – 96 d.C.), altro grande autore di età flavia, che si rivolge invece proprio agli insegnanti.

L’opinione di Quintiliano,
 maestro di humanitas

Ecco cosa dice a tale proposito Quintiliano in un noto passaggio della sua Institutio oratoria (1, 3, 14-16):

14. […] Non mi piace affatto che i discenti subiscano punizioni di tipo corporale, per prima cosa perché è indecoroso, indegno di un uomo libero e per di più in contraddizione col diritto (la cosa invece ha un senso se si parla di persone di età diversa); secondariamente perché, se uno ha un’indole così rude da non riuscire a essere migliorata a furia di semplici rimproveri verbali, non si piegherà neanche sotto i colpi di frusta come i peggiori fra gli schiavi; infine poiché non ci sarà neanche bisogno di questo genere di punizione se chi si fa carico di sorvegliare gli studi garantirà sempre la sua presenza costante. 15. Ai nostri tempi sembra opportuno, oserei dire per la trascuratezza dei pedagoghi, che i ragazzi siano corretti in modo tale da non essere obbligati a fare ciò che è giusto, ma da essere puniti per non averlo fatto. E poi una volta che si sia costretto un bimbo con le percosse, che cosa si farà a un ragazzo con cui non si può usare questa forma di intimidazione e al quale vanno insegnate cose più difficili? 16. Aggiungi che a coloro che le prendono sono capitate spesso, per il dolore o per la paura, cose orribili a dirsi e destinate a essere motivo di vergogna: questa paura abbatte e deprime lo spirito e spinge a rifuggire e a odiare persino la vita stessa8.

Poiché in questo numero trattiamo di benessere, non possiamo che dare particolare rilievo all’ultima frase del brano, relativa alle conseguenze psicologiche delle punizioni; queste, come ha scritto José Manuel Prellezo, si manifestavano spesso nelle umilianti forme «di un vero e proprio rituale: il ragazzo era costretto a spogliarsi fino al perizoma, veniva messo sulle spalle di un compagno e poi frustato con verghe dal maestro9». Insomma, a me pare che Quintiliano possa essere a tutti gli effetti inserito nel pantheon della pedagogia d’avanguardia, in quanto maestro di humanitas, cioè di attenzione all’uomo in quanto uomo, e quindi davvero attento al valēre degli studenti. Certamente non ha torto Luciano Canfora quando denuncia anche i limiti del modello educativo quintilianeo, basato – egli scrive – «sull’elogio del primo della classe … sull’esaltazione della aemulatio, senza che mai se ne indichino anche i lati negativi10», ma è bene ricordare che nel I secolo d.C. i tempi di Maria Montessori erano ben lontani dal venire!

Quando un santo perde la pazienza

Sandro Botticelli, Sant’Agostino nel suo studio (foto Wikicommons).

Benessere e/o malessere degli studenti sono comunque da sempre connessi con la condizione dei docenti. Dunque non ci stupiamo se nelle aule del ludi magister o del grammaticus – frequentate da ragazzini – le inquietudini di questi ultimi abbiano prodotto una sorta di “corto circuito” associandosi alla demotivazione dei loro insegnanti, spesso alla base degli atteggiamenti repressivi che abbiamo visto. Ma che succedeva quando questa irrequietezza, questo malessere, toccava gli studenti più grandi, e li portava a essere indisciplinati anche nelle scuole di retorica destinate ai figli della classe dirigente? Succedeva che anche un santo potesse… perdere la pazienza!

Ce lo dimostra Agostino (354-430 d.C.), futuro vescovo di Ippona e padre della Chiesa, ma in gioventù professore di retorica, il quale ci racconta nelle sue Confessioni (5, 8, 14) come – logorato dalla cattiva condotta degli allievi di Cartagine – abbia voluto trasferirsi a Roma:

A raggiungere Roma non fui spinto dalle promesse di più alti guadagni e di un più alto rango, fattemi dagli amici che mi sollecitavano a quel passo, sebbene anche questi miraggi allora attirassero il mio spirito. La ragione prima e quasi l’unica fu un’altra. Sentivo dire che laggiù i giovani studenti erano più quieti e placati dalla coercizione di una disciplina meglio regolata; perciò non si precipitano alla rinfusa e sfrontatamente nelle scuole di un maestro diverso dal proprio, ma non vi sono affatto ammessi senza il suo consenso. Invece a Cartagine l’eccessiva libertà degli scolari è indecorosa e sregolata. Irrompono sfacciatamente nelle scuole, e col volto, quasi, di una furia vi sconvolgono l’ordine instaurato da ogni maestro fra i discepoli per il loro profitto; commettono un buon numero di ribalderie incredibilmente sciocche, che la legge dovrebbe punire, se non avessero il patrocinio della tradizione. Ciò rivela una miseria ancora maggiore, se compiono come lecita un’azione che per la tua legge eterna non lo sarà mai, e pensano di agire impunemente, mentre la stessa cecità del loro agire costituisce un castigo; così quanto subiscono è incomparabilmente peggio di quanto fanno. Io, che da studente non avevo mai voluto contrarre simili abitudini, da maestro ero costretto a tollerarle negli altri. Perciò desideravo trasferirmi in una località ove, a detta degli informati, fatti del genere non avvenivano11.

Agostino probabilmente esagera un po’, perché vuole legittimare il suo trasferimento in Italia a partire dal 383 d.C. prima a Roma e poi a Milano, dove l’incontro col vescovo Ambrogio lo porterà nel 386 d.C. a convertirsi. È però certo che vi fossero – allora come oggi – realtà didatticamente più difficili, non necessariamente per il contesto socio-economico di sottofondo. Infatti l’Africa del Nord, nel IV secolo d.C., godeva probabilmente di maggior benessere della vecchia e scalcagnata Roma, la quale doveva apparire come una sorta di “nobile decaduta” che, senza più il rango di capitale politica, era invece logorata da numerosi problemi sociali.

Cosa provocava, allora, la demotivazione o l’agitazione dei ragazzi più grandi come quelli di cui parla Agostino? Cosa minava il loro benessere, dato che il retore di certo non li bastonava (se mai li doveva «tollerare», dice il futuro santo) e le loro famiglie erano probabilmente agiate?

Io non sono un pedagogista né tantomeno uno psicologo, e sicuramente per rispondere alla domanda che ci siamo posti non bastano neppure le mie competenze antichistiche – che pure non rinnego – anche perché sarebbe scorretto fare generalizzazioni di tempo e di spazio. È però vero che frequento da oltre un trentennio le aule scolastiche, e ho imparato col tempo a scorgere nelle posture, negli sguardi, nelle parole dei miei studenti di liceo uno stato di benessere o malessere e – più spesso – una condizione ondivaga tra queste due. Ciò perché la scuola oggi – come pure ai tempi di Roma antica – è sì momento fondamentale di formazione, di crescita, socializzazione; ma è anche un luogo dove qualche volta non si vorrebbe stare, a prescindere da tutto.

La finzione romanzesca:
 il Lucio di Valeria Parrella

Mi piace a tale proposito citare un caso letterario, dunque fittizio, anche se a mio avviso illuminante: è quello di Lucio, giovane e nobile protagonista del recente romanzo La fortuna di Valeria Parrella ambientato in età romana imperiale12. Di origini pompeiane, egli viene mandato dal padre a Roma, a frequentare la prestigiosissima scuola di retorica proprio di Quintiliano, dove si imbatte in compagni del calibro di Plinio il Giovane e dell’esuberante Marziale. Con loro si trova bene, eppure tra i banchi si annoia perché il suo sogno è navigare, e pertanto Marziale chiede a Quintiliano: «Ma che ci viene a fare a scuola questo qui?» – aggiungendo poi, rivolto a Lucio – «Non ce l’hai un padre potente che ti faccia far carriera invece di questa merda?». La sua risposta non si fa attendere, ed è – come si suol dire – a tono: «Eh, purtroppo sì, maestro, ma mio padre pensa che per far carriera questa merda serva».

Sì, qualche volta la scuola è percepita come imposizione, come forma di gratificazione per gli altri (genitori, professori etc.), prima che di costruzione di una propria identità umana e culturale: avveniva così, probabilmente, anche nelle aule dove insegnava quel grande maestro di humanitas di cui già abbiamo parlato. E avviene anche nelle nostre classi, dove spetta a noi docenti fare percepire ai giovani la loro centralità nel processo educativo, cercando anche, laddove necessario, innovative strategie didattiche13.

Un altro Lucio, allievo di don Milani

Se poi quella brutta parola detta da Lucio dovesse comparire anche nel loro lessico (qualcosa di simile ho sentito durante il tempo del lockdown), potremmo sempre obiettare citando le parole di un altro Lucio (interessante omonimia!), il piccolo contadino con «36 mucche nella stalla», studente di don Lorenzo Milani a Barbiana, il quale affermò: «La scuola sarà sempre meglio della merda». La “sentenza”, contenuta nella celebre Lettera a una professoressa, seguitava così: «Questa frase va scolpita sulla porta delle vostre scuole. Milioni di ragazzi contadini son pronti a sottoscriverla»14. E per quel che vale la sottoscrivo anch’io, e credo la sottoscrivano anche milioni di studenti pur non contadini; perché se è vero che a scuola può esserci malessere, è altrettanto vero che reale benessere, per i giovani, senza scuola non può esistere.


NOTE

  1. M. Reali, Vita da prof. nella Roma antica, in “La ricerca”, maggio 2022, anno 10, Nuova serie, n. 22, pp. 35-39.
  2. La traduzione usata è: Marziale, Epigrammi (a cura di S. Beta), Mondadori, Milano 1995, 2 voll., con numerose riedizioni.
  3. H.-I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, Edizioni Studium, Roma 1971, p. 356.
  4. S. F. Bonner, L’educazione nell’antica Roma. Da Catone il Censore a Plinio il Giovane, Armando editore, Roma 1986, p. 181.
  5. Cit., cfr. nota 1.
  6. La stampa ne ha dato ampio riscontro; io l’ho appreso in primis da M. Basile, Alunni indisciplinati: il Missouri autorizza le punizioni corporali, in “La Repubblica”, 26 agosto 2022.
  7. L’opera, di dubbia attribuzione, è compresa nei Moralia di Plutarco, oggetto di una recente, ottima, edizione: Plutarco, Tutti i Moralia (a cura di E. Lelli e G. Pisani), Bompiani, Milano 2017. Segnalo anche l’importante studio: S. Gastaldi, Le responsabilità educative dei padri nel De liberis educandis dello Pseudo-Plutarco, in “Civitas educationis”, X, 1 (2021), pp. 71-86.
  8. La traduzione usata è: Quintiliano, Istituzione oratoria (a cura di S. Beta, E. D’Incerti), Mondadori, Milano 1997-2001, 4 voll., con numerose riedizioni.
  9. R. Lanfranchi, J. M. Prellezo, Educazione, scuola e pedagogia nei solchi della storia, vol. 1, LAS, Roma 2009, p. 181.
  10. L. Canfora, L’educazione, in AA.VV., Storia di Roma, vol. 4, Einaudi, Torino 1989, p. 763.
  11. La traduzione usata è: Agostino, Le confessioni (a cura di C. Carena e M. Pellegrino), Città Nuova, Roma 1965. Ora disponibile al sito www.augustinus.it.
  12. V. Parrella, La Fortuna, Feltrinelli, Milano 2022. Il brano citato più avanti si trova a p. 74.
  13. Troviamo buoni suggerimenti in tal senso in D. Lemov, Teach Like a Champion. 62 tecniche per un insegnamento di successo, trad. it. A. Nesti, “I Quaderni della Ricerca” n. 38, Loescher, Torino 2018.
  14. La celebre Lettera a una professoressa, opera collettiva degli allievi della scuola di Barbiana fondata da don Lorenzo Milani, è del 1967. La tradizionale edizione di riferimento è quella del 1976, uscita per i tipi della Libreria editrice fiorentina, Firenze.
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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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