A scuola imparo il rispetto per l’arte

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Tra i diversi metodi didattici che utilizzo, ho una predilezione per il lavoro sulla relazione orale, che si fonda, in sintesi, su brevi lezioni tenute dagli alunni e dalle alunne. Seguo ormai una procedura che ho perfezionato nel tempo.

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Per prima cosa chiedo ai ragazzi di scegliere un argomento che sono disposti a presentare alla classe, poi, dopo aver richiamato alla memoria il funzionamento e le regole della relazione orale, assegno loro per l’esposizione un tempo variabile dai 5 ai 15 minuti, e fisso dei veri e propri appuntamenti durante la settimana.
Quando è il momento, a turno, ciascuno può esporre servendosi della lavagna, di pannelli, di immagini proiettate dal mio computer portatile. La valutazione avviene sulla base di indicatori che sono stati elaborati con la classe: chiarezza e comprensibilità delle informazioni; adeguatezza del registro linguistico; adeguatezza e chiarezza della voce e del linguaggio non verbale; conoscenza degli argomenti trattati.
Ho assistito, in questi ultimi anni, a lezioni tra le più disparate e curiose, che hanno quasi sempre suscitato il mio interesse e mi hanno costretto a stare attento, in rispettoso silenzio. Grazie ai miei alunni, per fare solo un esempio a me particolarmente gradito, ho imparato che i fondamentali dell’hip hop sono il b-boying (la cosiddetta breakdance: così la chiamavamo noi ragazzi degli anni ’80 cresciuti davanti alla tv commerciale), il MCing (che io chiamavo rap), il DJing e il writing, a cui si può aggiungere il beatboxing, l’arte di ricreare ritmi e suoni (solitamente quelli delle percussioni, ma non solo) con la bocca. Quattro elementi più uno che vanno a comporre un quadro complesso e articolato, di cui occorre avere consapevolezza per evitare i tranelli del mercato, che ci ha abituato a delle semplificazioni (il rap, la break, appunto) irritanti ai più esperti. Mi accade qualcosa di analogo – cerco di spiegare io ai ragazzi – quando qualcuno definisce Giuseppe Ungaretti un poeta ermetico, o argomenta sul decadentismo di Myricae. Immagino che anche per loro sia dura dover parlare con uno che non conosce i principi morali di Zulu Nation o non ha mai sentito nominare Afrika Bambaataa, e apprezzo molto – ora che sono più consapevole della mia ignoranza – la pazienza a tratti carica di compassione che dimostrano quando cerco di capire attraverso lo studio di pochi minuti ciò che essi hanno imparato in ore, giorni e anni di pratiche, conversazioni e ascolti.

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Ma, oltre al guadagno in conoscenze, che posso usare per impostare in modo più efficace le mie lezioni sulla letteratura, in questi giorni ho avuto modo di cogliere qualcosa di fondamentale per il mio rapporto con la città e con l’arte in generale. È successo un po’ per caso, quando ho visto su uno dei social network che frequento abitualmente un link a un articolo uscito sul Corriere della Sera di Bologna dedicato a Blu, considerato uno dei dieci writer più importanti del mondo dal quotidiano The Guardian. Pur senza aver mai sentito parlare dell’artista, ero sicuro di conoscere una sua opera: un graffito che proprio di recente ero andato a osservare da vicino alla cittadella dello studente della mia città, dove da anni lo ammiravo solo di sfuggita, transitando con l’auto.
World Wide Trap – questo il titolo dell’opera – rappresenta una folla di persone disposte in file ordinate, una dietro l’altra. Ogni personaggio è connesso all’altro da un cavo collegato al cranio, in modo da formare un’unica catena che sembra terminare in un uomo con la testa conficcata nello schermo di un computer.
Pare che campeggi sul muro dal 2004, anno dei mondiali di atletica juniores. È in quell’occasione – mi ha raccontato il direttore del Centro delle Arti Visive di Grosseto, Mauro Papa, intervistato al telefono – che Blu era stato invitato da un altro noto writer cittadino per conto del comitato organizzatore, che voleva far decorare il palazzetto dello sport. Si dice che dopo aver realizzato dei grandi atleti sulla parete del palazzetto, Blu abbia preso l’iniziativa di realizzare il suo World Wide Trap. Un regalo alla città che, sostiene Mauro Papa, è stato apprezzato dagli studenti della cittadella, i quali, pur non conoscendo la notorietà dell’artista, hanno sempre portato rispetto al graffito, che ora può essere considerato una delle opere di arte pubblica più importanti della città.
Ho provato a interrogare i miei alunni, mostrando loro una foto del graffito o semplicemente descrivendolo. E ho scoperto che tutti hanno ben presente l’opera e che, pur non conoscendone l’autore e senza la benché minima idea della sua importanza, sono in grado di parlarne con competenza, argomentando sul suo significato e sostenendone il valore. Per loro si tratta di un’opera d’arte bella. Tutto qui. Ed è vero che la rispettano. Cosa chiedere di più a dei nuovi cittadini di un mondo che si crede decadente?

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Simone Giusti

ricercatore, insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale L’onesta brigata. Per una letteratura delle competenze, per il triennio delle secondarie di secondo grado.

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